Lakers 2003-2004, il primo superteam dell'era moderna
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Prima di questi Nets, prima di Golden State, prima di Miami. Il superteam assemblato dai Lakers nel 2003-04 doveva essere imbattibile, ma non andò proprio così.
di Claudio Pellecchia - 15/04/2021
Salve, tifosi dei Brooklyn Nets. Non crediate che non veda quanto state gongolando ora che Blake Griffin e LaMarcus Aldridge hanno deciso di unirsi al vostro superteam per provare un anello al dito. E no, i vostri tweet scaramantici che invitano alla prudenza – che poi sono gli stessi che accolsero James Harden a gennaio, prima che si mettesse a dominare senza ritegno – non bastano: intimamente godete e avete già iniziato l’ideale countdown che vi accompagnerà fino all’8 luglio, data in cui è in programma gara-1 delle Finals.
Sognate in grande e fate bene. Lo farei anche io, anzi l’ho già fatto: era l’estate del 2003 e da tifoso Lakers la mia unica preoccupazione era quella di trovare nel calendario della regular season i nove bonus da giocarci per attentare al 72-10 degli “UnbeataBulls” 1995/96. In fondo cosa sarebbe potuto andare storto per la prima squadra in grado di schierare quattro futuri Hall-of-Famers? La risposta sarebbe stata: “tutto”. Ma all’epoca ero fin troppo giovane ingenuo per immaginare che i nove corollari della Legge di Murphy potessero valere anche per il primo ‘super team’ dell’era moderna.
Il triangolo delle Bermude
“Non era molto realistico che potessimo firmarli entrambi visto che eravamo di molto sopra il cap. All’epoca c’erano due exceptions, la mid-level e la bi-annual: Dwight Manley, l’agente di Karl, mi comunicò che avrebbe accettato senza problemi la seconda opzione, in modo da lasciarci abbastanza spazio salariale per prendere anche Gary. Quando chiamai anche il suo di agente la cosa era praticamente fatta”.
Così Mitch Kupchak, storico general manager dei Los Angeles Lakers, avrebbe raccontato a Bleacher Report come fosse riuscito a costruire, nella NBA di inizio millennio, una squadra allenata da Phil Jackson e composta per quattro quinti da Kobe Bryant, Shaquille O’Neal, Gary Payton e Karl Malone. Una squadra pensata per non poter perdere, un “instant team” destinato a passare alla storia, chiamato a vendicare l’onta di un 2002/2003 culminato nell’eliminazione al secondo turno dei playoff contro i San Antonio Spurs e che avrebbe ridotto l’idea stessa di competizione a una questione non di “se” ma di “quando” e “quanto” avrebbe vinto.
Il 16 luglio, mentre la Los Angeles gialloviola – ma anche il resto della NBA e il mondo – si sta ancora interrogando cosa sarà di Kobe Bryant a seguito dell’accusa di violenza sessuale che da qualche settimana ha cominciato a pendere sulla sua testa, arriva l’annuncio ufficiale: “Con Gary aggiungiamo al roster una delle migliori guardie della lega nell’ultimo decennio mentre Karl Malone è probabilmente la miglior ala grande nella storia del gioco. Pensiamo che in questo modo siamo diventati una squadra decisamente migliore” commenta, sardonico, Kupchak.
Tuttavia che le cose potessero non andare esattamente secondo i piani lo si intuisce già durante il training camp alle Hawaii. Al di là di Kobe – che era alla vigilia della stagione che avrebbe preceduto la prima free agency della sua carriera con i Clippers spettatori molto interessati –, delle sue vicende personali e di un rapporto con Shaq che non può più essere ricomposto, il vero problema si chiama ‘sideline triangle’. E a farne le spese sarebbe stato proprio Gary Payton: “È tutto così frustrante” avrebbe detto qualche mese dopo, dopo una sconfitta interna gli Spurs in cui Tony Parker lo avrebbe letteralmente portato a spasso per il campo, anticipando quelli che sarebbero stati i peggiori playoff della sua carriera statisticamente parlando – 7.8 punti di media, 36% dal campo in poco meno di 35 minuti di impiego.
