«Nessuno, e dico nessuno, farà del male ai miei compagni»
Sports Illustrated, 31 ottobre 1977
(traduzione di Christian Giordano)
Avvicinati di recente, a cinque omoni grandi e grossi e a un piccoletto è stata posta – con circospezione – questa domanda: “Vi ritenete degli enforcer della NBA?».
Senza eccezioni, tutti e sei all’inizio hanno risposto, senza giri di parole: «No, non mi definirei un enforcer».
«Be’, e allora come pensate siano iniziate queste voci?».
«Sì, be’, sappiamo tutti da dove arrivano», dice Maurice Lucas, 2.04 x 98 kg dei Portland Trail Blazers, la quintessenza dell’ala forte e dell’enforcer. Nel caso di Lucas, le voci nacquero e cominciarono a circolare tre anni fa (1974, NdT) quando, da matricola NBA, spedì al tappeto il 2.17 Artis Gilmore e osò prendere a pugni Julius Erving, il che era un po’ come sputare sulla bandiera. «Tanta gente crede che io sia solo uno di quei bastardi – dice indignato – Be’, io non faccio altro che giocare duro, perché è così che si gioca ai miei livelli».
Gli altri membri di questa spesso incompresa élite sono:
- Kermit Washington, uomo forte dei Lakers di 2.02 x 105 kg, è una persona piacevole e tranquilla che solleva pesi e di tanto in tanto stacca la testa alla gente. In una memorabile partita dello scorso novembre a Buffalo, chiuse una rissa a suon di gomitate con John Shumate, ala di 2.04, stendendolo con un turbinio di ganci e montanti. «Shumate fu fatto a pezzi», riferì un testimone oculare.
- Calvin Murphy, guardia di Houston di 1,74 x 73 kg, è il giocatore più piccolo di statura dell’intera NBA. Adatto tanto a fare da mascotte quanto a demolire gente di trenta centimetri più alta di lui, lo scorso novembre s’infuriò con Sidney Wicks, 2.04 di Boston, al punto da saltargli in testa per staccargli con la mano sinistra una ciocca di quella bella chioma afro e con la destra tirargli una cannonata tale da ridurre la faccia di Sidney una poltiglia di sangue.
- Dennis Awtrey, 2.07 x 110 kg di Phoenix, si candida lui pure per la Enforcers Hall of Fame o magari una cella imbottita (tipo quelle degli ospedali psichiatrici, NdT). In campo ha preso a pugni in faccia Dave Cowens, Bob Lanier e Kareem Abdul-Jabbar, ma fuori ha l’atteggiamento di un cucciolo, e i suoi occhi azzurri luccicano innocenti quando chiede: “Perché mai dovrei colpire qualcuno senza motivo?”.
- Bob Lanier, 2.09 x 115 kg dei Detroit Pistons, in sette anni poco ha fatto per guadagnarsi una certa reputazione; la sua stazza basta e avanza. Al secondo anno mise ko il centro di Atlanta di 2.12, Bob Christian, con un pugno. «La maggior parte dei ragazzi della lega ha perlomeno un po’ di buon senso», dice Lanier.
- Darryl Dawkins, 2.09 x 115 kg dei Philadelphia 76ers, è il bimbetto del gruppo. Ha appena vent’anni, e nemmeno lui può prevedere in che razza di casini potrà ficcarsi nei prossimi dieci. Ha però già dimostrato il proprio potenziale in un pauroso istante di Gara Due delle Finali la stagione scorsa. Lottando a rimbalzo, Dawkins saltò in groppa come un ragazzino a Bob Gross, alto 1.97, poi una volta a terra schivò un braccio e la testa di Gross per sferrare un gran cazzotto che inchiodò Doug Collins dei 76ers. Poi arrivò Lucas, che piazzò un avambraccio sulla nuca di Dawkins. I due si misero in guardia mentre 40 milioni di telespettatori trattenevano il respiro. Dawkins però non sferrò altri pugni, con gran sollievo di Lucas, che quindi non dovette restituirgliene. «Non volevo rimetterci una mano», disse Lucas. Dawkins, spedito negli spogliatoi, rovesciò due armadietti alti fino al soffitto, poi colpì un tifoso grosso quanto un armadio e lo fece ruzzolare nel gabinetto.
