MAESTRI DI CALCIO - Brian Clough, Mou prima di Mou


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«I wouldn’t say I was the best manager in the business. But I was in the top one.»
– Brian Clough

di CHRISTIAN GIORDANO © - Guerin Sportivo © 
Rainbow Sports Books © 
   
OBE. Officer of the British Empire, ufficiale (dell’Ordine) dell’Impero Britannico (quartultima fra le cinque classi dell’onorificenza istituita da re Giorgio V nel 1917), per i suoi fan più accaniti; Old Big ’Ead, vecchio testone, per i suoi – altrettanto irriducibili – detrattori.

Comunque si voglia interpretare, la sigla identifica un manager che ha scritto la storia del calcio (non solo) britannico degli anni Settanta-Ottanta. E l’ha fatto in realtà pressoché amatoriali che, dopo il suo trionfale passaggio, sono ripiombate nell’anonimato. 

Mai avute mezze misure: adorato o detestato come capita a chiunque provi (e magari riesca) ad affrancarsi dalla mediocrità. Anche se mediocre, Cloughie, nelle sue molteplici reincarnazioni, non lo è stato mai.

Fenomenale goleador a cavallo fra gli anni Cinquanta-Sessanta con Middlesbrough e Sunderland (251 reti in 274 partite di massima divisione), in campo è stato fra i pochi ex campioni diventati poi grandi allenatori; e fuori, nella pionieristica e ingessata tv dell’epoca, un José Mourinho con quarant’anni di anticipo sull’originale. Il primo Special One. Anche lui con il suo Pep, il nemico fierissimo Don Revie.

Quinto degli otto figli (in realtà sesto di nove, la primogenita Elizabeth morì a 4 anni di sepsi, nda) di Joseph e Sara, Brian Howard Clough nasce a Valley Road (Middlesbrough), Inghilterra, il 21 marzo 1935. 

Lasciata presto la scuola, trova un impiego alla ICI (Imperial Chemicals Industries, la maggiore azienda chimica britannica, nda) e gioca centravanti in club di non league, il Billingham Synthonia e il Great Broughton. 

Nel novembre del 1951 entra nei Ragazzi del Middlesbrough, la squadra per cui tifava da bambino, sulle gradinate di Ayresome Park, sognando di emulare le gesta di Wilf Mannion e di George Hardwick. 

Il primo contratto professionistico lo firma nel maggio 1952, poi parte per la leva, nel National Service. 

Il debutto fra i titolari (fortissimi) arriva solo il 17 settembre 1955, in casa con il Barnsley, in seguito alla serie d’infortuni che hanno falcidiato l’attacco. Una volta in prima squadra non ne esce più e, superata la concorrenza di Charlie Wayman e Lindy Delapenha, è capocannoniere per tre stagioni consecutive senza però riuscire a portare il Boro in Second Division. 

Già allora il lato polemico della sua natura comincia a emergere, perché il club non vuole cederlo nonostante il gran numero di acquirenti e la volontà di andarsene del giocatore, invero espressa sin troppe volte (la prima dopo nove partite). 

Nel novembre 1959 la maggior parte della squadra (il portiere Peter Taylor escluso) firma una petizione affinché a Clough, sempre più arrogante e presuntuoso, siano tolti i gradi di capitano. 

Si scoprirà poi che al ragazzo non andava giù che i compagni scommettessero illegalmente contro la propria squadra, e incassando volutamente quei gol che, una stagione dopo l’altra, erano costati al club la promozione. O perlomeno la chance di giocarsela fino in fondo.

Finalmente, nel luglio 1961, dopo aver segnato 204 gol in 222 partite fra campionato (197 in 213 gare) e coppa, può andarsene. E lui che ti combina? Passa agli odiati cugini, il Sunderland, per 42.000 sterline. 

Nel Wearside diventa subito una leggenda segnando 63 volte in 74 partite (46 in 61 di campionato) in neanche una stagione e mezza. 

L’incredibile media realizzativa (quaranta gol a stagione per quattro annate consecutive dal 1956-57, e cinquina nel 9-0 al Brighton) non basta però a convincere appieno il Ct inglese Walter Winterbottom, che gli concede appena due chance, entrambe nel 1959: con il Galles (1-1) al Ninian Park di Cardiff e con la Svezia (2-3) a Wembley.

Il sogno di una carriera da predestinato gli si spezza nel 1962 insieme con il ginocchio destro nel Boxing Day, come oltremanica chiamano il giorno di Santo Stefano, nello scontro in area con il portiere del Bury, Chris Harker. 

Il sordo rumore dell’impatto ammutolisce il Roker Park. Brian non tornerà in campo per il resto della stagione (e il Sunderland fallirà la promozione) né in quella successiva, quando l’approdo in First Division diventa finalmente realtà. 

Da neopromosso, il Sunderland parte malissimo. Il manager Alan Brown, passato allo Sheffield Wednesday in estate, non era stato rimpiazzato. I tifosi sono in fermento, così Clough si rimette le scarpette in tre occasioni. 

