Dal campo ai campi: il flop Darko Milicic



Alberto Dagnino | 19/06/2019 | Storie

Una retrospettiva sulla fallimentare scelta di Milicic al Draft del 2003, tra suggestioni, voci e falsi miti.

A cavallo del nuovo millennio, nella NBA si diffonde la convinzione che il basket internazionale sia finalmente degno di attenzione: giocatori europei e non solo possono essere armi importanti anche nel sistema statunitense. Una convinzione sacrosanta, non c’è che dire, ma di per sé non sufficiente a salvarsi dai disastri. Nello specifico, l’ascesa di Dirk Nowitzki ha illuso orde di GM che ogni giocatore del vecchio continente che si avvicinasse o superasse i 7 piedi potesse, con un po’ di duro lavoro, diventare un’arma letale in grado di cambiare le sorti di ogni franchigia.

Gli esempi sono tantissimi.

Draft 1999: Aleksandar Radojevic viene scelto alla dodici, salvo giocare tre sole partite in due anni prima di tornare in Europa. Tre scelte dopo di lui viene selezionato Frédéric Weis, tristemente noto per la schiacciata di Vince Carter alle Olimpiadi, che mai toccherà un parquet NBA.

Nel 2000 è la volta di Dalibor Bagaric, anche lui scelto al primo giro dai Bulls, coi quali in tre stagioni non supererà i 2.6 punti di media a gara.

Nel 2002 Nikoloz Tskitishvili, oggetto non identificato in forza alla Benetton Treviso, viene scelto alla quinta chiamata assoluta dai Denver Nuggets e, nonostante abbia pascolato qualche stagione sui parquet americani, sfido chiunque a ricordarlo autore di una qualunque prestazione degna di nota. E poi c’è il Draft 2003.

Sull’onda di quanto detto, quell’estate si registra un allora record di 21 international players scelti tra primo e secondo giro; uno di essi è dato quasi certamente tra le prime tre chiamate assolute. La prima è già assegnata: LeBron James andrà a Cleveland e cambierà per sempre l’aspetto della Lega. Poi tutto può succedere.

Facendo un salto in avanti di oltre 15 anni, quattro dei primi cinque giocatori scelti in quel Draft sono potenzialmente tutti futuri hall of famer. L’altro è diventato un contadino.

“Se non fosse per LeBron James, Darko Milicic sarebbe sicuramente la prima chiamata di questo Draft e di tutti quelli degli ultimi dieci anni”.
- Jay Bilas


La vicenda di Darko Milicic è la perfetta epitome della frenesia che ruota attorno alla giostra del Draft NBA: qualche highlight non ancora in alta definizione, un’esaltante misurazione di wingspan – sogno bagnato di molti scout – un workout che fa gridare al miracolo e la fregatura è servita.

Quella sera, al Madison Square Garden, le bancarelle hanno già disponibili in vendita due sole magliette, stampate sulla fiducia: quella del Prescelto e quella del ragazzo serbo per cui Joe Dumars è pronto a giocarsi quella miracolosa seconda scelta ricevuta in dono grazie a una vecchia trade.

Come è successo? Come ha fatto un neo maggiorenne di Novi Sad a scalare le gerarchie di uno dei Draft con più talento – almeno tra le prime chiamate – della storia della NBA?

“Dal 2003 in poi, la cura nello studio di ogni nostra singola scelta è diventata maniacale. Le informazioni che avevamo su Milicic non arrivano neanche al 20% di quelle che abbiamo raccolto per tutti i giocatori venuti dopo di lui”.Joe Dumars

Milicic cresce nella ex Jugoslavia dilaniata dalla guerra civile, figlio di un soldato impegnato su diversi fronti nelle file dell’esercito serbo. Quando il piccolo Darko non ha nemmeno 10 anni, un telegiornale riporta la notizia che in un conflitto a fuoco una ventina di soldati hanno perso la vita: ne vengono pubblicati i nomi e tra questi vi è anche quello di papà Milorad.

