La redenzione di Virginia
Ultimo Uomo, 9 aprile 2019
Un anno dopo essere stata eliminata al primo turno, la squadra di Tony Bennett ha usato tutta la magia di marzo per vincere il primo titolo della sua storia
Che differenza può fare un anno. Solamente dodici mesi fa Virginia entrava nella storia dalla parte più sbagliata possibile, diventando la prima testa di serie a perdere la partita inaugurale contro una numero 16. Dalla sconfitta contro UMBC ai confetti del Bank Stadium di Minneapolis, i ragazzi di Tony Bennett hanno disegnato un arco narrativo incredibile, reso possibile solo dalla follia collettiva del Torneo più divertente che esista. I Cavaliers da Charlottesville hanno cavalcato lungo i tre weekend come degli uomini in missione, sopravvivendo a tutte le insidie sul percorso grazie ad una difesa impenetrabile, un trio formidabile di realizzatori e qualche spintarella del destino. Sia nelle Elite Eight contro Purdue che nella semifinale contro Auburn, Virginia si è trovata a pochi secondi dall’eliminazione ma è sempre riuscita rocambolescamente a scampare. Anche la finalissima contro Texas Tech è stata contraddistinta da prestazioni preziose nei secondi finali e da esecuzioni perfette sotto pressione.
I Red Raiders arrivavano alle Final Four da underdog ma avendo dimostrato tutto il loro valore vincendo il Titolo della Big12 e dominando lungo il torneo le due squadre del Michigan e la testa di serie Gonzaga. La squadra di Chris Beard, nominato Coach dell’anno pochi giorni fa, è imperniata su una difesa impenetrabile, sempre aggressiva e organizzata a negare ogni soluzione comoda all’attacco avversario. Il realizzatore principale è Jarrett Culver, prossima scelta in lottery, ma è l’equilibrio del gruppo la forza offensiva dei texani.
La partita
Dopo una partenza contratta di entrambe le squadre che subito dava ragione a chi aveva pronosticato una partita a bassissimo punteggio, Ty Jerome e Brandone Francis accendono le rispettive tifoserie, con Texas Tech che risponde colpo su colpo ad ogni tentativo di allungo di Virginia. Con Culver limitato dall’ottima difesa di De’Andre Hunter, è la panchina a regalare le triple che tengono in partita i Red Raiders. Jerome sulla sirena manda i Cavs negli spogliatoi in vantaggio 32 – 29, con Virginia che in stagione è 24 – 0 quando conduce all’intervallo.
Infatti l’inizio della seconda frazione è tutto a tinte arancio. Virginia approfitta della poca concentrazione di Texas Tech e Kyle Guy e De’Andre Hunter costruiscono canestro dopo canestro il vantaggio in doppia cifra. A provare a colmare il gap é Davide Moretti, il primo italiano a scendere in campo in una Final Four, con due bersagli nel traffico del pitturato. Culver trova il primo canestro dal campo dopo quasi venticinque minuti di gioco e comincia ad attaccare con aggressività i cambi difensivi della squadra di Bennett. Ma sono sempre Francis e Kyler Edwards con le loro triple a tenere in scia Texas Tech mentre la partita si avvicina alle battute conclusive. Con poco più di quattro minuti sul cronometro Matt Mooney, il grad transfer da South Dakota ed eroe della semifinale contro Michigan State, segna in catch&shoot i tre punti che riducono lo scarto ad un possesso e poco dopo il senior Odiase completa l’and one per pareggiare i conti.
Da lì in poi una partita che doveva essere dominata dalle difese si accende improvvisamente, con tutti i protagonisti più attesi a dividere il palcoscenico. Moretti infila una tripla fondamentale per rispondere a due canestri in rapida successione di Hunter e Guy, e dopo una grande stoppata di Odiase, Culver riesce finalmente ad evadere dalla guardia di Hunter con una meravigliosa giravolta che vale il vantaggio Raiders. L’ultimo possesso di Virginia arriva con i Cavs sotto di tre punti e Coach Beard prova a far spendere il fallo alla propria squadra per evitare il tentativo da dietro l’arco. Ma Jerome è più rapido di tutti e attacca subito la difesa texana che presa alla sprovvista aiuta troppo profonda e con l’uomo sbagliato, dimenticandosi De’Andre Hunter tutto solo nell’angolo destro. Solo rete.
