Luca Guercilena (Lidl-Trek) a Sky: Jonathan Milan al Tour, Espargarò e il modello Atalanta

Luca Guercilena, general manager della Lidl-Trek, uno dei top team mondiali, si racconta a tutto campo: dagli obiettivi al Tour con Jonathan Milan all'idea di far correre Aleix Espargaro al Giro d'Austria. Una lunga intervista con Alberto Pontara e Christian Giordano in cui Guercilena ha parlato dei problemi del ciclismo italiano, a partire dalle polemiche dopo i campionati italiani, e della sua storia personale, raccolta nel libro "Da zero a uno" scritto con Pier Augusto Stagi. E quel paragone con l'Atalanta...
04 lug 2025 - 09:26
di Alberto Pontara e Christian Giordano ©
IN ESCLUSIVA PER SKY SPORT INSIDER ©
Luca Guercilena, general manager della Lidl-Trek ci accoglie di mattina a casa sua, fuori Milano a pochi passi dal naviglio. Una disponibilità rara, una semplicità naturale e una sobrietà disarmante per uno dei manager più importanti del panorama ciclistico internazionale. Visto che ci avviciniamo al Tour de France, si può parlare di una "Force tranquille", una forza gentile. Perché accanto a questi tratti caratteriali e umani c'è il leader che decide e che esprime opinioni nette e chiare. Abbiamo parlato di tantissimi temi, da quelli più di attualità a quelli invece raccolti nel suo libro, scritto con Pier Augusto Stagi, "Da zero a uno", in cui attraverso la sua storia personale ci regala un prezioso vademecum su come interpretare il ruolo di leader.
- Parte il Tour de France e la tua squadra, la Lidl-Trek, ha uno dei gli italiani più in vista e sui quali abbiamo più speranze, Jonathan Milan. Delusione del campionato italiano a parte, come arriva questo Tour? Due tappe alla Valenciana, due tappe e maglia verde allo UAUE Tour e alla Tirreno-Adriatico, una tappa al Delfinato: è già uno dei migliori velocisti al mondo?
"Sì, credo che Jonny sia in questo momento tra i migliori velocisti al mondo e per la sua età ha sicuramente ancora un discreto margine di miglioramento. Poi su pista ha già dimostrato di essere un fuoriclasse. Su strada ha già vinto tanto, il Tour de France è chiaramente sempre una gara a parte, diciamo così. Però senza dubbio Johnny va al Tour con la chiara ambizione di vincere le tappe, possibilmente la prima, visto che ci sarà in palio la maglia gialla".
Possiamo sognare una maglia verde italiana dopo quella a pois di Ciccone nel 2023?
"È ovvio che, come sempre, vincere la maglia verde dipende da quanto sei riuscito a vincere. È difficilissimo portarla a casa solo correndo per far punti, bisogna vincere diverse tappe. Quindi la maglia verde sarebbe un risultato supplementare molto molto gradito".
- Oltre alle volate di Milan, quale sarà la vostra strategia in questo Tour de France?
"Partiamo chiaramente con il main goal che è la vittoria di tappa con Johnny. Poi supporteremo Matias Skjelmose per un eventuale top five se possibile in classifica generale. Ovviamente poi gli altri successi di tappa hanno una priorità inferiore, ma cercheremo di essere competitivi un po’ come abbiamo fatto al Giro d'Italia su tutti i fronti (al Giro la Lidl-Trek ha vinto 6 tappe e la maglia ciclamino con Pedersen, ndr)".
- La tua squadra ha una caratteristica, quella di non dare mai le corse già per perse. Lo abbiamo visto anche nelle classiche di primavera. Al Giro siete stati dominanti con sei tappe vinte e la maglia ciclamino di Pedersen. Uno dei grandi temi è Pogacar. Si potrà almeno mettere in difficoltà o vedi un po’ troppa rassegnazione in gruppo? Nei suoi confronti c'è a volte la sensazione che ci si accontenti di correre per il piazzamento, per alcuni per i punti del ranking.
"Pogacar è sicuramente un fuoriclasse, quindi cercare di batterlo non è così semplice. Io sono convinto che tutto il gruppo parta sistematicamente per poterlo battere però è chiaro che lui è a un livello tale che riuscirci è molto complicato. Direi che noi non partiamo mai per battuti e quindi su tutti i fronti cercheremo di essere competitivi, però penso che anche gli altri team poi in realtà partano sempre per poter studiare strategie che consentano di primeggiare".
- Per chiudere il discorso Milan: è giovane, quindi ancora con margini di crescita, è già migliorato tantissimo anche dal punto di vista del nervosismo. Forse si può lavorare ancora un po’ sulla posizione nello sprint finale e soprattutto nella posizione per arrivare allo sprint finale. In questo senso come siete intervenuti?
