Jokic il magnifico e il rinato Murray le pepite di Denver
(Epa) Abbraccio Jamal Murray e Nikola Jokic le stelle dei Nuggets di Denver
La sfida dei debuttanti Nuggets a Miami
di Flavio Vanetti
Corriere della Sera - 1 giugno 2023
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C’è un paradosso nella finale Nba che comincia nella notte italiana tra oggi e domani: la squadra che ha già vinto il titolo in tre occasioni (dopo averlo mancato altrettante volte nell’atto conclusivo) è ritenuta sfavorita al cospetto di chi non ha mai disputato «The Finals» nella sua storia.
I deb sono i Denver Nuggets — la franchigia nella quale Danilo Gallinari ha militato dal 2011 al 2017 —, entrati nella Nba nel 1976 dopo aver fatto parte della disciolta Aba (anche qui zero tituli) e adesso sospinti verso l’agognato rendezvous con la gloria dalla magnificenza di Nikola Jokic.
L’omaccione serbo che miscela personalità, duttilità, potenza e agilità da ballerino guiderà i minatori del Colorado a scovare l’oro? Nikola, un tipo che dispensa con continuità disarmante triple doppie (bottini a due cifre alla voce punti, rimbalzi, assist), ha già ricalcato le orme di grandi All-Star, incluso un certo Wilt Chamberlain. E dopo aver rifilato ai suoi Lakers un secco 4-0 nella finale della Conference Ovest, ha scomodato le riflessioni di LeBron James: «Sei sempre fuori equilibrio quando devi difendere su di lui: segna, va a rimbalzo, passa benissimo la palla. Sì, è fortissimo».
Denver però non è solo lui, il Grande Pigro (questa la nomea che lo segue) eletto per due volte Mvp della stagione regolare. Il coach Michael Malone, finalista già nel 2007 — ma solo come vice dei Cleveland Cavaliers sconfitti dai San Antonio Spurs — ha un altro faro nella squadra. Pure questo non è statunitense, perché ormai nella Nba va così.
Parliamo di Jamal Murray, canadese, 30 punti di media a incontro, uno che è rinato: dopo il grave infortunio del 2021, temeva che Denver lo scartasse; Malone, invece, lo abbracciò e lo rassicurò sul suo futuro. Infatti ora è il centro-motore di un gruppo che dopo i deludenti playoff del 2022 non è stato smantellato ma anzi completato con giocatori capaci di dare vita a un mosaico formidabile.
È sbagliato però pensare che Miami, la seconda squadra nella storia a raggiungere le finali partendo dall’ottavo posto nel tabellone (nel suo caso quello dell’Est), abbia poche chance. Ha tolto di mezzo la Milwaukee testa di serie numero 1, poi ha regolato New York e infine ha realizzato il capolavoro di reagire alla rimonta di Boston (da 0-3 a 3-3) per dominare gara 7 in trasferta.
Erik Spoelstra (bella la sua frase: «Dopo una stagione tribolata non potevamo che prenderci le finali nella maniera più difficile») ha unito una schiera di pirati che attorno a Jimmy Butler (fuoriclasse troppo snobbato) e a Bam Adebayo è pronto all’assalto finale.
Miami ha vissuto l’era dei tre tenori (James-Wade-Bosh) e con loro — e con Spoelstra coach — ha vinto nel 2012 e nel 2013 (il terzo titolo è del 2006). Però se ce la facesse pure stavolta, regalando la gioia di fine carriera e il poker di anelli al 43 enne Udonis Haslem, firmerebbe un’impresa superiore perché la squadra è stata costruita con un numero record di giocatori mai chiamati al Draft o, nella migliore delle ipotesi, scelti in coda al primo giro. Sarebbe insomma il trionfo dei sottovalutati.
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