Sull’ultimo possesso Culver sceglie una tripla forzata che fa suonare il primo ferro e, nonostante un’incomprensione tra Hunter e Guy regali una seconda possibilità a Texas Tech, Virginia si salva nuovamente con un canestro nei secondi finali di gara. Per la prima volta dal 2008 e dal miracolo di Mario Chalmers il titolo viene deciso nei cinque minuti supplementari.
Mooney inizia con una tripla dalla sua mattonella di parquet preferita e poco dopo trova un fortunato rimbalzo sul ferro per portare i suoi sopra di tre a tre minuti dalla fine. Da lì in poi però Texas Tech non riuscirà più a trovare la via del canestro mentre Hunter segna un’altra tripla fondamentale su un semplice flare screen nell’angolo. Senza il contributo di Tariq Owens, uscito per falli da una partita che non avrebbe dovuto nemmeno giocare a causa di una distorsione alla caviglia rimediata meno di quarantott’ore prima, i Red Raiders soffrono la maggior fisicità di Virginia sotto i tabelloni e non riescono a trovare gli stop necessari per tornare in gara. Dall’altra parte Guy è glaciale dalla lunetta e Virginia sigilla così il primo titolo della storia.
Un trionfo che sembra scritto dalla mano sapiente del destino o di uno sceneggiatore con un’insana passione per le storie di riscatto. Tony Bennett è passato in poche ore da essere un coach il cui stile non portava allori una volta arrivati nel mese di Marzo al coronamento di un successo inseguito per una vita. E lo ha fatto grazie ad una sequenza folle di segni del destino, dal canestro di Diakite sulla sirena contro Purdue ai liberi a tempo ormai scaduto di Kyle Guy contro Auburn fino alle esecuzioni nel finale all’arma bianca di stanotte contro Texas Tech. Anche la sempre rigorosa Virginia, la sempre sotto controllo Virginia per infrangere un tabù che durava dai tempi di Ralph Sampson e finire per una volta dal lato giusto della storia ha avuto bisogno di tutta la follia di Marzo.
Lo spettacolo dell’efficienza
In un periodo in cui il dibattito estetico sul gioco ha raggiunto vette confusionarie – da una parte, i reazionari che rimpiangono le finali di Euroclub dei primi anni ‘90; dall’altra chi sostiene che senza almeno una manciata di future stelle NBA sia impossibile vedere della pallacanestro piacevole – questa finale dovrebbe aver messo d’accordo tutte le scuole di pensiero. Ricordandoci che lo spettacolo, in un gioco come la pallacanestro, ha più a che fare con come vengono applicate le idee, più che con le idee in sè. E infatti, senza minimamente snaturarsi, entrambe le squadre hanno dato origine a una partita di alto livello ai due estremi del campo. Difendendo duro, come ci hanno abituato, ma pure eseguendo con precisione in attacco, anche e soprattutto nei momenti importanti.
Alcuni esempi: tra il 4’ e il 9’ della ripresa, ci sono stati 10 canestri su azione in 13 possessi, indice di un’efficienza notevole soprattutto per una partita così importante; mentre i due canestri che hanno di fatto deciso la partita – le due triple di Hunter, prima per il pareggio e poi per il sorpasso in OT e il canestro che avrebbero potuto decidere la partita per TTU, la penetrazione del sorpasso di Culver nei regolamentari -sono arrivati su azione, frutto di scelte ponderate più che di situazioni casuali. Tanto di cappello dunque al grande lavoro sui blocchi di Virginia, e alla capacità di TTU di eludere la trappola difensiva degli avversari, aprendo prima il campo col tiro da tre e poi attaccando gli spazi in entrata. E così, ci si è abbondantemente divertiti anche in una finale in cui si è giocato a ritmi molto bassi, con il primo canestro in transizione segnato esattamente al 30’, una bella conclusione di Moretti dopo essersi divorato tutto il campo. Giusto allora riservare un plauso a due allenatori elogiati in lungo e in largo per i propri sistemi difensivi, e ci mancherebbe!, ma che sono stati troppo spesso bollati come difensivisti, secondo una falsa dicotomia che già nel calcio vacilla, e nel basket proprio non sta in piedi. Vero, entrambe le semifinali hanno avuto momenti da trapanamento del cervello; ma la finale, d’altro canto, ha mostrato picchi di efficienza altissimi. In cui la qualità del sistema imbastito dai due allenatori è emersa forte e chiara.