La questione era semplice e irrisolvibile allo stesso tempo: per la prima volta in carriera “The Glove” si deve abituare ad avere molto meno la palla in mano, ricalibrando la sua dimensione creativa per adattarla a un contesto tecnico molto più rigido di quanto immaginasse. E, come se non bastasse, la perdita di brillantezza nel primo passo non gli consente di tenere difensivamente al meglio contro point guard come lo stesso Parker, Nash, Kidd, Iverson, Billups.
Senza contare la difficile gestione dei vari ego all’interno di uno spogliatoio che sembra sul punto di saltare da un momento all’altro ancor prima che la prima palla a due venga alzata nell’opening night dello Staples Center: “Non eravamo una squadra ma una collezione di individualità di alto livello”, avrebbe commentato Derek Fisher.
Il postino, il gigante e l’inallenabile
Eppure l’inizio della regular season sembra confermare le trionfali e trionfanti sensazioni estive. I Lakers vincono 14 delle prime 17 partite – di cui nove consecutive tra il 19 novembre e il 7 dicembre – e sembrano essere abbastanza solidi mentalmente da non farsi distrarre dagli strascichi del processo di Kobe, dalle faide interne, dalla complessa trattativa del rinnovo di contratto di Phil Jackson. La slidin’ door stagionale, però, viene presa dalla parte sbagliata nella notte del 21 dicembre quando di scena a Figueroa ci sono i Phoenix Suns di Stephon Marbury: nemmeno quattro minuti e Karl Malone – che in 19 anni di carriera ha saltato un totale di 10 gare in tutto – è costretto a uscire per una distorsione al ginocchio che lo terrà fuori fino a metà marzo. I gialloviola vincono 107-101 ma entrano in una crisi tecnica che li porterà a perdere 10 delle successive 15 partite, compreso un rovinoso -20 a Sacramento il 16 gennaio: “Karl era il giocatore fondamentale per noi, quello che facilitava l’esecuzione all’interno del triangolo mettendo tutti a proprio agio, specialmente me: il suo infortunio è stato devastante ben oltre gli aspetti tecnici e di campo” racconterà Gary Payton molto tempo dopo.
In effetti, l’infortunio di Malone scoperchia un vaso di Pandora che in pochi si erano impegnati a tenere chiuso. Bryant – che sta vivendo in una dimensione impossibile per qualsiasi altro essere umano, fatta di voli di andata e ritorno dal Colorado che, spesso, lo fanno arrivare sul luogo della partita quando la stessa è già iniziata – entra in modalità ‘me against the world’, litiga con tutti quelli del roster che non si chiamino Derek Fisher e Rick Fox e, poco prima della pausa per l’All Star Weekend, forza la mano con la dirigenza: “ O me o lui”, dove lui sta per Phil Jackson, il coach che lo ha più riprese definito “inallenabile” e che non vede di buon occhio il fatto che possa diventare la pietra angolare della futura ricostruzione della franchigia a scapito di Shaq. Messi di fronte a un vero e proprio bivio generazionale, Buss senior e Kupchak accontentano il livoroso numero 8 e interrompono le trattative con ‘Coach Zen’ gettando le basi per quella che sarà poi la trade che porterà Shaq a Miami l’estate successiva.
Per fortuna il rientro di Malone – 13 punti il 12 marzo nella sconfitta 86-96 a Minneapolis contro i Timberwolves – sembra mettere di nuovo le cose a posto almeno per ciò che riguarda il basket giocato: i Lakers vincono 11 gare consecutive e 14 nelle ultime 17, blindando il secondo posto a Ovest con il 105-104 a Portland del 14 aprile reso possibile da due buzzer beater irreali di Bryant. Il primo per forzare l’overtime sulla difesa oltre il concetto di perfezione di Ruben Patterson – do you remember ‘The Kobe-Stopper’? –, il secondo per strappare la W numero 56 che significa vittoria del titolo divisionale e il vantaggio del fattore campo al primo turno: “Quell’anno persi parecchio peso ed ebbi numerosi problemi al ginocchio e alla spalla. Ancora oggi non mi spiego come abbia fatto a giocare a quel livello nonostante lo stress del processo. Forse perché, in fondo, il basket è sempre stato il mio rifugio, il mio santuario”, dirà nel 2015.