Pur clinicamente guarito, non è però più il giocatore che in 296 partite era andato a segno 267 volte. Torna anche al gol, al Roker Park il 5 settembre 1964, un colpo di testa ravvicinato nel 3-3 con il Leeds United di (eh sì) Don Revie, ma è ormai l’ombra dell’attaccante di un tempo e sia lui sia il Sunderland devono arrendersi: a 29 anni Clough è – alla lettera – un calciatore finito. 

Chiusa la carriera agonistica, entra nello staff tecnico dei Black Cats come allenatore della squadra giovanile e centra subito la finale della FA Youth Cup, la Coppa d’Inghilterra di categoria. 

Pochi mesi dopo, nell’ottobre 1965, diventa il più giovane manager (trent’anni) della Football League accettando la panchina dell’Hartlepool United, in quarta divisione, che guiderà assieme all’amico Peter Taylor, suo compagno ai tempi del Boro. Quello che nel novembre 1959 la lettera non l’aveva firmata, e che adesso, per raggiungerlo, lascia il Burton Albion.

Comincia lì un sodalizio tecnico che segnerà vent’anni di football albionico ed europeo. E che porterà, ma altrove, successi inimmaginabili. 

I due setacciano i pub della città per raccogliere fondi per il club. 

Il 21 maggio 1966 fanno esordire un 16-enne, John McGovern, che poi seguirà Clough ovunque. 

In maggio però la strana coppia Brian & Peter lascia (per il Derby County) il club del Victoria Park dopo aver portato la squadra dal diciottesimo all’ottavo posto e prima di vedere coronato il loro lavoro: la promozione, infatti, i Pools la centreranno nella stagione successiva, la 1967-68, con in panchina Angus “Gus” McLean.

Grazie anche ai loro acquisti in difesa – Dave Mackay e Roy McFarland – la sin lì non ancora premiata ditta Clough & Taylor si rifà vincendo con i Rams la Division Two 1968-69; e tre stagioni più tardi, dopo il sorprendente quarto posto del primo anno, addirittura la Division One.

Come non bastasse, l’anno successivo arrivano il settimo posto in campionato e la semifinale di Coppa dei Campioni persa contro la Juventus (3-1 al Comunale, 0-0 al Pride Park), poi finalista battuta a Belgrado dall’Ajax (gol di Johnny Rep). 

La favola però finisce lì perché, nell’ottobre 1973, dopo una serie di contrasti (eufemismo) con il presidente Sam Longson, la adesso sì premiata ditta saluta il club del Baseball Ground. 

A Derby quasi scoppia la rivoluzione. I giocatori minacciano lo sciopero, ma è tutto inutile: il dinamico duo non tornerà. Neanche un mese ed eccolo ridiscendere in Third Division, al Brighton & Hove Albion, che termina il torneo al 19° posto. 

La stagione seguente il sodalizio si separa. Clough va – udite udite – addirittura al Leeds United per rimpiazzare Don Revie, appena nominato Ct della nazionale inglese. Taylor resta al BHA. 

Cloughie al club dell’Elland Road dura 44 giorni, quelli de Il Maledetto United di David Peace diventato letteratura da film per Tom Hooper. 

Se ne va sbattendo la porta per l’eccessivo potere che i giocatori (specie i veterani, in testa il capitano Bremner, fedelissimo di Revie) esercitano sulla società.

Dopo quattro mesi senza calcio, e una buonuscita di 100 mila sterline, l’8 gennaio 1975 Clough torna nelle Midlands: con un lungo lavoro ai fianchi, il presidente del club, Stuart Dryden, lo convince ad allenare il Nottingham Forest. 

Nel luglio 1976 la strana coppia Clough-Taylor si ricompone e il terzo posto dei Reds, che schierano giovani di qualità come Peter Withe in attacco e Larry Lloyd al centro della difesa, vale la promozione in First Division. 

L’anno successivo il neopromosso Forest vince il campionato e la Coppa di Lega (0-0 dopo i tempi supplementari con il Liverpool a Wembley, rigore di Robertson nel replay all’Old Trafford). 

Fra il 1979 e il 1980, l’apoteosi: due Coppe dei Campioni consecutive.

La prima a Monaco, 1-0 al Malmö (guidato dall’inglese Bob Houghton) con zuccata del centravanti Trevor Francis, futuro sampdoriano e primo giocatore inglese acquistato per un milione di sterline (inutile lo stratagemma antipressioni cloughiano di firmarlo a 999.999, comunque poi salite a 1,1 milioni, considerando le tasse).

La seconda a Madrid, punteggio minimo sull’Amburgo con invenzione della funambolica ala sinistra ribelle John Robertson che, incurante degli urlacci di Clough e Taylor di rientrare, taglia verso il centro, scambia con Birtles e in diagonale buca Kargus sul palo più lontano. 