"È chiaro che il treno in questo momento è qualcosa di fondamentale per le velocità che si fanno in volata. Johnny ha lavorato parecchio. Abbiamo fatto esercizi specifici sulla posizione della testa, per evitare un suo movimento tipico che è guardare il traguardo invece che guardare indicativamente due tre metri avanti rispetto alla ruota, perché chiaramente ti consente di essere più stabile sul movimento e quindi essere più performante. Allo stesso tempo è chiaro che il treno ha una caratteristica principale, che è quella di dover lanciare l'atleta nel modo in cui il velocista poi riesce a far la volata. Nel caso di Johnny con la strada libera ha sicuramente più possibilità che in uno sprint dove magari ci sono più sbandamenti o in volate più caotiche. Abbiamo fatto un ritiro specifico proprio per simulare questi tipi di evenienze. Al Delfinato credo abbiamo dato abbastanza prova che il treno è ben oliato, diciamo così. E poi chiaramente ci sono anche gli avversari, perché non dimentichiamoci comunque l'Alpecin, La Soudal-Quick Step. Comunque dei treni molto importanti in grado di tenere alte velocità e di lanciare i propri velocisti così come faremo noi per cui sarà una bella battaglia".

- Invece domenica scorsa Aleix Espargaró era in pista ad Assen e il 9 luglio prenderà il via con la tua squadra al Giro d'Austria. Milan ci ha detto che lo ha visto correre e che è davvero molto, molto forte. Ci racconti come è nata questa idea, un po’ visionaria, di far correre un pilota di MotoGP nel mondo del ciclismo professionistico? Quali obiettivi realistici ha lui e voi come team con lui?
"Il progetto Espargaró parte da lontano, nel senso che erano anni che lui si allenava un po’ con i professionisti ad Andorra, dove abita. La sua condizione di forma è continuamente cresciuta nell'arco del tempo e si è sempre messo più in gioco sulla bici, sia che fosse con la gravel piuttosto sia con le granfondo. Dopodiché è molto amico di Carlos Verona, nostro corridore. Ci ha espresso il desiderio di poter partecipare quantomeno ai ritiri della squadra e vivere un po’ da professionista, che è sempre stato il suo sogno, nonostante abbia raggiunto grandissimi risultati come atleta nel campo del motociclismo. Quest'inverno c'è stata questa possibilità con l'idea appunto di fargli vivere essenzialmente quello che era la vita della squadra con compiti più da ambassador che da corridore. Però poi obiettivamente i suoi numeri ci hanno sorpreso per quello che riguarda la performance vera e propria. È nata così l'idea di dargli un'opportunità, di correre con la squadra, ovviamente con la squadra giovanile, a partire dal Giro d'Austria. Una competizione reale su cui faremo delle valutazioni. Cosa ci aspettiamo? Innanzitutto, che si diverta e che ci faccia divertire come ci fa divertire in moto. Dopodiché è un esperimento. È chiaro che per un atleta della sua età spostarsi dal motociclismo al ciclismo è qualcosa di che va verso l'ignoto, quindi non ci aspettiamo nulla di programmato, ma vedremo cosa succederà. Quello che ci auguriamo, essendo lui un atleta di altissimo livello e che ha sempre aggiunto degli obiettivi importanti, è che sia di esempio per i nostri giovani che possano capire cosa vuol dire fare il professionista a tutti gli effetti pur arrivando un altro sport".
- E come pensi che verrà accolto in gruppo da magari corridori che hanno vissuto solo il ciclismo?
"Mi aspetto che gli facciano sudare sette camicie. Sono convinto che lo metteranno sul ciglio della strada, mettendolo in difficoltà su quelle che probabilmente sono magari le complessità più pesanti per lui. Chiaramente correre in gruppo con 200 corridori non è così semplice, però sono convinto che abbia le capacità di difendersi e allargare i gomiti quando serve".

- C’è un’altra questione molto di attualità in questi giorni. La tua squadra ha fatto un bottino di tutto rispetto anche nei campionati nazionali: 26 medaglie, dodici titoli nazionali, è mancato solo il tricolore a Milan. Si è parlato molto di questi campionati italiani e della vittoria di Conca che ha ricordato un po’ le vittorie degli “isolati” (i corridori senza squadra degli albori del ciclismo). Secondo te ha messo in luce i problemi che l'Italia si porta dietro da anni o c'è un dibattito esagerato su questo campionato italiano?