La famiglia è distrutta, ma dopo neanche cinque minuti, un giornalista si scusa: alcuni nomi sono stati riportati male, anche quello del signor Milicic, che torna a casa sano e salvo e, notata la predisposizione fisica del figlio – leggasi altezza – comincia ad approcciarlo alla pallacanestro. Più che di approccio, è giusto parlare di gentile imposizione. Darko non ha mai mostrato interesse nei confronti del Gioco, vi si relaziona come quei bambini che controvoglia vengono mandati a lezione di nuoto o pianoforte, e vi si dedica quasi meccanicamente, senza pensarci troppo, senza eccessiva passione. Limite che probabilmente si porterà dietro per tutta la vita.

Che sia predisposizione genetica, che siano gli insegnamenti giusti del padre, resta il fatto che Milicic riesce piuttosto bene e a 14 anni viene notato dal Hemofarm, una squadra con sede a Vrsac, cittadina quasi al confine con la Romania.

Pur senza passione, Darko intravede nel basket un obiettivo tangibile per fare fortuna, magari lasciando quella terra così travagliata.



A 16 anni diventa professionista. Resta a Vrsac per due stagioni, in cui registra numeri non certo esaltanti ed è ben lontano dall’essere un punto di riferimento per la squadra. Eppure mostra dei lampi notevoli, tra agilità di piedi e velocità inusitata per un sette piedi, una verticalità molto interessante in fase difensiva e una mano mancina che promette bene per un futuro anche lontano dal canestro. Sono mere fascinazioni, la strada da fare per diventare un fattore anche solamente nel campionato locale è molto lunga. Ciononostante le sirene d’oltreoceano cominciano a suonare ugualmente.

“Quando il suo nome ha cominciato a girare tra gli scout report e nelle liste dei possibili selezionati al Draft rimasi piuttosto stupito. Ero andato due volte in Europa per vederlo giocare: in una partita non era neanche entrato, nell’altra aveva giocato solo una manciata di minuti. Davvero difficile farsi un opinione…”Kiki Vandeweghe, allora GM dei Denver Nuggets

Il momento in cui tutto cambia per Milicic sembra scaturito dalla penna di uno sceneggiatore hollywoodiano.

Il 22 maggio 2003 i Pistons devono giocare Gara 3 delle Eastern Conference Finals contro i New Jersey Nets e si recano presso la palestra del John Jay College di Manhattan per lo shootaround mattutino. Si dà il caso che sia lo stesso giorno della Draft Lottery e che Darko Milicic, sbarcato pochi giorni prima negli USA, sia nella stessa palestra per dei workout pre Draft.

“Portavo sempre i miei assistiti in quella palestra. Tutti i miei ragazzi che si erano dichiarati eleggibili al Draft quel giorno erano via per altri workout, quindi Darko era da solo, con un nostro allenatore, per una normale sessione di allenamento. È stata una pura coincidenza”.Marc Cornstein, agente di Milicic

Joe Dumars, coach Rick Carlisle e altri membri del front office dei Pistons fanno capolino dal campo affianco, dove l’allenamento dei Pistons sta per iniziare, e rimangono estasiati dalla visione del giovane serbo, allora ancora 17enne.

A quanto pare dai racconti dei presenti, Darko è semplicemente perfetto.Impeccabile nei movimenti spalle a canestro, ogni tiro trova il fondo della retina, la sua esuberanza fisica si manifesta attraverso schiacciate poderose e corse lungo il campo come un cervo in una prateria. Per Chad Ford, draft analyst di ESPN, anche lui tra i presenti quel giorno, fu uno dei workout migliori mai visti a quelle latitudini.

In quel preciso momento i Pistons si innamorano di Milicic, e quando quella stessa sera si scopre che Detroit potrà chiamare per seconda al Draft, grazie a una sciagurata trade dei Grizzlies risalente al 1997, il tutto sembra un segno del destino.


