Vite da NBA: Rasheed Wallace, genio e sregolatezza



by Eugenio Agostinelli -17 settembre 2014

”C’è una regalità, una bellezza, una forza in quell’uomo fuori del comune. Certo, ci sono due problemini psichici… e chi non ne ha?”.

Potrebbe bastare questa citazione dell’Avvocato Federico Buffa per descrivere al meglio il personaggio di oggi nella nostra rubrica “Vite da NBA”; un uomo controverso, sicuramente non semplice da trattare, una persona che vive la vita a modo suo, con filosofie proprie. Ma oltre all’uomo c’è il giocatore di basket: un poeta. Di lui molti allenatori hanno detto “Cosa vuoi insegnargli? Lui sa già tutto. E’ lui che insegna il basket a noi.” Ha vinto soltanto un titolo Nba, mai vestito la casacca di Team USA e mai vinto un premio di MVP del campionato, ma non ha necessitato tutto questo per entrare nel cuore della gente. Dalla Simon Gratz High School di Philadelphia fino agli anni di Detroit, dal ritiro solo momentaneo e poi il ritorno nella Grande Mela. Ora back to MoTown da assistente allenatore, ma è del passato che ci importa. “BALL DON’T LIE!” Rasheed Abdul Wallace signore e signori, buona lettura.

La storia di “Sheed” inizia il 17 settembre di 40 anni fa a Philadelphia, città dell’amore fraterno ma non di certo nelle zone periferiche della città, dove la lotta per la sopravvivenza è ardua. Rasheed fin dalla nascita si distingue da ogni altro bambino per via di una piccola chiazza bionda in un cuoio capelluto nerissimo, un particolare che il caso ha voluto regalare proprio a quel ragazzino come per dire “Sto qua è speciale, occhio gente”. Mamma Jackie, tosta lanciatrice di giavellotto da adolescente, ha avuto il suo terzo figlio dalla relazione con un secondo uomo, dopo che i primi due li aveva avuti con suo marito, e passerà la sua vita ad occuparsi del suo ultimo erede, partendo già dalla high school. Rasheed viene iscritto alla high school migliore di Philadelphia, la Simon Gratz HS, e sua mamma ci tiene fin da subito a parlare con il coach di basket della scuola: “Signor Ellerbee, buongiorno. Sa, sono la mamma di Rasheed Abdul Wallace… mio figlio è veramente bravo, dovrebbe farlo giocare, però mi raccomando: lo prenda a schiaffi. Ci saranno occasioni per farlo, glielo assicuro. Gli farà bene.” Nella sua stagione alla Simon Gratz HS Sheed segna 17.5 punti di media conditi da ben 17.7 rimbalzi a partita. Niente male, no? “Rasheed è un giocatore tuttofare. Può fare davvero di tutto. Conosce il gioco in entrambe le metà campo, è uno studente del gioco: è questo che lo rende migliore di altri giocatori della sua stessa altezza.” Parole di coach Ellerbee.

La scelta del college sarà il primo grande passo della sua vita. Tutti i college di primissimo livello gli mandano la lettera d’invito, lui le prende, apre, legge e le infila sotto al materasso per far si che sua madre non le vedesse. Poi confesserà, e da lì Jackie si metterà a lavoro. Il cerchio si restringe e rimangono solo 4 college: 2 di casa (Temple e Villanova), Georgetown (la preferita di Rasheed) e North Carolina. Mamma Jackie dice Tar Heels, e Tar Heels sia. A North Carolina allena Dean Smith, un grandissimo conoscitore di questo gioco, tanta esperienza in Ncaa e soprattutto uno che sa come crescere un talento nella maniera giusta. La prima stagione, quella 1993-1994, è una stagione di ambientamento per Wallace, che con la maglia dei Tar Heels trova Jerry Stackhouse, Jeff McInnis ed il nostro Dante Calabria, che aveva un ruolo di specialista in quella squadra. Nel roster c’erano già due lunghi, Eric Montross e Kevin Salvadori, che con altri 3 bianchi l’anno prima si erano laureati campioni collegiali. Nel primo allenamento i due, di squadra insieme nella partitella, stoppano insieme Wallace e durante il tragitto verso l’altra metà campo gli annebbiano la mente con del sano trash talking. Azione successiva: palla a Sheed nel pitturato, giro dorsale e schiacciata in testa a Salvadori e Montross, con tanto di aggiunta verbale “Motherfuckers, your job is mine!”. Piacere nostro Sheed! Le cifre a fine stagione sono nella norma, buone per un primo anno: 20.9 minuti a partita in 35 giocate con 9.5 punti a partita, 6.6 rimbalzi e 1.8 stoppate, ma è nella sua seconda annata che migliora notevolmente le sue cifre: i punti diventano 16.6 ed i rimbalzi 8.2, tira col 63% dal campo e timidamente inizia anche a provarci dalla lunga distanza con un discreto 33%. Ah, quasi dimenticavo… Questo qui tira con entrambe le mani.