"Se parliamo di strategia sicuramente noi abbiamo gestito la corsa con tre corridori, quindi è chiaro che controllare il gruppo con soli due corridori, presupponendo appunto che Milan dovesse tenere in salita e poi fare la volata, non è stata cosa semplice. Ma va sicuramente il merito a Conca per il risultato che ha fatto. A mio parere si sta dando importanza eccessiva a come si è arrivati a questa vittoria, semplicemente perché il ragazzo è stato un atleta per quattro anni a livello World Tour in diverse squadre e per situazioni che nessuno di noi conosce è rimasto appiedato per un anno. Si è tenuto allenato e si è rimesso in gioco e ha vinto un campionato che negli anni passati comunque aveva già disputato. Quindi non è un ragazzo di primo pelo che è cascato dal nulla, quindi merito a lui per quello che ha fatto. A mio parere si sta dando troppa importanza invece a quello che è il concetto di squadra. Nel senso: benissimo il progetto che dà la possibilità ad atleti che non hanno trovato contratto di tenersi in gioco. Però vorrei evitare il fatto che allora questo è il ciclismo e possiamo correre gratis, ci mettiamo in gioco a qualsiasi età e in qualsiasi modo e senza avere la possibilità di farlo come mestiere, perché questo poi diventerebbe un problema. Cioè ben venga correre con la maglia bianca o con un supporto relativo. Però a mio parere il professionismo è tutta un’altra cosa. Anche perché non dimentichiamoci che poi quando si corre il World Tour o nelle Pro Team i corridori arrivano ai campionati nazionali con un elevato numero di gare ai campionati e quindi con situazioni completamente diverse. Questo nulla toglie alla prestazione di Di Conca e la sua vittoria ai campionati italiani, però è sicuramente un discorso complesso e quindi non lo ridurrei semplicemente al: “Allora questo è il nuovo ciclismo che avanza”. Il discorso è molto, molto più complesso, nonostante quella di Conca sia un'ottima storia e lui abbia dimostrato di avere gli attributi, perché vincere un campionato italiano è sempre comunque difficile. Poi è chiaro che il ciclismo italiano debba ragionare su come mai un atleta di qualsiasi livello poi debba inseguire la possibilità di correre senza trovare strutture adeguate. E qui ci sarebbe da aprire molte discussioni sia su quello che è il ciclismo giovanile, sulla precocità nel passaggio al professionismo, tema di cui facciamo parte anche noi quindi non mi tolgo responsabilità. Si dovrebbe discutere sul fatto che molti atleti giovani firmano contratti che prevedono una remunerazione e quindi con il rischio che ciò comporta: devi dimostrare da giovane di fare grandi risultati e se non ce la fai poi la possibilità di essere tagliati è elevatissima. Ripeto, è un discorso molto complesso".
- Tu sei un italiano alla guida di una multinazionale, perché la Lidl-Trek è una multinazionale ed è uno dei “super team” di questo ciclismo, di questa epoca. Quindi che cos'è che ti ha dato fastidio di queste polemiche? Che cosa proponi tu per migliorare?
"Quello che mi ha dato fastidio è la critica a priori. Faccio un esempio molto, molto pratico. Astana aveva i suoi obiettivi e sicuramente non avrebbe tirato. Noi avevamo la necessità di arrivare in volata, quindi dovevamo tirare con le potenzialità che avevamo come detto prima. Di contro Polti, Fantini, la stessa Bardiani chiaramente arrivavano a un campionato italiano con l’obiettivo ben chiaro che è la vittoria, ma con una stagione alle spalle in cui si stanno “scannando” per raccogliere punti e a volte questa diventa la priorità. Per cui è difficile da capire, per il grande pubblico, ma tra scegliere che vinca una struttura che in realtà non mi dà fastidio, piuttosto che regalare 100 punti a una squadra che è mia diretta avversaria, è una scelta che crea una situazione di stress e quindi strategicamente è ovvio che “c'è scappato il morto”, diciamo così, e quindi sono dinamiche difficilissime da capire per il grande pubblico ma che poi internamente noi capiamo. Quindi questa critica smodata sulle incapacità teoriche delle squadre è quello che più mi dà fastidio perché ci sono delle dinamiche che sono complesse dietro tutto questo. Che poi siano giuste o sbagliate questo è un altro discorso. Cosa manca invece al ciclismo italiano? Parlerei più in generale dello sport italiano. Siamo diventati un Paese in cui il Ministero dell'Istruzione e delle Politiche giovanili non dà allo sport alcuna importanza. Mi è parso di capire che forse torneranno i giochi della gioventù e questa sarebbe una grande cosa. Però io credo che, come accade nelle altre grandi nazioni, la scuola debba essere il primo passaggio formativo dal punto di vista della struttura fisica, della salute. Se ci dimentichiamo, questo e tutto lo sport finisce per essere vincolato a soggetti privati, alla famiglia o alla società sportiva privata è chiaro che si tende a precocizzare. Perché se io sono un team che per quanta etica abbia investe 100.000€ per far correre dei ragazzini o farli giocare a calcio, pallacanestro o altro, è ovvio che inevitabilmente il risultato poi abbia una certa preponderanza. Mentre se guardiamo soprattutto al mondo anglosassone, in cui tu fino ai 18 anni corri o giochi per la scuola o per il college, ovviamente hai una tutela maggiore perché comunque c'è lo sforzo per farti emergere se hai le qualità, il talento a lunghissimo termine. Faccio l'esempio del football americano, dove sicuramente le università hanno il vantaggio di poter far crescere gli atleti perché poi hanno una remunerazione nel momento in cui gli atleti finiscono in NFL e da noi è l'esatto contrario. Da noi nello sport giovanile la scuola fa poco e niente, quindi vado a giocare nelle società private dove poi non ho nessun tipo di contributo e quindi nel momento in cui ho un ragazzino talentuoso cerco di farlo emergere perché così ho quel poco di visibilità o quel poco di pregio che mi può garantire un ragazzino giovane e vivo di quello e quindi questo diventa un limite fortissimo. Poi se lo scaliamo ad alto livello è chiaro che se questi sono i concetti che passano, poi l'investimento su una struttura professionistica non è più visto di di buon occhio o comunque come un investimento che crei un vantaggio. Quindi bisognerebbe lavorare sia a livello giovanile sia a livello governativo per strutturare qualcosa di importante. Per lo sport in generale, poi se andiamo più nello specifico nel ciclismo è chiaro che in questo momento per creare una squadra professionistica di alto livello ci vogliono indicativamente 50 milioni e quindi lo sforzo governativo deve essere assoluto perché dubito che ci siano aziende che si possano permettere di investire su un unico progetto di marketing di 50 milioni. Quindi il supporto dello Stato deve essere inevitabile per essere competitivi con gli Emirati Arabi, il Kazakistan, la Cina, il Bahrein o la Francia, dove hai aziende legate al Lotto nazionale che sponsorizzano quindi comunque sponsor parastatali".