Sviluppare o rastrellare?
A proposito di dicotomie. Gli ultimi quindici anni di college basketball ne hanno fatta nascere una curiosa: vincere costruendo negli anni, o vincere rastrellando talento? Un dibattito naturalmente aperto dalla pratica degli One-and-Done. I talenti liceali che avrebbero tutto per saltare direttamente nella NBA, ma che, in ottemperanza alla regola che li obbliga ad aspettare un anno prima di passare al piano di sopra, decidono di parcheggiarsi al college per qualche mese. Iniziando a lavorare sulla propria immagine, e ricevendo qualche lezione dai grandi maestri del gioco, più per scelta che per obbligo – potrebbero anche andare in Europa, allenarsi individualmente, o mangiare patatine sul divano. La possibilità di affittare grandi quantità di talento a breve termine ha effettivamente aperto un nuovo modo di affrontare il college basketball: ammassare talento di stagione in stagione, salvo poi perdere tutto dopo un anno e ricominciare da zero.
Una filosofia lanciata da John Calipari e poi seguita, con vari gradi di integralismo, da altri allenatori, tra cui, recentemente, Mike Krzyzewski di Duke. Al di là delle simpatie individuali per questo approccio – nella nostra ingenuità da amanti del college basketball, preferiamo vedere un talento come Zion Williamson che non vederlo – è evidente che assicurarsi i servizi di talenti stellari non basta ad assicurarsi una galoppata nel torneo. Figuriamoci un titolo. Kentucky con Calipari ha vinto una volta, trascinata da Anthony Davis, nonostante varie qualificazioni alla Final Four; la stessa Duke, fatta eccezione per il titolo del 2014, ha spesso salutato anzitempo, come successo quest’anno – eppure, aveva tre delle probabili prime cinque scelte al prossimo draft. Insomma, la scelta di sviluppare i giocatori nel tempo, facendoli migliorare sia individualmente che collettivamente, continua a pagare gradi dividendi. Senza dimenticare che, con ragazzi tra i 18 e i 22 anni, anche solo una stagione in più di esperienza può fare la differenza nel gestire certe situazioni di gioco. Lo dimostrano le due finaliste di quest’anno, ma pure la Villanova che aveva vinto due titoli vinti nei precedenti tre, o la Gonzaga che arriva sempre e comunque al secondo weekend del torneo. Il successo delle squadre “di sistema”, però, non deve far perdere di vista l’importanza del talento individuale. Vero, molti dei protagonisti sono giocatori che non hanno la certezza di un futuro da protagonisti NBA, Kyle Guy, Mooney, lo stesso Moretti. Ma altrettanto importante è stato il contributo di atleti che, a livello tecnico e atletico, hanno qualcosa di speciale. Come appunto De’Andre Hunter e Jarrett Culver.
Duello da lotteria
Entrambi dati per certi in lotteria; entrambi con caratteristiche simili; entrambi reduci da una stagione di livello. Il duello tra Jarrett Culver e De’Andre Hunter ci ha ricordato che la NCAA, nonostante l’importanza dei giocatori di esperienza, non è esattamente una lega di futuri dopolavoristi; ma, anzi, rimane un contesto in cui atletismo e talento hanno la loro parte. Nella fattispecie, il vincitore assoluto è stato Hunter. Prospetto NBA di valore indiscusso, i cui numeri offensivi sono state mascherati dai ritmi bassi della propria squadra: 15 punti, 5 rimbalzi, mezza stoppata e mezzo recupero a partita. Roba da upper middle class, a essere generosi, se non fosse che le medie individuali, già ondivaghe in NBA, diventano quasi carta straccia nel variegato panorama NCAA.