Dopo appena due stagioni con la maglia della UNC, Rasheed Wallace decide che è ormai tempo di fare il grande, decisivo salto: “Mom, I’m going to the Nba!” Draft 1995: “With the 4th pick in the 1995 Nba Draft, the Washington Wizards select Rasheed Wallace, from the University of North Carolina.” Wallace raggiunge quella Washington che aveva tanto desiderato ai tempi del college, quando lui voleva a tutti i costi andare a Georgetown ma mamma Jackie scelse North Carolina. Era nel suo destino raggiungere la capitale, e così parte la sua avventura nel mondo del basket dei pro, inizia la sua carriera in Nba. Non molti capiscono la scelta degli allora Bullets di puntare su Wallace, potendo fare affidamento già su due lunghi di gran livello come Juawn Howard e Chris Webber, e così Sheed all’inizio si ritrova a dover partire dalla panchina, ma dopo una dozzina di partite entra in quintetto base per via del suo talento che sta iniziando a venir fuori giorno dopo giorno, gara dopo gara. Per via di un infortunio ad un piede chiude in anticipo la sua stagione da rookie collezionando 10.1 punti, 4.7 rimbalzi ed 1.3 assist ad allacciata, guadagnandosi anche l’inserimento nel secondo miglior quintetto dei rookie della stagione. In estate la dirigenza di Washington decide di volerlo scambiare con Portland per arrivare a Rod Strickland ed Harvey Grant; la destinazione non è sgradita a Sheed, la rosa di Portland non è assolutamente da scartare ed un coach come PJ Carlesimo può solo che giovare alla crescita di un ancora giovane Wallace. Niente, fuori al primo turno per mano dei Lakers: fuori Carlesimo, dentro Dunleavy, con Wallace che chiude la stagione con 15.1 punti e 6.8 rimbalzi a partita. Nella stagione successiva altro giro, altra uscita al primo turno sempre ad opera dei gialloviola e sempre per 3-1; Sheed in regular season gioca 77 partite tutte e 77 nello starting five della squadra, collezionando 14.6 punti e 6.2 rimbalzi, che però non bastano per portare la squadra più avanti del primo round della post-season. Stagione ’98-’99, si parte con il lockout Nba: si inizia a giocare soltanto il 7 febbraio, ma la stagione non va malissimo per i Trail Blazers, che concludono con un record di 35-15 ed accedono ancora ai playoff. Wallace però non brilla, perde il quintetto base e le sue cifre calano notevolmente. Playoff: primo turno stavolta ok, sconfitti i Phoenix Suns 3-0. Bene anche il secondo turno, sconfitti gli Utah Jazz per 4-2. Finale di conference contro i San Antonio Spurs: male, non c’è storia, 4-0 secco e Portland in vacanza. Ma il gruppo che si è formato nei Trail Blazers di Wallace è molto affiatato, giocano un buon basket seppure non ci siano fenomeni e soprattutto, cosa fondamentale, non sono di certo bravi ragazzi: Rasheed Wallace, Jermaine O’Neal, Bonzi Wells… vedremo più avanti gli sviluppi di questa squadra.