- A proposito di sport giovanili, una volta hai citato l'esempio della Slovenia che ha il quadruplo delle ore di educazione fisica rispetto all'Italia e poi dopo vediamo i Roglič, i Pogačar, anche il vincitore del NextGen, Jakob Omrzel sloveno… tu hai questa doppia visione, quella dell'allenatore e anche del professore di educazione fisica e quella invece del manager di una squadra che quindi ha degli interessi e dei budget economici da gestire. C'è un modo, una via per coniugare queste cose anche in Italia o vedi anche in questo un po’ una rassegnazione generalizzata?
"In questo momento c'è rassegnazione senza dubbio. Non vedo grandi progetti all'orizzonte che garantiscano un aumento degli orari di educazione fisica in strutture adeguate e per i ragazzi che fanno il loro processo educativo fino alle scuole superiori, escludendo forse i licei sportivi. Tutto è, ripeto, ridotto al minimo: due ore di educazione fisica a settimana quando possibile, perché a volte le strutture non sono disponibili. La speranza è che adesso con la rinascita dei giochi della gioventù poi ci sia un investimento anche in strutture e in professionalizzazione dei legami tra la scuola e quelle che poi possono essere le società che fanno attività. Serve una combinazione di cose che garantisca ai ragazzi uno sviluppo armonico dal punto di vista psicofisico, la capacità attraverso lo sport di rispettare le regole… Poi i più talentuosi ovviamente potranno fare di lavoro lo sport per cui hanno passione. Credo che questa sia l'unica sia l'unica via per poi essere competitivi verso altre nazioni".
- Ci hai spiegato i problemi della scuola, direi dello Stato italiano prima ancora che del ciclismo italiano e quindi in parte ci hai già risposto. Adesso invece ti chiedo uno step ulteriore. Dipendesse da te, quali sarebbero i primi provvedimenti concreti da fare subito se tu avessi delle leve economiche o di altro tipo? Che cosa faresti subito per arrivare a un team italiano nel World Tour? E poi, visto che dove siamo seduti qui a casa tua, dove in pratica nel 2013 è nata l'idea della prima Trek, poi Segafredo, ora Lidl Trek: tu sei volato in Wisconsin per convincere il boss di una grande multinazionale come la Trek, ti chiedo: quali sarebbero le cose da fare subito concretamente? E poi che cosa significa guidare una multinazionale?
"Se io avessi la possibilità e i contatti chiederei immediatamente un tavolo con il Ministero dello dello sport, il Ministero della pubblica istruzione, il Ministero dei trasporti e il Ministero della sanità, esponendo quelli che possono essere i benefici di supportare una squadra a livello World Tour che faccia da esempio per spingere sulla cultura dell'utilizzo della bici come mezzo di trasporto e come sistema per restare in salute, legando a questo il fatto che dal punto di vista educativo il ciclismo ha dei vantaggi enormi per la popolazione. E ovviamente l'intervento poi economico deve essere fatto sul sostentamento, sul supporto appunto dei ministeri per una struttura che faccia da faro per il movimento ciclistico perché ci possa essere un continuo avanzamento della cultura ciclistica italiana che è un patrimonio che stiamo gradualmente perdendo. Non è che non ci siano individualità, ma si sta perdendo la cultura ciclistica. Finché ci sono state squadre come Liquigas e Lampre la cultura ciclistica italiana c'era. Adesso siamo dei satelliti che girano attorno a realtà straniere. Una volta creato questo tipo di struttura si potrebbero fare dei progetti legati alla squadra professionistica e sicuramente a un concetto di accademia, di analisi e di supporto alle squadre giovanili come fanno negli Emirati, per sviluppare il talento. Perché poi chiaramente è di quello che parliamo: dobbiamo cercare di arrivare al professionismo con atleti validi e quindi serve creare una struttura a cascata che legata sicuramente alla Federazione e alla Lega che poi sono gli enti preposti al ciclismo in Italia. Però deve arrivare da livelli superiori il sostentamento perché, come ripeto, ormai ci scontriamo con realtà nazionali nelle altre squadre non su team strettamente privati. Quindi questo è il primo passaggio che farei anche se convincere le persone non è così semplice. Io ho presentato lo stesso progetto che presentai a Trek piuttosto che a Lidl a diverse aziende italiane e non c'è interesse. Soprattutto perché, a differenza di altri Stati, la defiscalizzazione della sponsorizzazione è molto meno ampia. Parlo strettamente da dirigente: è ovvio che se io so che investendo in sponsorizzazione poi ho un vantaggio fiscale sono anche più propenso perché posso avere un vantaggio pratico. Questo Appassionati che investono nel ciclismo ce ne sono un sacco e per fortuna perché è uno sport comunque dispendioso in questo momento. Il ciclismo non è più uno sport "del popolo" visti i costi. Per questo redo che se vogliamo tornare a parlare di cultura italiana del ciclismo bisogna fare uno sforzo a livello governativo".
