1984

di Simone Basso, Indiscreto
10 SETTEMBRE 2010

Laurent Fignon nel 1983 aveva vinto da matricola una Grande Boucle epica, piena di colpi di scena e fortunata. Infatti, senza la caduta al rifornimento della maglia gialla Pascal Simon (il dì dopo Bagnères de Luchon), il suo grande Tour sarebbe rimasto molto probabilmente in bianco, ovvero con le insegne del miglior esordiente. 
All’edizione 1984 ci arrivò invece con la rabbia e la nausea accumulate in un Giro d’Italia degno di uno spaghetti-western: il parigino aveva perso la rosa all’epilogo di Verona, dopo tre settimane di polemiche furiose. Per favorire Francesco Moser, il patron della corsa Vincenzo Torriani e la carovana intera permisero al trentino ogni tipo di vantaggio casalingo: dalla cancellazione dello Stelvio alle scie motoristiche e oltre. 
Il punto di partenza di quel Fignon fu però rappresentato dalla cavalcata dei Monti Pallidi, la Selva-Arabba, il giorno che sgominò il plotone realizzando la prima vera impresa solitaria nella sua carriera da pro'. Non fu quindi una sorpresa, poco tempo dopo, il suo assolo sul circuito classico di Plouay, che gli regalò il tricolore di Francia.

Alla vigilia della partenza da Montreuil-Noisy le Sec, un segnale chiaro e forte; non solo all’avversario principale, il suo ex capitano Bernard Hinault, ma anche al diesse Cyrille Guimard, deus ex machina dello squadrone Renault. Il biondo aveva accompagnato il Tasso nella campagna vincente italiana del 1982, capeggiando anche la classifica per una giornata, e fu decisivo nella Vuelta dell’anno seguente quando spianò la strada al proprio boss sul Puerto de Serranillos. Gorospe, in amarillo, crollò e Le Bleireau fece la differenza andando verso Avila: quel Giro di Spagna, arricchito dal settimo posto del luogotenente in rampa di lancio, fu l’ultima grande vittoria del bretone con l’effigie della nota casa automobilistica. I rapporti sempre più deteriorati con il diesse padre-padrone, e lo stop per la tendinite a un ginocchio, furono la scintilla per la creazione di una nuova corazzata francese; supportata dalla montagna di franchi di Bernard Tapie, La Vie Claire spezzò l’antico duopolio Renault-Peugeot. Così il Tour rappresentò anche un regolamento di conti tra la nouvelle vague del ciclismo transalpino, quella dei due Bernard, e la Sorbonne del Maestro Guimard.

Scenario perfetto un Giro di Francia davvero anni Ottanta, disegnato dal genio sadico di Félix Levitan, ovvero un massacro comprendente oltre 145 chilometri contro il tempo (più una cronosquadre di 51) e cinque tapponi di montagna con quattro arrivi in alta quota; tanto per far capire meglio l’antifona, due frazioni di trasferimento (Nantes-Bordeaux e Crans Montana-Villefranche du Beauvois)  di 338 e 320,5 chilometri. 
Su quel percorso tremendo il duello fu impari, malgrado l’illusione del cronoprologo vinto da Hinault; l’egemonia tattica dei gialloneri venne esaltata da un personale di altissimo livello: oltre a Fignon e ai fratelli Marc e Yvon Madiot, anche l’esordiente di lusso Greg Lemond, campione mondiale in carica. 
Il progetto tecnico di Guimard prevedeva una sorta di tenaglia dei due giovani rampanti per inquietare il Tasso, ma la strada rivelò una realtà molto più netta: i Cyrille-boys si aggiudicarono la Louvroil-Valenciennes, il giorno dopo la vittoria di Marc Madiot, e riuscirono a piazzare Vincent Barteau (nuova maillot jaune) nella fuga-bidone della Bethune-Cergy Pontoise.

Il primo braccio di ferro tra i grandi a cronometro, nella settima tappa Alencon-Le Mans, fu appannaggio di un Fignon straripante: pedalando per la prima volta su una specialissima con il manubrio a corna di bue, il parigino distanziò Sean Kelly di 16 secondi e Hinault di 49. Con la prepotente affermazione dell’ennesimo superdotato della nidiata, quella di Pascal Jules a Nantes, gli scalpi di giornata della Renault arrivarono già a quattro. Eppure, nell’antipasto pirenaico della Pau-Guzet Neige, cominciò la battaglia vera: dietro l’azione decisiva di Jean-René Bernaudeau (altro ex dal dente avvelenato), Veldscholten e Millar, Lucho Herrera si presentò alla platea dei suiveurs con uno dei suoi exploit. Mentre lo scozzese (irraggiungibile) si aggiudicò la tappa, saltò gli altri due fuggitivi con una facilità quasi irrisoria; nel plotoncino degli eletti, Lorenzo staccò Bernardo di altri 47 secondi. L’approccio ai moloch alpini (la Rodez-Domaine du Rouret in pieno Midì) fece crescere ulteriormente l’attesa: quel pomeriggio, dietro al tentativo vincente di Fonzie De Wolf (il fiammingo troppo bello per essere un campionissimo), i duellanti si isolarono con Anderson e Winnen.