Due brutte finali (in quella del “Bernabéu” l’assenza dell’infortunato Francis si aggiunse agli acciacchi di Horst Hrubesch, entrato al 46’, e alla giornata-no della star Kevin Keegan) chiudono un’impresa unica. 

Mai una matricola, che sino a un paio d’anni prima era ancora in cadetteria, aveva conquistato due volte il trofeo in altrettante partecipazioni. 

Sarà la più grande sorpresa nella storia del calcio britannico, e forse europeo, fino alla storica Premier League 2016 vinta dal Leicester City allenato da Claudio Ranieri.

In campionato il Forest deve invece accontentarsi della seconda piazza dietro altri reds, l’imprendibile Liverpool di Clemence, Neal, Kennedy, Dalglish, Case e Hansen: 30 vittorie, 4 sconfitte, 85 gol fatti e 16 subiti. Eppure in Coppa dei Campioni i detentori erano riusciti a eliminarlo: 2-0 al City Ground, 0-0 all’Anfield. 

Nel magico 1979 arrivano pure la seconda Coppa di Lega (a Wembley, 3-2 con doppietta di Gary Birtles al Southampton) e la Supercoppa Europea (1-0 al Barcellona in casa, 1-1 fuori; nel 1980 il trofeo continentale va invece al Valencia: 2-1 al City Ground, 0-1 al Mestalla). 

L’Intercontinentale no. Perché, dopo la rinuncia pro-Malmö nel 1979, nel 1980 (ma si giocò l’11 febbraio 1981) il Forest cede a Tokyo contro il Nacional Montevideo per un gol della futura meteora cagliaritana Waldemar Barreto Victorino.

Di lì a due anni la rosa, fra trasferimenti e ritiri, è smantellata. Ingaggi onerosi quali il 19-enne Justin Fashanu (primo calciatore nero costato quanto Francis, e senza lo stratagmma della sterlina in meno), Ian Wallace e Peter Ward non producono i risultati attesi, e il Forest va a fondo. In classifica e nel mare di debiti. 

Taylor si ritira nel 1982 per motivi di salute (e forse per i mancati risultati a fronte dei grandi nomi arrivati), ma un anno più tardi diventa manager del Derby County e si porta dietro, sembra all’insaputa di Clough, l’ultima stella del Forest, John Robertson. 

I due vecchi amici, uno dei più riusciti binomi nella storia del calcio tout court, non si parleranno più. Anche se Brian sarà presente al funerale di Peter, deceduto a Mallorca il 4 ottobre 1990.

Dopo il terzo posto in First Division e la semifinale UEFA del 1984 (2-0 casalingo all’Anderlecht, 3-0 al ritorno con un assurdo rigore concesso dallo spagnolo, e forse non integerrimo, Guruceto Muro e gol decisivo di Erwin Vandenbergh all’88’), il Forest raccoglie due vittorie in quattro finali di Coppa di Lega e due Full-Members Cup. Non realizza però il sogno di Clough, la FA Cup, sfiorata nel 1991 perdendo 1-2 la finale contro il Tottenham Hotspur.

La stagione 1992-93 si chiude in disarmo. Il 22° posto significa retrocessione e Clough, che a quattro turni dalla fine si era dimesso perché un membro del CDA, Chris Wooton, ne aveva rivelato l’alcolismo nell’edizione domenicale di un quotidiano nazionale, dice stop. 

L’ultima gara al City Ground, contro lo Sheffield United, termina con Brian portato in trionfo da migliaia di tifosi “retrocessi” eppure adoranti. 

Sposato con Barbara, tre figli (Nigel, anch’egli buon centravanti ma poi solo discreto allenatore, Simon ed Elizabeth detta Libby), nei suoi ultimi anni Clough si è goduto i nipoti e il giardino, è stato columnist del mensile Four Four Two e ha evitato, per quanto gli fosse possibile, gli eccessi. 

Il 20 gennaio 2003 un trapianto di fegato durato dieci ore gli aveva salvato la vita, che altrimenti si sarebbe interrotta entro un paio di mesi. 

In carriera gli è mancata soltanto l’agognata panchina dell’Inghilterra, incarico che solo l’indole rissosa, la carenza d’istruzione e l’essere politicamente scorretto (vergognoso il suo mobbing, per non dire bullying, sul compianto Justin Fashanu, primo gay dichiarato del calcio inglese) gli hanno negato. 

Mai noto come grande stratega (l’italo-svizzero Raimondo Ponte rivelò poi che al Forest le partite nemmeno si preparavano) o fine psicologo, Clough è stato soprattutto un eccezionale motivatore. 

Ma per quanto compiuto a Nottingham e a Derby, comuni di cui è diventato cittadino onorario, al Vecchio Testone si perdonava tutto. Comprese le accuse (mai provate) di fare la cresta in campagna acquisti. 

Più difficile dimenticare la mancata riconciliazione con l’amico di sempre. Quella no. Quella, OBE non se l’è mai perdonata.

CHRISTIAN GIORDANO, Guerin Sportivo


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