E a proposito anche del saper cambiare strategia in corso in corso d'opera e quindi stare molto attenti alla realtà: è una caratteristica della della tua squadra, agli inizi avevate campioni come Schleck, Cancellara, mentre negli ultimi anni avete investito molto sui giovani. Avete un budget importante da squadra di livello mondiale ma magari inferiore rispetto a delle corazzate come UAE o Visma. Ci viene in mente un paragone, dcci se è un paragone calzante oppure no: sembrate un po' l'Atalanta del ciclismo, cioè un mix di giovani esperienze, gestione oculata però grande rabbia agonistica all'inseguimento dei risultati.
"Sì, noi ci siamo posizionati all'interno del movimento World Tour con questa logica, non abbiamo quel uno degli atleti inseriti nei "Fabulous Six". Abbiamo Pedersen che credo si avvicini moltissimo, però non è ancora considerato a quel livello. La potenzialità che avevamo era sfruttare il gruppo. C'è un concetto molto bello che dice che è più importante il nome davanti alla maglia che non quello dietro e noi ci comportiamo esattamente così, quello che conta è il gruppo. Dobbiamo essere una squadra di successo come squadra e non solamente come individui, ci vogliamo identificare come gruppo, non come la squadra di quell'atleta o di quell'altro. Per noi Pedersen, Skjelmose, Ciccone, Vacek, Milan sono tutti atleti di di altissimo livello e che per noi sono fondamentali per la riuscita del progetto. Per cui sì, il termine di paragone con l'Atalanta ci sta e speriamo di essere altrettanto vincenti".
- Te ne facciamo un altro di paragone, dicci se ti fa piacere o no e soprattutto se ti ci rivedi. Sei stato un preparatore, dici sempre che non avevi un grande motore da corridore, però diciamo che come preparatore prima e ora come team manager sei arrivato al top. Non ti senti un po' il Dave Brailsford italiano per quello che sei riuscito a fare arrivando in una grande multinazionale? E poi raccontaci un po' invece la tua esperienza di ex tecnico e ora di general manager in un grande, in un super team, come la Lidl-Trek.
"Fare paragoni con altri è sempre complicato, sicuramente Dave Brasilford per il movimento inglese è stato fondamentale perché ha proprio portato il ciclismo a essere quasi uno sport nazionale in un paese in cui era sì e no uno sport come tanti altri. Ha fatto qualcosa di molto più importante di me, io faccio parte di un movimento culturale che viene da lontano e sono figlio di grandi personaggi del passato e del presente e mi auguro che poi qualcuno che lavora con me diventi un grande personaggio del futuro. Però non credo di avere lasciato l'impronta come quella che ha messo Brailsford nel nel ciclismo inglese, anche se faccio tutti gli sforzi possibili per creare idee perché la cultura del ciclismo italiano possa proseguire nel lungo termine e ritornare ai fasti del passato. Fare il dirigente è completamente diverso rispetto a fare il il tecnico, il piacere di allenare è qualcosa di completamente diverso. Le emozioni provate quando da preparatore sono riuscito a raggiungere determinati risultati sono incredibili. La medaglia d'oro olimpica a Rio con Fabian Cancellara è stato il mio ultimo grande risultato perché poi insieme abbiamo deciso di smettere, lui di correre e io di allenare. Sono emozioni irripetibili, al tempo stesso è ovvio che in questo momento essere la squadra seconda al mondo, essere il direttore generale di questa squadra mi dà una grande soddisfazione. Però vivere giornalmente il rapporto 1 a 1 con l'atleta, costruirlo, condividere 24 ore al giorno lo sforzo psicologico è sicuramente molto diverso che farlo dal punto di vista manageriale. Ovviamente quando poi si diventa dirigenti ti si apre un mondo, quando lavori solo dal punto di vista tecnico la tua visione è molto limitata rispetto a quello che è il ciclismo come sport e tutto quello che sta intorno. Quando sono diventato dirigente, ovviamente lavorando con Trek, che è un'azienda di di bici, mi si è aperto un mondo su quello che poi sono gli aspetti commerciali, di marketing che l'allenatore ovviamente non vede. Anche a livello dei rapporti che non sono strettamente tecnici, con gli organizzatori con le istituzioni e le federazioni, ci sono dinamiche completamente differenti. Bisogna essere mentalmente disposti ad ascoltare, analizzare tutto in modo molto critico, cosa che da tecnico non fai perché da tecnico sei vincolato all'atleta. Lui deve rendere, tu devi rendere. Bisogna vincere la corsa. Mentre da dirigente ovviamente gli ambiti sono molto più grandi. Mi ritengo molto fortunato. Tornando alla domanda, non mi paragono a Brailsford però chiaramente essere partiti da una squadra di esordienti legata a un negozietto di Milano e arrivare a fare il manager di un'azienda americana come Trek che fa del ciclismo un mezzo per promuovere i propri prodotti, insieme a Lidl, è chiaro che è una bella soddisfazione".