Playoff & D-Fish
Quando, il 17 aprile, i Lakers scendono in campo allo Staples Center per gara-1 del primo turno di playoff contro gli Houston Rockets di Yao Ming, tutta la NBA ha compreso che la cavalcata verso il quarto titolo in cinque stagioni si sta rivelando più complicata del previsto. E la conferma arriva proprio nella serie contro i texani per quanto il 4-1 finale possa trarre in inganno: quel giorno è una tonante schiacciata di Shaq a 17 secondi dalla fine ad assicurare la vittoria di misura (72-71) dopo che sul 69-71 Jim Jackson ha avuto la tripla piedi per terra per il potenziale +5; e a Houston, in gara-4, con la serie sul 2-1 per i giallo viola, serve un Malone da 30 punti e 13 rimbalzi per vincere 92-88 al supplementare.
Al turno successivo ci sono gli Spurs, come l’anno prima. E come l’anno prima si torna da San Antonio sotto 2-0 e con la necessità di rimontare prima di tornare in Texas e provare a strappare la vittoria che indirizzi la serie. In gara-3 serve tutta la strapotenza di Shaq (28, 12 rimbalzi e 5 assist) per fiaccare la resistenza dei ragazzi di Popovich demoliti 105-81, mentre in gara-4 Bryant è protagonista di una prestazione da leggenda e da tregenda: arrivato allo Staples a pochi minuti dalla palla a due causa solito volo di ritorno dal Colorado ne mette 42 (15 solo nell’ultimo quarto) in 44 minuti con 15/27 dal campo nel 98-90 finale.
Ma non è ancora successo nulla. A 5 secondi dalla fine di una gara-5 agonica, con i Lakers in vantaggio 72-71 all’SBC Center di San Antonio, Tim Duncan riceve da Manu Ginobili sulla rimessa: è spalle a canestro, isolato contro Shaq, in una situazione potenzialmente ingiocabile. Tim parte in palleggio con 3.8 secondi sul cronometro, a 2.2 lascia andare il pallone in fade-away, a 0.5 la retina si muove, 0.4 il cronometro si ferma. È finita, deve essere finita, e infatti gli Spurs esultano come se fosse finita. Ma non è finita, non è finita per niente: lo sa Popovich – che pure si è lasciato andare a un inconsueto gesto di stupore per ciò che aveva appena visto fare al suo numero 21 –, lo sa Jackson, lo sa, soprattutto, Derek Fisher. Che ripaga i beneficiari del ‘Memorial Day miracle’ di Mario Elie con la stessa moneta:
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Gara-6 è un massacro, le finali di Conference contro i Timberwolves di Sprewell e Garnett si trasformano in una parziale cicloturistica nel momento in cui Malone riesce a togliere spazi, tiri ed energie (fisiche e nervose) a KG.
Si torna alle Finals, due anni dopo. Ad attendere la squadra che non può perdere si sono i Detroit Pistons di Larry Brown, di Chauncey Billups, di Ben e Rasheed Wallace: come nel 1988 – vittoria Lakers in sette gare – come, soprattutto, nel 1989 quando un secco 4-0 legittimò narrativa, ambizioni e leggenda dei ‘Bad Boys’ guidati da Isiah Thomas. Anche stavolta potrebbe, anzi dovrebbe, esserci uno sweep. In fondo non è questo che dovrebbe fare un ‘superteam’?
Implosione
L’8 giugno 2004, 11 mesi dopo l’annuncio delle firme di Payton e Malone, i Los Angeles Lakers si trovano a dover “contemplare la sconfitta” come direbbero dall’altra parte dell’Atlantico. A 11 secondi dalla fine di gara-2, e dopo aver annullato il vantaggio del fattore campo con l’87-75 di due giorni prima, I Pistons sono avanti 89-86 e ad un passo dal 2-0 nella serie. Dopo il time-out chiamato da Jackson, Kobe Bryant sfrutta la serie una serie di due blocchi verticali consecutivi portati per lui, riceve il consegnato di Luke Walton, si isola in punta contro Rip Hamilton, tre palleggi, arresto, tiro dagli otto metri con mano in faccia, canestro, pari 89. Michael Jordan in purezza.
