IL TOUR DE TRUMP, L’AVVOCATO DEL DIAVOLO E IL BUCO NERO DI NEW YORK


Il Tour de Trump partiva da Albany, il 5 maggio 1989.
250000 dollari di montepremi, undici tappe, formula open e gran finale ad Atlantic City, davanti (attorno) Trump Plaza.
Un’americanata di successo, la corsa, di sicuro più del casinò. Che, aperto in pompa magna – più Barnum che Luigi XIV – fu un fallimento.
Un bordone classico di Donald: la sua fama (bulimica) è direttamente proporzionale ai suoi fallimenti, alle rovine che si lascia alle spalle, alle sei bancarotte, alle macerie.


Era il 1977 e Stanley Friedman, il ras del Partito Democratico nel Bronx, costrinse la città di New York – nel mezzo di una crisi finanziaria devastante – a un piano urbanistico oneroso. 160 milioni di dollari per 42 anni di sgravi fiscali a un giovane imprenditore di nome Donald Trump, figlio di Fred, il re dei palazzinari del Queens.
Quel regalo, tutto quel denaro, affinché Donald convertisse il vecchio Commodore Hotel nel Grand Hyatt.
Scacco matto, la buona luna di Trump junior – che non aveva nemmeno un piano finanziario – cominciò lì, poiché il burattinaio di Monopoly aveva (da tempo) deciso così.

Il re e la regina del gioco, nella Grande Mela e altrove, si chiamavano Roy Cohn.
Friedman era partner legale di Cohn, Trump era il preferito (il protetto) di Cohn.
L’avvocato del diavolo, in persona, aveva riconosciuto qualcosa di sé in quel figlio di papà, ambizioso, aggressivo e bugiardo.


Roy Cohn è stata la faccia oscena e pop del potere in America.


Divenne un protagonista fabbricando le prove, contro i Rosenberg – durante il Maccartismo – condannandoli a morte (1953). Cohn avrebbe messo all’indice i gay nella macchina governativa, difeso col suo studio legale la mafia (Tony Salerno, John Gotti, etc.), l’arcidiocesi newyorchese, George Steinbrenner e Rupert Murdoch.
Prendeva il té con Nancy Reagan alla Casa Bianca, faceva festa allo Studio 54, escogitava ogni tipo di trucco per non pagare le tasse.
Omosessuale che disprezzava la comunità gay, la irrideva, nascose sistematicamente la sua omosessualità.

Per Cohn la bugia era un espediente narrativo per conquistare
l’interlocutore: contavano il tono, l’impressione di ciò che si afferma,
il rumore (lo sconcerto) che provocava la menzogna, non la realtà dei
fatti che si possono invece ricreare (ad hoc) postumi.
Quando vediamo Trump sostenere fattoidi, in serie, disprezzando le
regole, polarizzando (e modellando) il dibattito sul proprio enorme ego,
una megalomania psicotica, vediamo solo un’interpretazione teatrale
(iperamplificata dallo scenario) del suo padrino, Roy Cohn.


La gara dell’89 – coloratissima – aveva qualcosa di avventuroso e di profetico.
Trump, quando si presentava, rubava la scena: Ed Koch, sindaco di New York, una volta lo definì “un grande venditore ambulante”.
Alla partenza della corsa la faccia di Mario Cuomo, storico governatore dello Stato, era tutto un programma: i rapporti con Donald erano tempestosi.
Il plotone, che in larga parte proveniva dall’Europa, era eterogeneo: Greg LeMond, Eric Vanderaerden, Gert-Jan Theunisse con i dilettanti (di Stato) sovietici e l’olandese Sauna Diana sponsorizzata da un bordello.
A New Paultz, l’arrivo della prima tappa, un gruppo di contestatori brandiva cartelli.

“Trump=Anti-Christ” “Die Yuppie $cum”

Negli stessi anni Wayne Barrett del Village Voice, in diretta con gli eventi, stava testimoniando – con uno straordinario rigore giornalistico e investigativo – l’ascesa di Trump e degli altri squali della città.
New York, il centro del mondo, era diventato un buco nero.


Nella vicenda della Trump Tower c’era già tutto.
Per abbattere il Bonwit, occorreva l’autorizzazione del Board of Estimate che era composto da amici (...).
Il presidente del distretto amministrativo del Bronx Stanley Simon, la cui campagna era stata finanziata da Donald e dal puparo Cohn, quello di Manhattan Andrew Stein, un sodale. Così come Donald Manes, del Queens, stella dei Democratici newyorchesi e compagno di bevute al club 21.


Robert F. Wagner Jr., figlio del vecchio sindaco, presidente della commissione urbanistica, approvò il progetto malgrado le (sue) perplessità. Un palazzo storico di dodici piani, con rifiniture Art Deco, sarebbe stato demolito per far posto a un grattacielo in vetro di cinquantotto. L’architetto Der Scutt, rispettando le misure di Tiffany’s (l’edificio davanti), decise per le lettere della scritta Trump Tower alte 18 pollici. Donald pretese che fossero di 36 perché svettassero in Fifth Avenue.

