Spassky, l’uomo che combatté la guerra fredda con gli scacchi
Il campione russo è morto a 88 anni. Nel ’72 perse il mondiale contro Bobby Fischer
Dissidente - Imparò a giocare in orfanotrofio. Sfidò il regime difendendo la Primavera di Praga
28 Feb 2025 - Corriere della Sera
Di Fabrizio Dragosei
© RIPRODUZIONE RISERVATA
In occasione della Partita del secolo con il campione americano Bobby Fischer, veniva presentato come il prototipo dello scacchista sovietico, l’uomo che rappresentava il Cremlino di fronte al mondo libero. Boris Spassky, deceduto a 88 anni, era però tutt’altro che il classico personaggio di regime, un dissidente che non veniva toccato solamente grazie alla sua fama planetaria. Così, dopo quella famosa sconfitta del 1972, durò poco nell’URSS di Leonid Breznev e della Guerra fredda e alla fine fu costretto a emigrare in Occidente. «Dopo aver ceduto la corona mondiale a Fischer era evidente che nel mio Paese non sarei durato a lungo», disse in seguito. La sua morte, comunicata dalla Federazione degli scacchi russa, è avvenuta dopo una vita di malattie, compresi un paio di ictus.
Spassky era nato nel 1937 nell’allora Leningrado (poi tornata al nome zarista di San Pietroburgo). Assieme alla famiglia, era riuscito a fuggire dalla città durante il terribile assedio nazista di 900 giorni che provocò almeno un milione e mezzo di morti.
Finì in orfanotrofio, dove imparò a giocare a scacchi. Ben presto tutti capirono che si trattava di un ragazzo eccezionale: a 18 anni vinse il campionato del mondo junior e divenne il più giovane gran maestro della storia (attualmente il più precoce è Abhimanyu Mishra, americano di origine indiana che lo è diventato a 12 anni). Nell’Unione Sovietica di allora andare avanti negli scacchi non era facile, di fronte a una concorrenza agguerrita. Erano gli anni del gran maestro Mikhail Tal («il mago di Tallinn») campione nazionale, campione del mondo. Fu solo nel 1961, a 24 anni, che Spassky riuscì a diventare il numero uno dell’Unione Sovietica. Nel 1969 arrivò il primato mondiale, strappato a un altro sovietico, Tigran Petrosian. Forte della posizione acquisita, il grande scacchista poteva permettersi di far sentire la sua voce contro il Comitato dello sport dell’Unione Sovietica. Si rifiutava di firmare i documenti collettivi che denunciavano i colleghi emigrati all’estero. Difese apertamente il campione Viktor Korchnoj quando questi fuggì oltrecortina. Nel 1968 giunse a sfidare il vertice del Paese difendendo la Primavera di Praga che venne poi soffocata quando i carri armati dei Paesi del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia.
Mantenne il titolo mondiale solo per tre anni, fino a quella sfida con Fischer che si tenne in Islanda nel 1972, territorio «neutro».
Fischer, che era un personaggio particolare, non si presentò alla data convenuta, il 2 luglio. I sovietici protestarono vivacemente, chiedendo di proclamare campione il loro uomo. Spassky, da gentleman, accettò però il rinvio di nove giorni e i due si trovarono l’11 luglio. Le partite andarono avanti per un mese e mezzo, con alterne vicende. Il primo incontro fu vinto da Spassky, con Fischer che non si presentò al secondo. Poi un totale di 21 partite, con Spassky che al termine di una interruzione dell’ultimo match, non tornò nella sala e per telefono si dichiarò battuto. In seguito, disse: «Perdere il titolo è stato un sollievo enorme. Mi ero tolto un peso e potevo finalmente respirare liberamente, senza più la pressione dello Stato su di me».
I due si ritrovarono per un incontro amichevole nel 1992 in Jugoslavia (vinse ancora Fischer), dopo che Spassky era emigrato a Parigi nel 1976. Nel 2008 il campione russo si recò di nuovo in Islanda a visitare la tomba del suo rivale che si era fatto seppellire in un piccolo cimitero a 50 km da Reykjavík. Ai giornalisti che lo accompagnavano domandò con mestizia: «Sapete per caso se c’è una tomba libera vicino alla sua?».
Commenti
Posta un commento