HOOPS MEMORIES - The Flu Game



11 giugno 1997, «Delta Center», Salt Lake City (Utah)
Finali NBA, gara-5, Utah Jazz vs. Chicago Bulls 88-90

di Christian Giordano, Black Jesus #1

Notte prima degli esami. Prova pratica di gara-5 delle Finali NBA 1997, Michael Jordan si sveglia di soprassalto, stanco e tutto sudato ma infreddolito. Nessuno ha mai saputo se quel malessere fosse dovuto a un’intossicazione alimentare da cibo avariato (forse la pizza della sera prima), o ad altri fattori, non ultima l’altura di Park City. 

Alle otto del mattino una guardia del corpo di “Air” bussa alla porta di Chip Schaefer, fisioterapista dei Bulls, Michael ha più di 39ºC di febbre e se ne sta rannicchiato nel letto, in posizione fetale, dopo una notte agitata, insonne, da incubo. Schaefer gli attacca un flebo per restituire liquido a quel corpo indebolito e quasi disidratato. Michael non si regge in piedi; ha la nausea, un fortissimo mal di testa e un aspetto orrendo. Chip riesce in qualche modo a garantirgli qualche ora di riposo, rimuginando sul fatto che, in quello stato, un signor Jordan qualsiasi sarebbe rimasto a letto per una settimana e un qualunque altro giocatore non sarebbe mai sceso mai in campo la sera stessa. Se però se c’era uno che poteva riuscirci, quello era Michael. Lui il «miracolo» avrebbe potuto farlo. E magari giocando pure una gran partita.

Jordan non partecipa alla seduta di tiro mattutina, chiaro segnale che qualcosa non va. Dalle prime, frammentarie notizie, a circa tre ore dal tip-off, la sua assenza sembra certa. Poi si sparge la voce che forse, stringendo i denti, potrebbe farcela. Intanto l’opinionista tv della Fox, James Worthy, ex campione dei Lakers e compagno di Jordan a North Carolina nell’anno del titolo NCAA del 1982, accetta scommesse sulla presenza di Michael in campo: «Non solo giocherà ma lo farà alla grande. Lo conosco: la febbre non lo fermerà». Negli spogliatoi, poco prima della partita, Jordan ha ancora un bruttissimo colorito e trema per il freddo. Per cambiarsi deve addirittura ricorrere all’aiuto dei compagni, lui che di solito ha a disposizione uno stanzino a parte, una sorta di locker room personale. Le telecamere della NBC riescono a cogliere fin dentro gli spogliatoi lo sguardo sofferente di Jordan, dopo aver già mostrato il campione ancora febbricitante (38°C), che entrava barcollando al Delta Center. La faccia di Michael dice tutto. D’accordo con coach Jackson, MJ decide di essere utilizzato a sprazzi, qualche minuto di gioco e parecchi altri in panchina, e in ogni caso chiedendo lui la sostituzione. Se poi la partita gli offriva qualche ragione per restare sul parquet a soffrire, tanto meglio, significava che i Bulls erano ancora in corsa.

In campo però tutto fa pensare il contrario: nel secondo quarto Utah domina la partita (36-20) ma è proprio in quel momento che i Jazz, non riuscendo a matare i Bulls, perdono la serie. Se avessero tenuto ancora un po’, Chicago avrebbe mollato e cominciato a pensare alla sesta partita, in casa e con Jordan sano. Un Jordan che, a quel punto di gara-5, non avrebbe più avuto motivo di tormentarsi. Mentre i tifosi di Utah che assistono alla gara davanti al maxi schermo, a cento metri dal Delta Center, danzano letteralmente sotto la pioggia abbattutasi all’improvviso su Salt Lake City, Stockton e compagni incappano in un piccolo ma fatale calo di tensione. Chicago riesce a chiudere il primo tempo sotto appena di quattro, 53-49. L’esausto Jordan, che all’intervallo ha a referto 21 punti, ribadisce a Jackson di voler essere impiegato solo per brevi tratti. Naturalmente giocherà per quasi tutti i restanti 24’. Già questo sarebbe eroico, ma “His Airness” trova il modo di completare l’impresa.

A 46” dalla fine, con i Jazz avanti di uno, va in penetrazione, subisce fallo e realizza il primo tiro libero. Sbaglia il secondo ma ne viene fuori un rimbalzo lungo. La palla è preda dei Bulls. A 25” dallo scadere Jordan, lasciato solo soletto in posizione frontale, tira da tre e segna. Utah chiama time-out e Michael, stremato, viene sorretto e trascinato verso la panchina da Scottie Pippen in un’immagine bellissima che dice tutto del rapporto tra i due, dello stato fisico di Jordan, della sua grandezza. Il canestro di MJ chiude la partita e dà a Chicago il 3-2 nella serie. 

Il quinto titolo in sette anni non è ancora vinto ma il passo decisivo è compiuto, grazie a uno straordinario Jordan, che, nelle sue stesse parole, a un certo punto pensava di morire tanto stava male. Secondo Phil Jackson i 38 punti segnati in quella partita, in quelle condizioni, rappresentano il momento più alto della carriera di Michael. Impossibile dargli torto.
CHRISTIAN GIORDANO, Black Jesus magazine

Finali NBA 1997
Chicago Bulls-Utah Jazz

Gara 1 Chicago Bulls-Utah Jazz 84-82 (1-0 Bulls)
Gara 2 Chicago Bulls-Utah Jazz 97-85 (2–0 Bulls) 
Gara 3 Utah Jazz-Chicago Bulls 104-93 (1-2 Jazz)
Gara 4 Utah Jazz-Chicago Bulls 78-73 (2-2)
Gara 5 Utah Jazz-Chicago Bulls 88-90 (2-3 Bulls)
Gara 6 Chicago Bulls-Utah Jazz 90-86 (4-2 Bulls)

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