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I Lakers poi vinceranno 99-91 al supplementare ma, complice altri problemi fisici occorsi al povero Malone e il grande lavoro difensivo di Hamilton e Pince su Bryant e Payton, naufragheranno nelle tre gare centrali al Palace of Auburn Hills – che di lì a qualche mese sarebbe diventato il teatro per il ‘Malice at The Palace’ –, permettendo a Larry Brown di vendicare i ‘suoi’ Philadelphia 76ers del 2001 e ai Pistons di festeggiare il terzo (e, per ora, ultimo) titolo della propria storia: “Bisogna essere onesti, i Pistons giocarono molto meglio di noi, perché erano un meccanismo ben oliato su entrambi i lati del campo. Sono stati estremamente furbi, estremamente cinici, estremamente metodici nell’eseguire ciò che avevano preparato per noi. E hanno meritato” dirà Kobe.
Tanto era bastato per spazzare via in cinque gare il primo ‘superteam’ che l’NBA avesse mai conosciuto.
Titoli di coda
Phil Jackson – Lascerà i Lakers a fine stagione salvo poi farvi ritorno l’estate successiva dopo un 2004/2005 in cui i gialloviola – allenati fino a metà stagione da un Rudy Tomjanovich portato al limite (e forse oltre) dell’esaurimento nervoso – mancheranno clamorosamente i playoff. Da head coach dei gialloviola vincerà altri due titoli nel 2009 e nel 2010, diventando l’allenatore più vincente della storia NBA, un’impresa che viene comunque dopo l’essere riuscito a farsi dare 10 milioni l’anno dai Buss che erano stati costretti a richiamarlo. Il racconto di quella stagione totalmente disfunzionale è uno dei capitoli più interessanti del suo Eleven Rings;
Shaquille O’Neal – Principale sacrificato sull’altare di Kobe, il 14 luglio 2004 viene spedito ai Miami Heat in cambio di Lamar Odom, Caron Butler e Brian Grant. Qualche mese più tardi tornerà a L.A. da avversario in occasione della partita di Natale, togliendosi la soddisfazione di festeggiare la vittoria nonostante i 42 di Bryant. Nel 2005/2006 vincerà il suo quarto e ultimo titolo NBA come spalla di Dwyane Wade: nel roster di quegli Heat c’era anche Gary Payton, che in Florida c’era arrivato via Boston Celtics che, in quella calda estate del 2004, per lui avevano offerto in cambio Chris Mihm, Chucky Atkins e Jumaine Jones. I Lakers, naturalmente, avevano accettato;
Karl Malone – “Vieni a prenderti l’anello che meriti”. Con queste parole Shaq lo aveva convinto a trasferirsi a Hollywood. La terza finale persa – e stavolta Michael Jordan non c’entrava – e i frequenti problemi al ginocchio lo convinceranno a dire basta a 41 anni e dopo 19 stagioni da professionista. Il 12 dicembre 2004 ESPN riporterà lo scoop di un pesante litigio con Bryant a causa di alcuni commenti inappropriati che Malone avrebbe rivolto a Vanessa;
Kobe Bryant – Il 16 luglio, poche ore dopo l’ufficialità del passaggio di O’Neal agli Heat firma un contratto da 137 milioni di dollari in sette anni, diventando il padrone della franchigia e attirandosi non poche critiche per essere stato, nell’immaginario collettivo dei tifosi, l’uomo che aveva distrutto uno delle più grandi dinastie dell’era moderna. Il processo penale per violenza sessuale che così tanto aveva inciso in quella stagione si interrompe il 1 settembre 2004: il procuratore distrettuale ritira tutte le accuse anche perché, qualche settimana prima, la ragazza aveva citato Kobe in una causa civile di risarcimento danni. Nel marzo successivo le parti si sarebbero accordate privatamente per mettere la parola fine sulla vicenda. Nel 2008 Kobe verrà nominato MVP per la prima volta in carriera prima di vincere, nei due anni successivi, altri due titoli. Stando a quanto racconta Jackson questo non sarebbe mai accaduto se, nel frattempo, non fosse diventato un leader e un giocatore migliore;
Derek Fisher – Continuerà a fare da mediatore tra Bryant e Jackson, tra Bryant e i compagni di squadra, tra Bryant e il resto del mondo. E a mettere tiri decisivi ai playoff.
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