Fatti del genere, come vi confermerà chiunque dei protagonisti coinvolti, non sono però così comuni nella NBA. Nelle 41 risse della scorsa stagione (1976-77, NdT), solo 8 hanno riguardato i primi sei enforcer della lega. Responsabile almeno in parte per il mantenimento della relativa tranquillità c’è la minaccia di 10.000 dollari di multa per il cosiddetto flagrant fighting. «A volte mi sento come in dovere di battermi – ammette Awtrey – Ma da quando hanno messo 10.000 dollari di multa non so poi quanto debba davvero sentirmi obbligato a farlo».
Un enforcer di massimo livello raramente deve arrivare a battersi. Una volta che si è guadagnato il rango, altre dimostrazioni di solito non sono necessarie. Il compito di un mastino in campo è mantenere l’ordine, e nel modo più funzionale alla propria squadra. Se un avversario si concede delle libertà con un tuo compagno, l’enforcer deve mandargli un messaggio. A volte basta uno sguardo, altre un paio di paroline ben dette, altre ancora un gomito alzato o un blocco particolarmente duro. Se però è l’avversario che a sua volta ti manda un messaggio – del tipo “Dici a me?” (a mo’ di De Niro in Taxi Driver, NdT) – allora possono rendersi necessarie misure più severe.
Fino allo scontro Lucas-Dawkins, Philadelphia aveva avuto il pieno controllo, vincendo con facilità le prime due partite della serie. Lucas sin lì aveva giocato male, ma la sua rabbrividente intimidazione di Dawkins cambiò tutto. Con Dawkins capace a malapena di farsi sentire, Lucas costrinse George McGinnis alla peggior prestazione al tiro della carriera, e i Trail Blazers conquistarono le successive quattro partite e il titolo di campioni.
«Ti serve uno robusto, non prendiamo in squadra gente a caso», spiega Jack Ramsay, coach di Lucas ai Blazers. «È importante per la squadra far sapere che non ti farai sbatacchiare di qua e di là, che non ti farai intimidire».
«Gli enforcer sono vitali – sostiene Pete Newell, ex general manager dei Lakers, ora scout per Golden State – Comunque si voglia chiamarli fanno parte del gioco. Il basket è uno sport di contatto. Devi avere qualcuno, là in campo, che adora i contatti e abbia voglia di mantenere l’ordine».
Negli ultimi dieci anni il basket si è così affinato che oggi gran parte dei “gorilla” sono anche giocatori di grande talento. Non era così nei primi tempi della NBA a otto squadre che giocavano dieci, undici partite, o della ABA nella quale tanti giocatori di sconveniente reputazione venivano esiliati. A quell’epoca, gli enforcer erano più volgarmente noti come hatchet men, tagliagole; il loro lavoro era proteggere le stelle della propria squadra. Red Auerbach ai Celtics aveva il primo di quegli specialisti, l’1.94 Bob Brannum (1951-55). «Red non mi ha mai detto: “A quello dagli addosso” – ricorda Brannum – Mi diceva: “Guarda che in campo non devi farti intimidire”. Così se vedevo che qualcuno lo stava spintonando, a Cousy dicevo: “Ehi, Cooz, buttalo giù”, e io facevo la stessa cosa».
Il successore di Brannum fu il leggendario Jungle Jim Loscutoff (1956-64), che di Brannum ereditò anche il numero 18 (indossato poi ai Celtics da notevoli attaccabrighe quali Bailey Howell e Dave Cowens). «Nessuno doveva chiedermi di fare niente – racconta Loscutoff – Anzi, Red con me si divertiva in un esercizio particolare per farmi riprendere fiducia dopo l’operazione al ginocchio. Mi lanciava un pallone in campo dicendo: “Vai a prenderlo”, ed io dovevo tuffarmi rotolandomi sul parquet. Eravamo in precampionato. Red andava da quelli dell’altra squadra e diceva: “Guardate un po’”, poi mi lanciava i palloni ed io mi tuffavo per andarli a prendere».
C’erano sempre parecchie risse che iniziavano o finivano con tipini come Loscutoff, Walter Dukes, Andy Johnson, Tom Hoover, Al Attles, Gus Johnson, Luke Jackson, Wayne Embry, Johnny Green, Sweetwater Clifton. Il classico duello ABA era quello fra John Brisker e Wendell Ladner. Ma dei tre più grandi enforcer di tutti i tempi — Bill Russell, Wilt Chamberlain e Willis Reed — due, Russell e Chamberlain, mai hanno partecipato a una vera rissa. «Russell intimidiva semplicemente con le sue qualità», sostiene Auerbach. E lo stesso valeva per Chamberlain, di cui Lenny Wilkens dice: «In tanti sono ancora in circolazione solo perché non ha mai perso il controllo».