Il libro che hai scritto con Pier Augusto Stagi si intitola proprio "Da zero a uno" e racconta la storia di un bambino partito da Baggio (quartiere di Milano) e arrivato a guidare una delle squadre più importanti e vincenti degli ultimi anni del ciclismo. Tra le pagine del libro si legge proprio questo viaggio fatto di fatica, senza sconti, di eventi a volte dolorosi, ma quello che si percepisce è una serenità che non sembra essere mai mancata. Un libro che da un certo punto di vista indica una strada senza arroganza, senza voler insegnare qualcosa, ma proprio dando degli esempi. E questo il segreto per diventare un grande manager?
"Posso parlare della mia esperienza. Credo che per gestire delle persone la qualità migliore che si debba avere, o comunque su cui si debba lavorare, è il saper ascoltare le persone. Altrimenti è impossibile gestirle. Se uno parte solo con delle certezze, senza mettersi in discussione, senza mettersi nei panni dell'altro, senza ascoltare le altre persone, è quasi impossibile per me diventare un manager di alto livello, analizzando anche figure di altri campi e altri sport. Mi sembra che sia una linea comune che emerge dalle esperienze altrui, l'arroganza non deve far parte del manager perché se no è impossibile essere riconosciuti come leader. Non vuol dire non essere decisi nelle scelte però non si deve farle mai in modo arrogante. Il libro descrive una storia di vita: lo zero è riferito al fatto che come corridore, sebbene fosse la mia grande passione, non avevo qualità, quindi mi sono reso subito conto che non aveva alcun senso cercare di perseguire un qualcosa che diventava una chimera. L'uno è un piccolo passo verso quella che è la mia attuale professione, può essere definito come piccolo o grande passo a seconda della scala che si vuole utilizzare. Nel corso di una vita può succedere molto però se si vive sempre con l'attenzione verso gli altri e se ci si mette in discussione si può arrivare a uno. È un consiglio che ho seguito perché me l'hanno dato altri. Con il mio staff, i miei assistenti e i miei colleghi faccio lo stesso discorso e credo che possa essere una delle tante storie a cui ci si possa riferire quando da giovani si cerca di perseguire la propria strada"
Nel libro lo scrivi più volte. L'importanza dell'ascolto, anche quando ti riferisci ai tuoi periodi da allenatore prima di Bettini e poi di Cancellara, qualche medaglia olimpica... Sei stato un grande innovatore nei metodi di allenamento, misurazione dei dati, un precursore con la scuola di Aldo Sassi e poi anche di Antonio La Torre che citi nel libro come esempi. Se fai un bilancio in questo viaggio che hai percorso quanto peso ha avuto la parte scientifica e quanto quella umana?
"Se dovessi dare una valutazione la parte umana sicuramente ha avuto la preponderanza. Detto questo, ogni scelta che ho fatto comunque si è sempre basata su qualcosa di scientifico, con un approccio scientifico ai problemi e alle situazioni perché credo che l'analisi di un problema debba essere sempre molto dettagliata. Una volta che questa è stata fatta è ovvio che fidarsi ed affidarsi a persone di esperienza abbia un'importanza altrettanto maggiore perché per quanto io sia stato sempre abituato ad andare a patti coi numeri poi c'è quella sensibilità che ti parte quando hai una determinata esperienza. Quando puoi parlare con gente esperta ti dà quel qualcosa in più alla fine, la capacità umana di percepire e di sentire. Uno dei miei canoni di lavoro fondamentali è appunto quella capacità di usare tutti i cinque sensi per arrivare a una decisione e non solamente basarsi sulla base scientifica, che base deve essere però. Le persone hanno senza dubbio un valore enorme rispetto ai numeri da soli".
Luca hai parlato di storie, del lato umano e stiamo parlando del libro. Da 78 a 58 e parlo di chili, 160 notti in ospedale in dieci mesi. Che cosa ti ha lasciato? Come sei cambiato e cosa ti porti dentro?