Per la demolizione del vecchio Bonwit, lucrando sulla manodopera a bassissimo costo, Trump si affidò a William Kaszycki. Che importò duecento operai dalla Polonia: clandestini, sottopagati, turni dalle 12 alle 18 ore, senza protezioni dall’amianto che sbriciolavano assieme alle pietre. Dormivano in gruppi di otto in un motel. I polacchi distrussero anche due bassorilievi, alti 15 piedi, di alto pregio.

Le fondamenta di cemento, 90000 tonnellate, furono assicurate dal capo dei sindacati John Cody.
Un regalo, uno dei più importanti, del maestro Cohn: il boss assicurò i lavori anche durante uno sciopero…

60 anni, otto arresti e tre condanne, Cody era così potente che nel ’73 ebbe Carlo Gambino come invitato – d’onore – al matrimonio del figlio.

All’inaugurazione della Trump Tower, nel febbraio 1983, col sindaco, 10000 palloncini da liberare nel cielo, in New Jersey la S&A di Nick Auletta – posseduta da due famiglie mafiose – lavorava a Trump Plaza.



1986. Times scrisse che la vendita di 251 dei 268 appartamenti della Trump Tower aveva portato un incasso di 277 milioni di dollari. A marzo di quell’anno Stanley Friedman, il kingmaker degli inizi di Donald, fu arrestato e accusato di corruzione da Rudolph Giuliani (sic): sconterà 12 anni di prigione.

Negli stessi giorni Donald Manes, il reuccio del Bronx, coinvolto in un giro di tangenti, si suicidò accoltellandosi al cuore. Roy Cohn morì il 2 agosto, ricchissimo e abbandonato da tutti (pure da Trump), di una grande malattia dal piccolo nome, l’AIDS, che fingeva fosse un tumore al fegato.

Oggi ha una suite regale nella decima bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno. Sfigurato da un’orrenda malattia, aspetta il suo figlioccio Donald a tenergli compagnia.


Alla Trump Tower alloggiavano David Bogatin, esponente di spicco della mafia russa, Robert Hopkins della famiglia Lucchese, il faccendiere italiano Roberto Polo, gli Weinberg legati alla megatruffa Medicaid e Joe Weichselbaum. Spacciatore di cocaina (sulla tratta Miami-Colombia) e proprietario della compagnia di elicotteri che serviva i casinò di Trump. Vadim Trincher, principe delle scommesse (oggi in galera per racket), Paul Manafort, il chairman della campagna 2016 di Trump (incarcerato per bancarotta fraudolenta), Felix Sater della Trump Org (autore di uno schema di Ponzi da 40 milioni). Persino Jean Claude Duvalier, il dittatore di Haiti, aveva un appartamento.


Due anni, il caos gestionale di alcuni affari dell’impero di Donald, e il Tour de Trump nel ’91 divenne Tour DuPont. Resistette, con una partecipazione niente male per il calendario internazionale (affollato), provando a ingrandirsi fino al 1996.

L’ultima edizione fu stravinta dal giovane fuoriclasse del ciclismo stelle e strisce, Lance Armstrong. I DuPont, una delle famiglie più ricche del mondo, avevano ormai altro di cui occuparsi: l’erede designato e filantropo, John DuPont, freddò a colpi di pistola il campione olimpico di lotta Dave Schultz.


Nel 1991, zombie gli anni Ottanta, uscì “Trump: the Deals and the Downfall” di Wayne Barrett. Una biografia (non autorizzata) che rileggeva e documentava – con una precisione chirurgica – la storia folle e improbabile del magnate del “Greed is Good”.

Era anche il tempo nel quale Bret Easton Ellis pubblicò “American Psycho”. Un (anti) romanzo – geniale – che presagiva la nuova carne, i riflessi, del ventunesimo secolo: Patrick Bateman, il broker che – per sfuggire alla noia – ammazzava, dilaniava, cucinava le persone, è un fanatico di Donald Trump.


Wayne Barrett morì di cancro nel 2017, il dì prima dell’insediamento alla Casa Bianca di Trump. Che è stato un Greg Stillson fortunello, ma ha agito da Nerone degli States (e del pianeta): se il sonno della ragione genera mostri, quello dell’informazione degrada i cittadini, ridotti a clienti, spettatori guardoni e ultrà. “Exit”

Sinapsi consigliate.
  • Wayne Barrett “Trump: the Deals and the Downfall” 1991
  • Bret Easton Ellis “American Psycho” 1991
  • Mike Nichols “Angels in America” 2003
  • “The Eighties” ep. 6 “Greed is Good” 2016
  • Matt Tyrnauer “Where’s My Roy Cohn?” 2019

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