Quasi tutti vi diranno che la più grande rissa nella storia del basket è stata «la notte in cui Willis Reed spazzò via da solo l’intera squadra dei Lakers». Di quella scazzottata i Knicks hanno un filmato che sarà stato guardato più volte di King Kong. Era il 18 ottobre 1966, la gara di apertura dei Knicks in casa al vecchio Madison Square Garden. Reed, 2.02 per 108 kg, al terzo anno nella lega, si era scambiato sgomitate per tutta la sera con Rudy LaRusso. Dopo un tiro libero nel terzo quarto, Reed sgambettò LaRusso, che centrò Reed con un destro mentre Darrall Imhoff teneva da dietro Willis, che s’infuriò ancora di più. Mollò un cazzotto a Imhoff e inseguì LaRusso fino alla panchina, poi colpì John Block con un gran gancio sinistro in piena faccia, si girò e cinturò di nuovo Imhoff, che cadendo tirò giù cinque Lakers come al domino. Reed piantò altri due colpi a LaRusso e un altro a Imhoff, che, sanguinando dall’arcata sopraccigliare sinistra, si buttò sotto la panchina, dove Block – col naso rotto – già si era nascosto.
Di recente, Reed sogghignava al ricordo dell’incidente. «Hanno detto che sarei dovuto essere radiato. Invece mi hanno dato solo l’espulsione e una bella multa, niente rispetto a oggi. Sapete cosa succederebbe se qualcuno facesse quello che feci io?». Diciamo una bella multa di diecimila dollari?
«Le mie risse avvengono perché il mio è un gioco fisico – spiega Lucas – Gli avversari non gradiscono e s’infuriano. Il mio è un gioco fisico ma pulito. Non colpisco mai nessuno in faccia. I colpi li piazzo tra collo e ombelico. Il mio concetto di enforcement – se proprio dovete chiamarlo così – è procurarmi un vantaggio che poi manterrò sempre. Prendete Joe Frazier e Muhammad Ali. Ci sono voluti tre incontri mostruosi, ma alla fine Frazier ha semplicemente mollato».
«Io non cerco mai di fare male a qualcuno. Magari gli do appena una scrollatina. E di solito è perché quel qualcuno gioca sporco, tipo correrti su un piede o colpirti alle spalle, o mollarti un colpo gratuito nell’andare a rimbalzo. Non mi piace fare lo sbirro. Io credo fermamente nell’ognun per sé. Ovviamente, a volte mi capita di dover proteggere Bill [Walton] perché gli avversari cercano sempre di colpirlo. Non ci mettiamo a fare risse, uno lo puntiamo e lo mettiamo in mezzo: pum! – una scrollatina. Abbiamo dato una bella svegliata a Tommy Burleson, a volte. A Sam Lacey, a Jim Eakins. Cerchiamo di prendercene cura direttamente e di non tirarla troppo per le lunghe. Non fa bene alla nostra salute mentale. A essere sincero, non so neanche chi siano quelli che giocano sporco, perché in tanti quel che fanno agli altri a me non lo fanno... e a me sta bene così».
L’infortunio al ginocchio di Washington a metà della scorsa stagione può essere costato ai Lakers il titolo, ma dopo otto mesi di sala-pesi ora è più forte che mai. «Non sono un poliziotto – si sfoga Kermit – E non cerco guai. Cerco solo di guadagnarmi da vivere, per me e per la mia famiglia. Se qualcuno prova a portarmi via il cibo dalla tavola, a portarlo via alla mia famiglia, divento cattivo. In questa lega devi farti rispettare. Ti sbatacchiano di qua e di là, se glielo consenti. Tanti di noi non hanno il talento di Dr. J o di Kareem Abdul-Jabbar, quindi dobbiamo svolgere il nostro lavoro meglio che possiamo. Io sono solo un tipo aggressivo che cerca di sopravvivere. Davvero».
Murphy, più di ogni altro enforcer, detesta essere etichettato come testa calda. «Il cento percento delle mie “vittime” ha cominciato per primo attaccando me», dice. Tra quelle vittime, da lui tutte suonate per bene, c’erano Wicks, Dale Schlueter (2.07), Larry McNeill (2.04) e John Brown (1.99). «Io sono solo uno che crede nei propri diritti e in quelli della propria squadra – continua Murphy – Nessuno vuole piantarti un dito nell’occhio, ma io là sotto mi ritrovo al livello in cui tutti cercano il pallone. La prima cosa che quegli omoni grandi e grossi fanno, nel prendere palla, è colpirti. Io so quando lo ganno apposta e quando no. Ed essendo una guardia di bassa statura, io devo essere feroce. Devo supplire a cose che non ho. Se mollo un pugno, non è per fare finta ma per colpire qualcuno».