"La malattia è ovvio che ti segna soprattutto dal punto di vista psicologico. A prescindere dal dolore sofferto o il male sopportato fisicamente, quello passa se si ha la fortuna come nel mio caso di continuare la propria strada. Sono cose che si dimenticano però la sofferenza mentale quella invece è molto più pesante perché poi inevitabilmente affligge anche non solo te ma anche le persone che ti stanno vicino. Detto questo, vado un po' fuori dal coro nel senso che spesso si dice "ah ma poi torni, sei più forte". Sinceramente non mi sento molto più forte di prima. Lo stress mentale che ho avuto è stato pesante, per cui anche adesso ogni tanto bisogna andare a patti con lo stress mentale vincolato a quella che era la malattia. Quello che è cambiato è forse solo il rapporto di importanza ai problemi. Prima qualsiasi problema, per quanto piccolo, per me diventava una sorta di corsa affannosa per risolverlo. Adesso a fronte di problemi che mi rendo conto non sono problemi ho un approccio molto diretto e per cui passo più facilmente e più velocemente. Quello credo che sia il cambio principale dal punto di vista dell'approccio. Invece se parliamo del lavoro nonostante tutti dicano "ah ma allora poi metti un po' il piede sul freno" in realtà credo di no, perché la personalità è quella anche se sei passato attraverso una malattia più o meno grave come come quella che ho vissuto. In realtà sono tornato sempre con la grinta di prima con la voglia di vincere a tutti i costi, in senso buono ovviamente, però con la voglia veramente di avere i miei corridori primi sul traguardo".
Nelle pagine del tuo libro si è sempre sospesi tra una grandissima determinazione sempre rivolta al futuro e l'attitudine di non dimenticarsi mai da dove si viene.
"Mi è sempre stata naturale questa qualità di riuscire a viaggiare su questi due treni paralleli: c'è il futuro da una parte e non dimenticarsi mai da dove si arriva. Per poter emergere nello sport professionistico devi essere ambizioso quindi guardare lontano. Questo senza dubbio. Non lo nego, io sono sempre stato molto ambizioso. Quando ho capito che avevo la possibilità di emergere in determinati campi è chiaro che ho avuto l'ambizione e l'ho perseguita su tutti i fronti. Però ho sempre valutato il fatto che facciamo le corse in bicicletta, quindi non stiamo risolvendo delle guerre o la fame nel mondo. Per cui ci vuole sempre una sorta di autoironia, di conseguenza è ovvio che non ti devi mai dimenticare da dove arrivi. Ho perseguito e perseguo sempre l'idea della squadra migliore al mondo. Però resto un appassionato di bici e quindi da dove arrivo? Arrivo dal fatto che ero un corridore che andava a vedere quelli che magari adesso sono i miei colleghi, che però allora erano i miei miti e quindi quando mi rapporto con loro ho sempre questo aspetto di riverenza, chiamiamola così, che viene dalla passione e non mi vergogno a dirlo. Ci rido spesso con Mario Chiesa, con le sue fughe al chilometro zero per me era un mito, anche se adesso chiacchieriamo spesso perché poi siamo diventati amici. Per me resta sempre il mito dell'uomo in maglia Carrera che attaccava da lontano. Con Chiappucci e Bugno siamo stati a cena insieme, essere seduto al tavolo con loro per me è ancora fonte di emozione, perché io arrivo dal fatto che ero un signor nessuno. Anche adesso non credo di essere poi un fenomeno, faccio semplicemente un lavoro. Mi ricordo appunto che arrivo da un quartiere di Milano, sono nato coi bimbi con gli esordienti e gli allievi. Mi resta poi sicuramente l'impronta anche della mia famiglia, sono nato e cresciuto in un ambiente in cui si arrivava da una famiglia contadina emigrata a Milano con tutti i problemi relativi. Però sono cresciuto con la voglia di fare e lamentarsi poco e quindi poi è chiaro che ci si porta questo imprinting lungo tutta la carriera".

Oggi vediamo questi ragazzi straordinari che fanno dei numeri davvero pazzeschi e stanno appassionando di nuovo tantissime persone al ciclismo. Qualcuno con qualche ragione parla di una nuova epoca d'oro del ciclismo. Li vediamo sempre più professionali, più attenti, maniacali nella preparazione, nell'attenzione ai materiali. Però al tempo stesso, almeno in apparenza, più scanzonati magari rispetto al passato. È un'illusione ottica, questa, dettata dal fatto che i social amplificano la parte giocosa, oppure il ciclismo contemporaneo ha raggiunto un livello di competitività e serenità davvero da epoca d'oro?