Ecco che finalmente, nella stagione 1999-2000, vengono fuori i VERI Portland “Jail” Blazers. “Perché sono chiamati così?” direte voi… beh, analizziamo parte del roster: –Ruben Patterson: aggressione sessuale –Rasheed Wallace: rissa con il compagno Arvydas Sabonis (due piccolini) –Qyntel Woods: possesso di marijuana ed organizzazione clandestina di… COMBATTIMENTI TRA CANI (!!!), sostituzione della patente di guida con una sua card da gioco dell’Nba durante un controllo della polizia –Damon Stoudamire: possesso di marijuana –Zach Randolph: rissa con il compagno Patterson –Bonzi Wells: mister “I don’t give a fuck ‘bout my fans” più parole non propriamente simpatiche rivolte a coach Maurice Cheeks di fronte a tutta la squadra, avvenimento ripetuto Può bastare? Ecco: questi avanzi di galera in stagione hanno un record di 59 vittorie e 23 sconfitte… chi lo avrebbe mai detto? Certo, il talento non manca affatto, ma il tasso di criminalità resta pur sempre superiore. Ai playoff, passati in scioltezza primo e secondo turno, in finale di conference si trovano di fronte i Los Angeles Lakers strafavoriti per la vittoria del titolo della stagione in corso: Shaquille O’Neal, Kobe Bryant, Rick Fox, Derek Fisher ed il supporting cast. C’è un’impresa da compiere, i Jail Blazers sono più che pronti. Con un Wallace fenomenale, coadiuvato da Scottie Pippen e Steve Smith, Portland riesce incredibilmente a portare la serie a gara 7, che si giocherà allo Staples Center di Los Angeles, con i pronostici del caso tutti completamente a favore dei padroni di casa. Ma si sa, il basket è strano, pay attention. In uno Staples Center stracolmo e con un’atmosfera pazzesca, le due squadre si apprestano a dar vita ad uno degli incontri più adrenalinici di sempre. Udite udite, a fine terzo quarto Portland è in vantaggio 75-60 tra lo stupore di tutti i presenti e di coloro che stanno assistendo in qualsiasi modo alla partita decisiva di questa incredibile serie. Ma i Lakers hanno deciso che avrebbero iniziato a giocare per gli ultimi 12, decisivi minuti di quella gara. E così sarà. Recuperano un deficit di 15 punti grazie ai super Bryant ed O’Neal, mettendo il punto esclamativo con un alley hoop alzato dal primo per O’Neal e fissando il risultato sull’89-84. Portland ancora una volta in vacanze anticipate. Non sono bastati gli apporti super in post-season di Wallace (17.9+6.4) e Pippen (14.9+7.1 rimbalzi+4.3 assist), la squadra migliore ha avuto la meglio, e per il rotto della cuffia Sheed si ritrova ancora una volta a casa a guardare le Finals senza parteciparvi. Come cambiare tutto ciò? Semplice, non era ancora la sua ora.

Per i 3 anni successivi rimane a Portland, affermandosi come leader della squadra (cosa che a lui non piace, ha sempre detto di voler essere un “Team’s player” e niente di più) sia nello spogliatoio che in campo, risultando sempre il miglior realizzatore ma mai arrivando a 20 punti di media, e la squadra non riesce più ad andare oltre il primo turno di playoff seppure in stagione le prestazioni siano più che buone. Nella stagione 2003-2004 la dirigenza di Portland decide che è ormai tempo di sciogliere questa edizione dei Trail Blazers versione “criminali”, ed in questa operazione rientra anche Wallace che fino al 9 febbraio aveva tenuto una media di 17.0 punti e 6.6 rimbalzi in 44 partite giocate. Sheed viene mandato agli Atlanta Hawks, in una squadra che cade a pezzi e senza alcun obiettivo decente. Scende in campo per la prima partita in maglia Hawks, firma 20 punti con 6 rimbalzi e 5 stoppate e via, si preparano di nuovo le valigie. No no, non è per una trasferta, ma per il secondo trasferimento in 10 giorni: il 19 febbraio i Detroit Pistons, per volere di coach Larry Brown, acquistano Rasheed Wallace in una trade a 3 squadre con Hawks e Celtics. In un attimo Wallace passa da una squadra senza senso ad una candidata al titolo, al fianco di gente come Chauncey Billups, Rip Hamilton, Tayshaun Prince e Ben Wallace. Sarà giunta l’ora di Sheed? In 22 partite di stagione con la nuova maglia n°30 dei Pistons, Sheed firma 13.7 punti con 7.0 rimbalzi in un contesto che ama, ossia quello di un quintetto solido, che si aiuta reciprocamente ma senza una stella, una punta di diamante nella squadra. Tutti, dagli uomini del quintetto base fino al fiasco Darko Milicic (scelto alla 2 nel draft di LBJ, Melo, Wade e Bosh), sono indispensabili, ed infatti i pistoni chiudono la stagione con un record di 54-28. Ai playoff la corazzata guidata da coach Larry Brown fa fuori prima i Milwaukee Bucks (4-1), poi i combattivi New Jersey Nets (4-3) ed in finale di conference gli Indiana Pacers (4-2), e così Sheed, per la prima volta nella sua carriera, riesce finalmente a raggiungere le tanto ambite Finals Nba. Ad aspettare i Pistons però ci sono avversari sgraditi: sono quei Lakers tanto affamati di vittoria che sconfissero Sheed ai tempi di Portland in finale di conference grazie al super duo Kobe-Shaq, ma quest’anno sembrano ancora più forti con gli arrivi di Gary Payton e Karl Malone in primis, e sempre guidati dal maestro Zen Phil Jackson: è tutto pronto per una sfida epica tra Detroit Pistons e Los Angeles Lakers. Grazie al grande back-court Billups-Hamilton, i Pistons riescono a sbarazzarsi dei Lakers in sole 5 partite portando finalmente il titolo a MoTown: Rasheed Wallace riesce a mettersi quel tanto desiderato anello al dito, e non è la fedina nuziale. Nei playoffs Sheed mantiene le sue medie stagionali quasi inalterate, ma soprattutto offre un contributo carismatico e caratteriale non da poco. Piccola curiosità: dopo aver conquistato il titolo di campioni Nba, Rasheed pensa bene di omaggiare tutti i suoi compagni di squadra con una cintura di campione dei pesi massimi di wrestling: ne viene fuori ‘sta roba qua.