Quello che conta è che Hunter ha fatto vedere tutte le sue qualità, attuali e potenziali, durante questa Final Four. Giocando un secondo tempo della finale favoloso, al di là del merito di aver segnato le due triple che di fatto hanno deciso la partita. Giocatore totale, atletico e potente, offensivo e difensivo, capace di tirare e attaccare il canestro. E con istinti superbi per il rimbalzo in attacco. Il suo movimento in avvicinamento con virata è già un buon punto di partenza; altrettanto lo sono il tiro piazzato e l’abilità a giocare in-between, quella zona tra arco del tiro da tre e area che sta progressivamente perdendo valore per i tiratori puri, ma rimane campo di battaglia importante per chi ha aspirazioni di giocare vicino a canestro. Dovrà sviluppare maggiore aggressività in uno contro uno, soprattutto per le logiche più individualiste della NBA; ma quanto fatto vedere in questi due anni di college è all’altezza, se non addirittura migliore, di quanto avevano fatti vedere ai loro tempi giocatori come Jimmy Butler e Kawhi Leonard, entrambi naturali termini di paragone. Ed entrambe stelle assolute in NBA al picco della loro carriera.
Poco brillante, invece, la Final Four di Jarrett Culver, la controparte da lotteria dei Red Raiders. Ha chiuso con 8/34 al tiro in due partite, ingabbiato da difese che lo hanno preso di mira. Più realizzatore di Hunter, ha pagato il fatto di essere la prima opzione offensiva, il che ha attirato su di lui specifiche attenzioni difensive che Hunter non ha avuto. La mira spuntata di questo weekend non cancella però una stagione sontuosa, in cui è cresciuto enormemente come passatore, e si è proposto come un altro two-way player di grande potenziale. Non vediamo l’ora di rivederli l’uno contro l’altro in futuro. E questa volta, per più di una partita l’anno.
«Get the rigatoni out»
Sempre bello godersi una partita con un nostro connazionale in campo; e sempre difficile darne un giudizio oggettivo, soprattutto su un palcoscenico inedito per un italiano come appunto la Final Four NCAA. Non ci sembra di peccare di sovranismo, però, nel dire che Davide Moretti esca ingigantito da questa Final Four, e più in generale da questa stagione. Caso solo apparentemente simile a Mussini e Della Valle – a differenza dei gli altri due, ha scelto di andare al college dopo aver maturato esperienza significativa a livello professionistico in Europa – il figlio di Paolo ha visto una crescita esponenziale dopo una stagione da freshman difficile. Raddoppiando o addirittura triplicando tutte le sue statistiche individuali, e mostrando una maturità unica nel gestire le situazioni calde delle partite. I suoi canestri hanno tenuto a contatto TTU in apertura; una sua tripla ha sostanzialmente riaperto la finale; e la sua difesa, fisica e aggressiva come quella di tutta la squadra, è stata sempre all’altezza della situazione. Anche in semifinale, con la perla del fallo in attacco subito contro Cassius Winston di Michigan State nel momento-chiave della partita.
Tiratore affidabile, buon passatore, discreto atleta, ottimo difensore, playmaker lucido. «Get the rigatoni out» ha urlato Dick Vitale, folkloristico e famosissimo commentatore tecnico di college basketball, su una di quelle triple. Per quella prima, era stato invece il turno dei linguini, come vengono chiamati negli USA. Agli occhi del pubblico rimane insomma un’aura folkloristica, quasi esotica, attorno alle sue gesta tecniche; fenomeno peraltro condiviso con molti europei che giocano in NCAA, un mondo infinitamente meno globale e più americano-centrico della NBA. Ma rimane anche il ritratto di un giocatore tecnicamente completo, e mentalmente pronto ad affrontare partite fisiche e tirate. Anzi, proprio a suo agio in contesti del genere: il che ci fa ben sperare non solo per la sua carriera, ma pure per le sue gesta con la Nazionale italiana. Non mancheranno sul mercato le offerte europee; e nemmeno gli mancherà spazio a Texas Tech, dopo un anno del genere. Qualunque cosa deciderà di fare, può contare sulla spinta di una stagione importante.