"Se parliamo dell'attuale professionismo è sicuramente una bella epoca, perché ci sono una decina di corridori che interpretano la corsa veramente a tutta, finché ne ho vado e finché non son morto provo a scattare in faccia all'avversario. Che poi, da ex tecnico, un po' dispiace perché a volte si perdono le strategie e quindi quella voglia di sfruttare le debolezze dell'altro, perché questi ragazzi veramente danno l'anima a ogni corsa ed è piacevole. L'aspetto più scanzonato è forse più figlio dei social media, quindi di un determinato standard d'immagine che tutti devono avere quando in realtà poi, se escludiamo veramente qualcuno, gli altri in privato magari sono ben stressati e soffrono un po' anche tutta questa visibilità. Però il ciclismo di oggi è piacevole, parlavamo prima di numeri adesso si guardano tantissimo ma è anche vero che in gara poi alla fine grazie a quei numeri che tu hai toccato in allenamento si corre sempre come se non ci fosse un domani. E questa è una cosa veramente piacevole per il pubblico".
Tu hai detto in un'intervista che tu con la Mapei, la Telecom, la Once, dopo gli anni bui degli anni '90, avete un po' cambiato il ciclismo. In questo momento non solo per il modo di correre dei corridori di oggi, ma anche per queste multinazionali, state cambiando ancora una volta il ciclismo. Ecco, ti chiedo: come sta cambiando? Come può ancora cambiare? E poi una curiosità ma non è che riassumendo tutte queste due figure insieme, manager e tecnico, magari un giorno non hai voglia di fare il Ct azzurro?
"Gli anni addietro ovviamente hanno subito degli sconquassi, poi ci si è rialzati, poi si sono subiti altri sconquassi, poi ci si è rialzati. In questo momento credo che il grandissimo cambiamento sia l'iper professionalizzazione delle figure nel ciclismo. Adesso ci presentiamo a un grande giro con 40 persone dello staff che vanno dall'autista del pullman, al meccanico, il massaggiatore, il fisioterapista, l'osteopata, il nutrizionista, il cuoco, il biomeccanico, lo psicologo... Quindi credo che in questo momento i grandi team siano iper professionalizzati. Lo sforzo appunto di chi come me gestisce la squadra è di bilanciare sempre l'iper professionalizzazione con un aspetto solido delle relazioni umane. Perché comunque è uno sport difficile, il ciclismo è faticoso. Sulla seconda parte della domanda... ho ricoperto il ruolo di Ct della Svizzera per un mandato olimpico. Fare il Ct della Nazionale italiana in questo momento... certo come titolo mi piacerebbe senza dubbio, però è anche vero che sono ormai quasi una decina d'anni che non ricopro più ruoli tecnici e quindi rimettersi in gioco da quel punto di vista non è così semplice, perché è un lavoro che è complesso da fare, soprattutto in Italia, dove, come abbiamo ripetuto più volte, il movimento magari va un po' ristudiato e a prescindere dalle individualità bisognerebbe ricostruire un movimento. Dal punto di vista personale mi piacerebbe tantissimo, operativamente lo vedo più complesso, anche perché credo che i tecnici italiani in generale siano bravissimi. È uno dei nostri fiori all'occhiello. Se si valuta a livello internazionale quanti tecnici italiani ci sono nelle squadre si ha già il senso di come la scuola italiana dei tecnici sia ottima e altri ne stanno arrivando. È una scuola che fortunatamente funziona e su questo bisogna dare atto alla Federazione che ha sempre formato ottimi tecnici, per cui credo che come tecnico della nazionale mi tengo i risultati fatti con la Svizzera. Ma se dovessi tornare a fare il tecnico di una nazionale lo farei per una nazione emergente più che per una grande nazione. Mi piacerebbe di più magari sposare un progetto di una nazione che sta crescendo e su cui bisogna fondare proprio le basi per poter far nascere la cultura ciclistica".
Chi è Luca Guercilena? Quello che non capiamo dal libro, diciamo quello che non hai scritto in queste pagine. E poi qual è il tuo prossimo sogno?
"Difficile da dire in modo chiaro. Spesso confonde il fatto che non amo i riflettori. Faccio un esempio lampante: abbiamo fatto fatica a trovare l'immagine per la copertina del libro. No, non mi piace andare sulla linea d'arrivo. C'è il corridore, quando vince lo aspetto sul pullman. Spesso questo viene interpretato come una sorta di personalità molto soft. E quello che non si vede in realtà invece è che comunque quando devo decidere poi decido in modo molto chiaro e netto, per cui chi lavora con me sa che il fatto che mi piace gestire il team in modo armonico perché voglio che ci sia un bell'ambiente".
Chi vincerà il Tour de France 2025?
"Devo dire Pogacar perché credo sinceramente che se non succede niente sia l'atleta in questo momento quasi imbattibile".
Ti sarebbe piaciuto allenarlo?
"Sì, certo, senza dubbio. Rientra tra quegli atleti che con cui avrei voluto provare un'esperienza di lavoro, perché quando ti leghi a un talento di quel calibro hai solo e soltanto da imparare. Per me è stato così con con Paolo Bettini, soprattutto è stata la mia fortuna poter lavorare con un campione come Paolo, perché ho imparato tantissimo da lui e mi ha dato anche quella visibilità fondamentale poi per poter emergere. Se avessi potuto lavorare con Pogacar, sarei stato più che contento. Parlo da ex tecnico, senza dubbio sarebbe piacevolissimo".
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