La stagione successiva si prospetta molto difficile, ancor più di quella appena conclusasi: vincere un titolo è difficile, ma ripetersi lo è ancor di più, soprattutto quando le dirette avversarie si rinforzano. E’ quello che fanno i Miami Heat di Dwyane Wade, che firmano Shaquille O’Neal: la battaglia ad est si rende così ancora più complicata per raggiungere le finali. Ma i Pistons sono squadra vera, l’organico resta inalterato e viene firmato Antonio McDyess per portare ulteriore esperienza tra i giocatori (come se ce ne fosse già poca!), Billups ed Hamilton sono i fari della squadra anche quest’anno e Rasheed contribuisce alla grande (14.5 e 8.2 rimbalzi): record stagionale inalterato, 54-28. Pronti per un’altra cavalcata verso il titolo Nba. Tutto facile al primo turno contro i Philadelphia 76ers (4-1), bene al secondo contro Indiana (4-2) ed in finale di conference arrivano i temuti Miami Heat: in una vera e propria guerra durata ben 7 partite, i Pistons strappano il pass per la seconda finale Nba consecutiva respingendo la minaccia del duo Wade-O’Neal. In finale però li attendono i re dell’ovest, nientemeno che i San Antonio Spurs di Duncan, Parker e Ginobili. L’episodio cruciale è in gara 5, con la serie impattata sul 2-2. Si gioca al Palace of Auburn Hills di Detroit, l’arena è piena di gente vestita di rosso e di blu; la partita è combattutissima, si arriva a 9.4 secondi dal termine con i padroni di casa avanti 95-93 e con il possesso per gli Spurs, dove milita un certo Robert Horry, per tutti “Big Shot Rob”. Succede questa roba qua.

Sheed sbaglia a raddoppiare in angolo su Ginobili, poi parlano le immagini. Si va a gara 6, doppio match point Spurs tra le mura amiche. Gara 6 vinta incredibilmente dai Pistons, con un grande sforzo di squadra, ed è tutto rimandato alla “bella”: gara 7, solo chi ha attributi grandi così potrà scendere in campo. Purtroppo, la missione dei Pistons termina proprio la sera di gara 7 in maniera negativa, con gli Spurs che alzano al cielo il Larry O’Brien Trophy: il sogno del repeat finisce, probabilmente non capiterà più un occasione simile. La squadra di Detroit è quasi tutta oltre i 30 anni, Sheed compreso, e Flip Saunders non è certo Larry Brown. Sheed in finale non dà il suo solito contributo, le percentuali sono basse ed i punti pochi, forse anche questo è uno dei motivi della sconfitta della squadra di MoTown.