Il primo uppercut di Fignon fu nella cronoscalata di La Ruchère, vinta dando mezzo minuto al rivale; il secondo, il knock-out definitivo, si verificò nella Grenoble-L’Alpe d’Huez: il bretone tentò un colpo di mano dopo la Còte de Laffrey, ma il parigino (con il paraflux nelle vene) lo lasciò sfogare aspettando l’erta finale. L’immagine di Laurent, ex sottoposto del Tasso, che passò senza degnare di uno sguardo l’allora quattro volte vincitore della corsa francese fu l’emblema del suo strapotere; L’Alpe, per la prima volta nella storia del Tour, vide il trionfo di un sudamericano, il fenomenale Herrera. Poco dietro Lorenzo indossò un giallo dittatoriale, con gli avversari ormai distanti in classifica generale. Personaggio sartriano il ventitreenne di Parigi, iconoclasta très chic che demolì per sempre lo stereotipo del ciclista ignorante: un atleta diverso, colto, aristocratico e snob; tutt’altro che ansioso di piacere alla massa.

Ma lo spettacolo del 1984 era appena cominciato: Hinault, nelle per lui inedite vesti del Poulidor, tentò un’altra azione disperata nella Tre Mostri con Galibier e Madeleine a condurre verso La Plagne; Fignon lo umiliò con una progressione esaltante sull’ultimo pendio. Se ne andò via con un rapportone bestiale, bastonando anche Grezet, LeMond, Arroyo, Millar, Delgado e inseguendo i fantasmi di Coppi, Bobet, Merckx. All’arrivo, in uno stato di grazia inusuale, dichiarò: “Oggi, sul Galibier, stavo così bene che ho potuto ammirare la bellezza del paesaggio…”. 
A Morzine, scavalcando il terribile Joux Plane, vinse l’asso iberico Angel Arroyo, il torero che rilanciò il movimento spagnolo dopo oltre un lustro di oblio; il ricordo, drammatico, fu quello dell’incidente quasi mortale di Carlo Tonon, umile portaborracce nella Carrera-Inoxpran di Battaglin e Visentini. In Svizzera, propaggine estrema dell’odissea alpina, ci si inerpicò verso Crans Montana: nel circuito finale rimasero la pantera gialla, il coequiper Jules, il colombiano Wilches e il pericolosissimo Arroyo. Negli ultimi metri della contesa il despota occhialuto, con una lucidità tattica luciferina, osservò il capitano della Reynolds con la mano sulla levetta del cambio, prossimo all’attacco, e lo precedette con uno scatto felino. Poker! La cinquina sarebbe arrivata nella crono di Villefranche en Beaujolais (per 48 millesimi di secondo su Sean Kelly), malgrado una foratura a pochi chilometri dal traguardo.

I Campi Elisi annunciarono “La prise du pouvoir” (cfr. Le Miroir du Cyclisme) definitiva, come chiarì l’eloquente classifica finale: 1. Laurent Fignon (Renault) in 112 h 03′ 40″, 2. Bernard Hinault (Le Vie Claire) a 10’32”, 3. Greg LeMond (Renault) a 11’46”, 4. Robert Millar (Peugeot) a 14’42”, 5. Sean Kelly (Skil) a 16’35”. 
Razzìa completata dal trionfo collettivo della banda-Guimard: dieci tappe e il premio di miglior giovane a LeMond; apice di una concezione del mestiere moderna, ma ben lontana dalle esasperazioni che ne avrebbero caratterizzato gli anni successivi. 
In quei mesi l’americano cresciuto in giallonero accettò la corte di Paperone Tapie e Jean-Francois Bernard, la nuova grande promessa francese, preferì i colori sgargianti de La Vie Claire a quelli della Renault. Fu il cambio della guardia che diede inizio al declino dei Cyrille-boys; l’infortunio di Fignon nella primavera 1985, che lo costrinse a un’operazione chirurgica delicatissima, cambiò i rapporti di forza del ciclismo internazionale. Il Tasso, alle prese con quel Fignon irresistibile, mai avrebbe potuto scrivere cinque accanto al proprio nome sulla tabella dei Tourannosauri.

L’intoccabile della Festa di Luglio 1984 ha pochi paragoni nel dopoguerra della gara regina: Bartali 1948, tra l’attentato a Palmiro Togliatti e i telegrammi di Alcide De Gasperi; l’Hugo Koblet 1951, la motocicletta della Brive-Agen, un’iradiddio comparabile al Merckx 1969, quello di Mourenx. Poi il Fostò Copì 1952 e l’Ocaña che rincorse lo spettro del Cannibale nel 1973. Almeno cinque tappe, nell’anno dei ventiquattro, furono il bottino di pochissimi semidei della moltiplica: dal 1947, il Merckx ’69 (l’unico a vincere anche la generale come il Professore), Maertens 1976, Didì Thurau 1977 (quanto talento sprecato) e il Cannonball Mark Cavendish del 2009. 
Era l’estate di ventisei anni fa e il mondo ci appariva più colorato e più divertente. Robert Millar, lo scozzese maglia a pois, oggi ha cambiato vita e si chiama Philippa York. Pascal Jules, il minotauro amico fraterno del biondino in maglia gialla, morì nel 1987 in un incidente stradale: a ventisei anni, lasciando solissimi la moglie e i due figli. Carlo Tonon perse la memoria, non corse mai più e un giorno decise di andare oltre per spegnere definitivamente il dolore sordo. Laurent Fignon è morto da fuoriclasse, lottando come un leone contro un avversario imbattibile, il 31 agosto 2010. Il grande Bernard Hinault, uomo di mezza età in splendida forma, ha pianto come un bambino ricordando il suo delfino irriverente. Noi, dopo tutta questa strada percorsa, abbiamo capito che anche gli immortali se ne vanno: l’invidia degli Dei, verso questi curiosi atleti dal cuore eccezionale, è ancora troppa.
Simone Basso

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