Fino a quel pomeriggio al John Jay College, tutti erano certi che la seconda scelta assoluta sarebbe stata usata per arrivare a Carmelo Anthony che, oltre ad aver incantato al liceo, usciva da una stagione da campione NCAA e premio di Most Outstanding Player in quel di Syracuse.Ma il colpo di fulmine per Darko cambia tutto. Una settimana dopo quel magico allenamento a New York, i Pistons lo invitano per un altro workout che, sempre a detta dei testimoni, non fu entusiasmante come il primo ma non fece sorgere alcun dubbio alla dirigenza di Motor City. Che sostanzialmente quello stesso giorno decide di impegnarsi con Milicic per selezionarlo.

“Darko diventerà il padrone del Gioco del futuro, lo rivoluzionerà. Dovremo costruire un’arena più grande per l’entusiasmo che susciterà. L’unica cosa che può piegare un ragazzo del genere è una donna…”
- Will Robinson (Scout dei Pistons dal 1976 al 2003)

Marc Cornstein cancella tutti i workout fissati con altre franchigie, anche perché la soluzione Pistons sembra essere ideale per il suo cliente: una squadra competitiva, con obiettivi di vertice, che non gli metterà troppa fretta, ma che allo stesso tempo ha bisogno disperatamente di un lungo di talento, da affiancare allo specialista difensivo Ben Wallace. Soprattutto alla luce della sonora sconfitta per 4-0 nella Eastern Conference Finals per mano dei Nets, serie durante la quale Kenyon Martin ha banchettato senza pietà sugli interni di Detroit. La brutta eliminazione porta area di cambiamento nel Michigan: Rick Carlisle viene sollevato dall’incarico e al suo posto viene chiamato Larry Brown, un cambio di cultura radicale che ha un impatto immediato sull’ambientamento di Milicic. E non per forza in positivo.

Con un eufemismo, si potrebbe dire che l’ex coach dei Sixers non sia mai stato particolarmente incline alla pazienza nei confronti dei giovani giocatori: se non sono dimostrano di essere pronti a lavorare duro e non danno prova di avere il grado di maturità da lui richiesto, quale che sia il loro status possono accomodarsi in panchina vita natural durante. Darko è un ragazzo sperduto, sbarcato in un universo a lui completamente estraneo, e mostra da subito grandi difficoltà di inserimento.

“Mi chiesero di fargli un po’ da chioccia ma è stato davvero difficile. Gli ho insegnato a guidare in modo assennato, gli ho spiegato che dopo allenamenti e partite ci si doveva fare la doccia insieme in spogliatoio, perché lui era abituato ad andare a casa… ogni giorno anche le piccole cose sembravano degli ostacoli insormontabili”.Chauncey Billups

La classica ingenuità da teenager sfocia rapidamente in rabbia e frustrazione. Gioca poco, gioca male e non come vorrebbe, partendo lontano dal canestro: Brown lo obbliga a operare nel pitturato, cosa che Darko non è ancora equipaggiato a fare. Inizia un periodo di bronci perenni, pugni alle pareti, notti brave che risultano in diverse occasioni in cui Milicic si presenta agli allenamenti senza neanche un’ora di sonno, completamente ubriaco, nella miglior tradizione di quei ragazzini ribelli insofferenti all’autorità.

“Non ho rimpianti per come abbiamo trattato Darko. Rimpiango il fatto che non abbia avuto la pazienza di essere guidato e che non fosse abbastanza maturo per giocare nella NBA”.Coach Larry Brown

Brown non ha tempo da perdere.

I Pistons vincono e con l’arrivo a metà stagione di Rasheed Wallace diventano una seria contender per il titolo, tanto da volare alle Finals con due grandi prove di forza contro i Nets e i Pacers, entrambe sconfitte nonostante il fattore campo sfavorevole. In tutta la campagna Playoffs, Milicic gioca solo 14 minuti; durante le Finals meno di 5. Impossibile trovare le sue impronte digitali sul trionfo dei Pistons in 5 partite, contro i Lakers di Kobe e Shaq.