Per i successivi 3 anni la squadra arriva sempre a tanto così dal raggiungere le finali, ma vengono eliminati 3 volte su 3 in finale di conference, prima dai Miami Heat (poi campioni), poi dai Cleveland Cavaliers di King James in una bellissima serie (4-2), ed infine dai Boston Celtics edizione “Big Three”, finiti col vincere il titolo. Wallace inizia a perdere lucidità, le statistiche calano vertiginosamente ed il fisico è logorato, la mente non regge più la pressione di una volta. Sembra che la favola in Nba dell’uomo da Philly sia vicina alla fine. Dopo la stagione 2008-2009 dove Detroit, con il GM Dumars nel caos, raggiunge sì i playoff, ma va fuori al primo turno con un sonoro 4-0 per mano dei Cavs: estate sempre più anticipata per Sheed, che in estate diventa free agent. Il cambio d’aria sembra sempre più imminente. Così sarà: Wallace, che con il suo agente nell’estate ’09 incontra gli Orlando Magic, i San Antonio Spurs ed i Dallas Mavericks, decide di firmare per i Boston Celtics dei “Big Three” Pierce, Garnett ed Allen, con un giovane Rondo in rampa di lancio e Doc Rivers in panchina che vuole a tutti i costi provare un nuovo (ed ultimo?) assalto con questa edizione dei Celtics al titolo Nba. Con un roster così bisogna puntare senza mezzi termini all’anello, cosa che i Celtics fin dalla stagione regolare provano a fare, e dopo un record di 50-32 arrivano ai playoff carichissimi. Fuori Miami, Cleveland ed Orlando, in finale ci sono gli odiati Lakers, nemici di innumerevoli battaglie sportive e sempre coprotagonisti di grandi spettacoli. La serie la vincono i Lakers al termine di 7 partite al cardiopalma, i Celtics escono a testa bassa ma consapevoli di aver dato tutto, Sheed compreso (9.0 e 4.1 rimbalzi in stagione, 6.1 e 3.0 rimbalzi nei playoff) anche vista la carta d’identità che segna 35 primavere. Il 25 giugno succede però una cosa inaspettata: dopo il primo dei 3 anni di contratto previsti con i Boston Celtics, Wallace decide che è arrivata l’ora di appendere le scarpette al chiodo. Tutto il mondo del basket si ferma, la dirigenza prova a convincere il 36 di tornare ancora per i 2 anni rimanenti, ma niente: grazie e arrivederci. Ah, si prende i due anni di stipendio stando a casa in pantofole. “Ehi Rasheed, mi hai stancato: tutto il giorno in giro per casa, nel divano, nel letto, senza fare proprio un cazzo! E’ ora che tu torni a fare qualcosa…” “Tu dici?”

Sheed is back. Grazie alla perseveranza di sua moglie ed alla sua amicizia con Mike Woodson, coach dei New York Knicks, Wallace decide che è tempo di tornare a deliziarci con la sua regalità nel rettangolo di gioco, e così firma a New York per un anno per la gioia di tutti gli appassionati del gioco, ma non certo degli arbitri di tutta l’Nba. Premessa: chiedo scusa a tutti per non aver affrontato questo argomento prima. Wallace, oltre ad avere non pochi nemici in ogni caserma di polizia degli States che si rispetti, ha SEMPRE (e dico SEMPRE) avuto problemi con gli uomini in grigio durante le partite: è stato da sempre un Sheed vs Referees, insomma. L’espressione che lo ha reso noto a tutti è quella di “Ball Don’t Lie”. La palla non mente. Mai. In seguito ad un fallo fischiatogli (a suo parere ingiustamente), se l’avversario sbaglia il tiro libero potete sentire questa frase risuonare per tutto il palazzetto, ed i falli tecnici ed espulsioni nella sua carriera non sono mai mancati. Buon divertimento.

Sheed lo stesso anno, per via di un fastidioso infortunio da stress al piede, annuncerà il suo ritiro il 17 aprile, e non farà mai più ritorno in un campo da basket come giocatore. Ma lo farà da assistente! Esattamente, infatti i Pistons pensano bene nel 2013 di offrirgli il ruolo di assistente allenatore di Maurice Cheeks (colui che allenò i Portland Jail Blazers, sant’uomo) ed in particolare di allenatore dei lunghi, potendo contare su due grandi prospetti come Greg Monroe ed Andre Drummond, ai quali poi si aggiungerà Josh Smith. Si potrebbe scrivere un libro, fare un film o un documentario sulla vita di quest’uomo. Un personaggio esilarante, curioso ma genuino, che vestiva di stracci seppur pieno di soldi e guardava storto ai vestiti milionari dei suoi compagni, uno che non ha peli sulla lingua e dice tutto ciò che gli passa per la testa, a volte (molte volte) anche troppo velocemente. Ringraziamo gli Dei del basket per avercelo concesso, non ne nasceranno altri come lui ancora per molto tempo. Forse non nasceranno proprio mai più. Dalla Simon Gratz High School di Philadelphia di coach Ellerbee, da North Carolina di coach Dean Smith che è stato una mano santa per la sua crescita di uomo e giocatore, dagli Washington Bullets, i Portland Jail Blazers, quello spezzone di Atlanta Hawks e poi i “Bad Boys” in quei Detroit Pistons campioni Nba, per poi terminare con i Boston Celtics ed i New York Knicks. 4 convocazioni all’All Star Game, nessun riconoscimento individuale. Ma a cosa servono quando ti chiami Rasheed Abdul Wallace? Uno che insegna agli allenatori come si gioca a pallacanestro, che non ha bisogno di niente e nessuno. Dategli una palla a spicchi, mettetevi comodi e, per l’amor di Dio, non fategli vedere un arbitro nemmeno da lontano. Al resto ci pensa lui.

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