Per fortuna, Murphy se l’è presa sul serio solo con uno della sua stessa stazza, un calvo folletto di Seattle. Slick Watts, che Murphy definisce «un ipocrita» e «gasato». «Ah, adoro il vecchio Calvin – risponde Watts – È un genio nel tirarti nei casini. Io cerco sempre di evitare che lui inciampando mi venga addosso».
Awtrey interpreta il ruolo grossomodo come faceva Loscutoff, perché il coach di Phoenix, John MacLeod, è probabile che lo faccia entrare dalla panchina apposta per “mettere le cose in ordine”. «Io sono un giocatore fisico, quindi che me le rendano me lo aspetto», ammette Awtrey. «Ma prima che passassi professionista, nessuno aveva mai osato sfidarmi. Né al college, né al bar. Niente. Pensavo di essere una persona pacifica. Per me il bene e il male sono come il nero e il bianco. Quando hanno cominciato a sbatacchiarmi di qua e di là, ho deciso che non me ne sarei stato lì a subire. E credo di essermi fatto una reputazione colpendo con un pugno in faccia Kareem quattro anni fa in diretta tv nazionale. Lanier? Non saprei. Non credo sia così duro. Due anni fa, a Seattle, spedii Burleson sugli spalti. Pat Riley e Fred Brown – due piccoletti – continuavano a darsele per tutto il parquet. Io me ne stavo lì a guardare. Poi, Burleson attaccò Riley. E io lanciai Tommy fra i seggiolini, in braccio a una signora, che a momenti ebbe un infarto. Dawkins invece mi spaventa davvero perché non sai mai cosa gli passa per la testa. Cowens perde il senso di sé – e di tutto ciò che lo circonda. Gente come lui non è così insolita nella NFL, ma nella NBA è una rarità».
Il massiccio Lanier ha un ricordo vivido del suo primo – e, saggiamente, ultimo – scontro con Chamberlain. «Quando mi ha sollevato di peso qua e rimesso giù là, ho pensato fosse il più pericoloso – racconta Lanier – Giocavamo a Los Angeles e c’era una rimessa per loro. Wilt ed io stavamo lottando per la posizione. L’arbitro ancora una volta fischiò contro Wilt, che allora mi alzò di peso e mi tolse di mezzo. Fine».
Lanier si sbarazzò in fretta di Jim Eakins e Bill Robinzine – new entry di Kansas City – una sera della scorsa stagione, e stese un tifoso di Oakland durante i playoff ma pochi altri sono stati abbastanza intrepidi da sfidarlo. «Se mi trovassi a faccia a faccia con Lanier? – scherza Lucas – Lo inviterei per un drink dopo la partita».
L’uomo di cui invece tutti si preoccupano è Dawkins. Messo in imbarazzo dal confronto con Lucas nei playoff, the Dawk fa più paura che mai con quella testa rasata e il minuscolo orecchino d’oro. «Come altri trenta milioni di persone, anch’io ammiro Muhammad Ali – dice Darryl – Ed è così che farò quest’anno. Se dico una cosa, la faccio. Essere un enforcer deriva dalla mia stazza. Nessuno, e dico nessuno, farà del male ai miei compagni. Se uno di noi sta giocando bene, gli avversari vorranno fargli male. E tu invece vuoi che stia bene, perché ti farà fare soldi».
Dawkins ammette che vorrebbe aver colpito Lucas quando ne aveva avuta l’occasione. «Dalla multa che ho pagato [25.000 dollari ciascuno], avrei dovuto colpirlo. Quest’anno, se finirò in una rissa, voglio essere io a colpire per primo». Secondo l’Assistant Coach di Philadelphia, Jack McMahon: «Con uno come Darryl, te ne stai alla larga. Magari non saprà combattere, ma se ti ci metti contro, spera in Dio che non ne sia capace».
Le leggende crescono e il dibattito continua: chi è il principale enforcer del momento? Lasciamo al grande genio creativo della NBA, Pistol Pete Maravich, il compito di scoprirlo. «C’è un sacco di millanteria nella lega – dice the Pistol – Gente che parla tanto. Quello che mi piacerebbe vedere, con la tv che sembra lì apposta per amplificare tutto, è un torneo di boxe fuori stagione tra giocatori NBA. Lasciamo che indossino guantoni da 16 once e si battano per tre round da due minuti. Una cosa di sicuro la farebbe… farebbe finire un bel po’ delle tante chiacchiere che girano».
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