HOOPS MEMORIES - La notte di san Lorenzo


di CHRISTIAN GIORDANO

Phi Slama Jama, la confraternita della schiacciata. Mai etichetta fu più azzeccata, per una squadra di basket, e fuorviante. Thomas Bonk dello Houston Post la appiccicò ai Cougars della University of Houston in un articolo del 3 gennaio 1983 dopo averli visti all’opera in un festival del settore: il 112-58 su Pacific. I Cougars avevano appena iniziato una striscia di 26 vittorie, e il nickname attecchì al punto che Akeem (ancora senza h davanti) “The Dream” Olajuwon, Clyde “The Glide” Drexler, Larry “Mr Mean” Micheaux, Michael “Silent Assassin” Young e compagni se lo fecero scrivere sulla giacca della tuta di lì alla fine della stagione.

Il soprannome riassumeva le doti atletiche della “Texas’ Tallest Fraternity” e lo stile di gioco predicato da Guy Lewis per la “più alta confraternita” dello Stato: «La squadra che più schiaccia vince». Fondamentale, l’affondata, così adorato dal coach che Houston divenne la prima a tenerne il conto. Il lato B di tanto strapotere fisico era la sensazione che i Cougars potessero contare solo su elevazione e atletismo. In realtà erano una formazione equilibrata: feroce in difesa, dominante in attacco, specie nel contropiede, e abbastanza determinata per sopperire alla scarsa esperienza che affliggeva i ruoli-chiave.

Oltre allo spot di point guard e alla pochezza ai liberi era proprio il poco mestiere il punto debole di un roster infinocchiato dalla sfavorita, ma più esperta, North Carolina State nella finale NCAA 1983. Anche se, ripensandoci, più che alle lacune tecniche Lewis dà la colpa al fato: «È così che doveva andare».

Il destino, però, non cancella il fatto che quei Cougars, inciampati sull’ultimo gradino, siano stati una delle migliori squadre nella storia del basket di college. Olajuwon centro, Drexler ala piccola e Micheaux ala forte, Young guardia tiratrice, più i panchinari Benny “The Bomber from Bernice” Anders, Greg “Cadillac” Anderson e Bryan “Cool Ray” Williams: un capolavoro di adrenalina, regìa a parte. Nel 1982 Houston aveva raggiunto la Final Four affidandola a Rob Williams, junior che aveva guidato i suoi nei punti e la Southwest Conference negli assist prima di dichiararsi indigente e di passare professionista.

«Non ho dubbi – giura Lewis – Se Williams fosse rimasto, l’anno successivo nessuno ci avrebbe fermato». Lo conferma coach Pat Foster dopo che Houston aveva maramaldeggiato contro la sua Lamar in novembre: «Avrebbero vinto anche con in point guard una suora». Battutona, ma che non fece sorridere Lewis: poche squadre avevano vinto senza un ball-handler di valore e un leader vero in campo. Il freshman Alvin Franklin era un gran lavoratore e fece enormi progressi nella duplice veste, ma la leadership dei veterani veniva dal frontcourt: Micheaux, senior di 2.04, e Drexler, junior di 1.97. Houstoniano doc, il Veleggiante volava – alla lettera – a quasi 16 punti e 9 rimbalzi a partita. Nelle rare occasioni in cui HU doveva giocare a metà campo, Lewis aveva cucito addosso al futuro asso NBA di Blazers e Rockets un attacco a doppio post basso, uno dei quali riservato a lui. In pieno stile Lewis, il Phi Slama Jama abbondava con la press, a zona o a uomo. E Clyde ne era il cardine.

L’altro lungo era il sophomore nigeriano Olajuwon. Cresciuto a pane e calcio, a Lagos aveva giocato poco a basket e a inizio 1982-83 era ancora acerbo. I Cougars erano subito incappati in una sconfitta contro Syracuse, e in quella con Virginia in Giappone a fine dicembre. Poi, Franklin acquisì fiducia nel backcourt e Olajuwon trovò il passo in post, così i Cougars presero quota fino a battere TCU nelle finali del torneo di conference. A 27-2, entrarono nel Torneo e batterono 60-50 Maryland (con Len Bias) nel secondo turno, 70-63 Memphis State (con Keith Lee) nella finale del Regional e 89-71 Villanova.