To foul or not to foul?
Nota finale per l’eterna questione che emerge in tutti i finali di partita tirati. Con TTU avanti 68-65 e 12 secondi da giocare, Hunter ha trovato dall’angolo la tripla del pareggio, concedendo ai suoi la possibilità di giocarsi il supplementare e, col senno di poi, vincere. E così, torna prepotentemente a galla un dilemma mai risolto. Meno di trenta secondi da giocare, avanti di 3: fai fallo o difendi? Una domanda tattica legittima, diventata col tempo l’ennesima dicotomia da di qua o di là: la scuola europea va per il fallo; quella americana difende. Al di là del fatto che la divisione territoriale è meno netta di quanto si dica – anche in USA, il fallo intenzionale non è poi così inusuale, con buona pace di Gregg Popovich – la questione rimane aperta. E così, invece di sparare facili sentenze – pur non avendo fatto il corso allenatori nazionali a Bormio, Chris Beard ci sembra abbastanza competente – vale la pena cercare di capire quali siano i fattori in gioco della scelta.
Da una parte, il fallo evita la possibilità di subire tre punti in un sol colpo, ponendo però vari rischi collaterali: regalare tre liberi o addirittura un gioco da quattro punti; fermare il cronometro; "allungare" la partita; dare tempo agli avversari di ricomporsi. Difendere normalmente, invece, concede la possibilità di pareggiare la partita, ma virtualmente esclude il rischio di perderla; senza dimenticare il fatto che la difesa può concentrarsi sull’opzione di chiudere il perimetro, e ha quindi più controllo sulla situazione rispetto a un normale possesso difensivo.
Guardando il possesso in questione, ci sembrava proprio questa l’idea di Beard: invitare Jerome a penetrare, chiudendo il perimetro. Si capisce da come Mooney invita enfaticamente Odiase a cambiare sul blocco di Key, neutralizzando così il suo tentativo di aprirsi per un tiro piazzato ed esponendosi eventualmente a una penetrazione del portatore di palla. Un’opzione che avrebbe consentito di mangiare secondi preziosi, e che non sarebbe stata possibile fermando il cronometro. Poi, certo, il piano è naufragato: la penetrazione è arrivata troppo facilmente; e, soprattutto, l’aiuto dal lato debole è stato troppo profondo, concedendo a Hunter un tiro tutto sommato comodo. Un evidente errore di esecuzione; mentre sul merito della scelta preferiamo rifarci alla discrezionalità dell'allenatore, considerando la complessità dei fattori in gioco e i chiari rischi legati a ciascuna delle due opzioni. Pensare che una sia migliore dell’altra ci sembra folle. Al pari, e forse più di questa incredibile, indimenticabile finale.
Lorenzo Bottini
nasce nel 1989 a Roma. Si laurea in Storia del cinema interessandosi soprattutto dei rapporti con i nuovi media. Folgorato sulla via di Detroit dai due Wallace, ritiene lo sport uno dei pochi modi rimasti per creare modelli comunitari.
Andrea Beltrama
nasce a Sondrio, Valtellina County, e vive a Costanza, al di là delle Alpi. Università a Bologna, poi sette anni a Chicago, dove consegue, tra una partita dei Bulls e l’altra, un dottorato di ricerca. Vorrebbe scrivere un reportage di basket su ogni college di Division I NCAA, e pure un reportage di pesca su ogni porto di Lake Michigan. Mentre pianifica, inganna l’attesa seguendo l'hockey svizzero.
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