Resterà a Detroit meno di tre stagioni, con meno di 2 punti e 2 rimbalzi di media in 96 occasioni in cui è sceso in campo. Nonostante l’evidente incapacità di fare la differenza, diverse squadre vogliono scommettere su di lui, basandosi sempre su suggestioni più che prove tangibili. Spedito a Orlando in una trade, rimane unrestricted free agent nell’estate del 2007 e pensa seriamente di lasciare il sogno americano e rientrare in Europa. Incredibilmente, i Memphis Grizzlies gli offrono un triennale da 20 milioni di dollari, convinti che Darko possa essere la power forward titolare di cui hanno disperato bisogno: dopo neanche una stagione, l’illusione è già finita e torna a scaldare la panchina per la maggior parte delle gare. L’ultima occasione gliela concede Boston, ma certo che non avrebbe funzionato neppure lì, o semplicemente stufo di fallire, decide di uscire dal contratto.

“Ho bussato alla porta di Doc Rivers e gli ho detto che me ne sarei andato. Ero smarrito, sono arrivato a un punto in cui odiavo il basket con tutto me stesso. Volevo solo tornare a casa e ricominciare una nuova vita”.
- Darko Milicic

Il giorno dopo è già su un aereo verso Belgrado.

I primi anni dopo l’addio sono momenti di confusione in cui, senza una rotta, prima prova a tornare a giocare in Serbia, poi si dà al kickboxing e nel mentre continua a bere profusamente. Ma col tempo, riesce a trovare un equilibrio e una pace interiore che gli sono sempre mancate durante la vorticosa esperienza oltreoceano.

Una volta tolta l’intensità della competizione agonistica che ne hanno tirato fuori il peggio in molte circostanze, la vita di Milicic ha preso una rotta inaspettatamente felice nel campo dell’agricoltura. Con gli oltre 50 milioni di dollari guadagnati nei suoi anni di NBA ha costruito un piccolo impero ortofrutticolo, con esportazioni – soprattutto di mele e ciliegie – verso diversi paesi dell’Asia, dell’Africa e del Medioriente.

“Senza dubbio hanno sprecato una scelta con me. Non so perché abbiano scelto me, ancora così acerbo, rispetto a due giocatori già fenomenali come Wade o Carmelo. Una volta scelto alla numero 2 però mi aspettavo di giocare di più”.

Forse, paradossalmente, sarebbe stato meglio per lui finire in una squadra poco ambiziosa, godendo di minutaggio illimitato, in un progetto tutto in divenire e non necessariamente ansioso di vincere come Detroit?

“Forse non sarebbe cambiato nulla, forse sono solo scuse. I giocatori giovani devono dimostrare di valere in allenamento e aspettare pazientemente una occasione. Io ho sempre avuto un approccio sbagliato: venendo scelto alla numero 2 ho creduto di essere mandato dal Signore e che quindi potevo permettermi di fare quello che volevo. Vedevo nemici ovunque ma alla fine era io il peggior nemico di me stesso. Di sicuro rifarei le cose in modo molto diverso, ora…”.


A quanto pare, i due momenti migliori di pallacanestro della sua vita sono stati quei due workout nel mese antecedente il Draft, ed è incredibile pensare come abbiano cambiato la sua storia e quella dei Pistons. Al Palace of Auburn Hills rimane ancora il grande rimpianto per non aver affiancato a un roster già competitivo un giocatore del livello di Melo o Wade o Bosh, ma si tratta dei soliti vuoti what if che seguono i fallimenti al Draft. L’unica cosa certa è che adesso Darko è felice.

“Non mi manca affatto il basket, nemmeno lo guardo più. Amo il mio lavoro di agricoltore, mi dà le soddisfazioni che ho cercato per tutta la vita. Quando ripenso ai miei anni da professionista mi sembra quasi di pensare a un morto. Quel Darko non esiste più”.

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