Per il secondo anno in fila Houston (31-2) tornava alle Final Four, stavolta nella rarefatta atmosfera di Albuquerque, New Mexico. In semifinale batté Louisville (con Milt Wagner, Rodney e Scooter McCray e Lancaster Gordon).

Contro i Cards i Cougars fornirono una delle migliori prestazioni mai viste alle Final Four. Louisville comandava fino a metà secondo tempo, poi il Phi Slama Jama, sotto per 49-57, piazzò in 5’46” il 21-1 dal quale scaturì il conclusivo 94-81. Olajuwon chiuse a 21 punti (come Drexler, Young invece ne mise 16), 22 rimbalzi e 8 stoppate.

In finale li attendeva North Carolina State, cenerentola divenuta regina della ACC (20-10) su NC University e Virginia (con Ralph Sampson) grazie ai senior Dereck Whittenberg, Thurl Bailey e Sidney Lowe, che trascinano i Wolfpack nei West Regional.

Nel primo turno, contro Pepperdine, i ragazzi di coach Valvano erano sotto di sei a 1’10” dalla fine del supplementare. Ricorrendo al fallo sistematico e sfruttando gli errori altrui in lunetta, i veterani di State vinsero 69-67. Poi prevalsero, 71-70 al secondo overtime, su Nevada-Las Vegas, numero 6 del ranking, grazie al tap-in di Bailey su jumper sbagliato di Whittenburg sulla sirena. Giocata che sarà bissata nel momento più importante. Spazzata via 75-56 Utah, NC State batté Virginia nella finale dei Regional dopo averlo fatto in quella della ACC.

I Cavaliers erano sopra di 7 nella ripresa, poi NC State rimontò e, grazie ai due liberi del sophomore di 1.99 Lorenzo Charles, sorpassò: 63-62 all’ultimo minuto, poi Virginia sprecò due match-ball. L’unico successo “facile” per i Valvano boys fu in semifinale, 67-60 su Georgia. Una squadra senza futuro era arrivata a giocarsi il titolo, ma «la sua miglior chance era un guasto al pullman di Houston», scrisse Charlie Smith del Tulsa World. Billy Reed del Louisville Courier-Journal pronosticava «i Cougars vittoriosi 78-53».

«Se [lunedì sera] conquisteremo la palla a due, non tireremo fino a martedì mattina», scherzava coach V in conferenza stampa la vigilia. Invece, i suoi Pack giocarono quasi con spavalderia nel primo tempo, aperto dalla schiacciata di Thurl Bailey e chiuso avanti 33-25. I Cougars (31.3% al tiro a metà gara) aprirono il terzo quarto con un parziale di 15-2. Ma a 9’ dalla fine, con Drexler a lungo in panchina per falli, Lewis fece rifiatare Olajuwon e impose di rallentare: “locomotion” offense, la chiamavano.

«L’altitudine ci toglieva il fiato – spiegherà Lewis – I miei erano sfiniti». Lewis sperava anche che l’attacco allargato avrebbe aperto il back door e stanato State dalla serratissima “zona” con cui Valvano voleva bypassare il running game di HU. Niente da fare. NC State impattò con Whittenburg a quota-52 a 1’59” dallo scadere, e dall’altra parte Lewis ordinò di tenere palla. «Alla fine – ammetterà – cercavamo solo di segnare un libero e di sopravvivere». Anche lì, niente da fare. 

Whittenburg commise fallo su Franklin, guardia freshman che sbagliò l’uno-più-uno. NC State prese il rimbalzo e sbagliò a 44” dal termine. Valvano optò per l’ultimo tiro. State lavorò la palla con 17 passaggi sulle ali per fare scorrere il cronometro. Whittenburg, da nove metri, lanciò un air ball fuori equilibrio. Charles, futura messe aneddotica a Cantù e a Desio, staccò da sottocanestro, dove Olajuwon non era riuscito a tagliarlo fuori, e schiacciò sul suono della sirena il canestro vincente: 54-52.

Era la seconda slam dunk di State, contro l’unica del Phi Slama Jama: la profezia di Lewis si era avverata, e con la sua arma prediletta. Olajuwon (20 punti) fu il MOP del Torneo, Bailey, Lowe, Wagner e Whittenburg finirono nel quintetto ideale. Giusto tributo ai primi campioni andati in doppia cifra nelle sconfitte (25-10). Capita, nella notte di “san” Lorenzo.

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