Il Vangelo secondo Rasheed

Alberto Dagnino
Around The Game - 31/10/2018
Partendo dalle sue parole, un viaggio nel pensiero di Rasheed Wallace, un eroe non convenzionale che tanto manca alla NBA dei nostri giorni.
L’approccio a un personaggio complesso e multi sfaccettato come Rasheed Wallace è sempre complicato. Mettiamo caso di doverlo presentare a una platea che sì, conosce il basket, ma che per un motivo o per l’altro non ha mai sentito parlare del guascone di Philadelphia: basterebbe una manciata di highlight casuali a conquistare la maggioranza del pubblico…
Quali che siano le giocate mostrate, si vedrebbe un giocatore “altro” rispetto ai suoi simili, presente ma che allo stesso tempo sembra abitare una dimensione parallela in cui tutto è già avvenuto e a lui solo è dato sapere quale sia l’esito delle azioni.
Si è sempre preso gioco degli avversari, con una sapienza cestistica di pochissimi, un portfolio di movimenti che a consultarlo tutto non basterebbe una vita intera; insieme a quell’aria sorniona pronta a mutare al minimo scossone emotivo. L’emotività.
La causa di e la soluzione a tutte le sue sfide: la causa, perché non si registrano 317 falli tecnici in carriera (41 in una sola stagione…) senza un trasporto emotivo forte; la soluzione, perché i suoi moti interiori, perennemente allo stato brado, gli hanno permesso di dare quell’extra necessario a compiere grandi gesta sportive nei momenti più caldi.
Sheed, ancor prima che un giocatore, è un uomo che nella vita ha sempre fatto e detto tutto quello che pensava, assolutamente noncurante del giudizio altrui: come tutte le persone così libere, diventando suo malgrado un personaggio pubblico, ha attirato amore incondizionato così come un odio viscerale.
Non tutti sono in grado di sostenere la leggerezza della libertà.
Questa eccezionale virtù si è rivelata tanto sui parquet della NBA quanto nelle sale stampa o in occasioni di interviste coi giornalisti di mezzo mondo: la lingua di Wallace è lunga e tagliente, tanto quanto la suddetta lista di skills. Basta accendere i microfoni e lasciarlo fare. Di seguito, partendo da alcune sue frasi celebri, cerchiamo di entrare nel personaggio Rasheed che, nonostante abbia appeso la sua superiorità al chiodo già diversi anni fa, non siamo ancora pronti a lasciar andare.
“È incredibile come questi signori, dai loro uffici nei grattacieli di New York, sentano il bisogno di dirci quali vestiti indossare per andare al lavoro. È pura follia.”
L’insofferenza di Wallace nei confronti delle alte sfere della Lega è nota e ricca di testimonianze. Come quando si schierò apertamente contro la possibilità di passare dal liceo direttamente alla NBA, sottolineando come “questi ragazzi vengano buttati nel sistema ma non sono affatto pronti a quello che li aspetta”. La predominanza di atleti afro-americani contrasta pesantemente con un management, per la stragrande maggioranza, ancora bianco: le incomprensioni a livello razziale sono sovente argomento di conversazione, seppur in maniera discreta piuttosto che plateale.
L’introduzione del dress code, avvenuta nell’ottobre del 2005, voluta fortemente dall’ex commissioner David Stern, è uno dei tanti casi percepito da Wallace come un affronto dei “pezzi grossi” della Olympic Tower. Con esso, la NBA ha obbligato i giocatori a indossare giacca e cravatta prima e dopo le partite, durante le interviste o in caso di presenza a eventi di beneficienza.
Nonostante alcune grandi star siano evidentemente andati contro la regola (vero LeBron, vero Russ?), in teoria, ancora oggi, multe da migliaia di dollari potrebbero essere elargite per la non ottemperanza della norma.
Verso la fine degli anni ’90, molti giocatori vestivano con quello che la Casalinga di Voghera definirebbe uno “stile hip hop”, associato in modo molto superficiale al crimine e al sottobosco della delinquenza di strada.
Sheed esprime i suoi dubbi: un’imposizione pregiudiziale imposta dall’alto, a un impiegato come lui che si reca al lavoro e fa il suo mestiere ogni sera, è intollerabile.”L’abito non fa il monaco”, recita un detto abusato: non può essere una cravatta a cambiare la mentalità e il comportamento di una persona. Ma l’apparenza, spesso, la fa da padrone. Ben oltre il buon senso.
“È lavoro, non si possono mettere i sentimenti prima del lavoro. Sono un professionista e dovessero cedermi non farei certo storie: lo si accetta e si continua a fare il proprio mestiere. Darò sempre il 100% per chiunque firmi il mio assegno mensile, è una cosa tanto assurda?!”
Più volte, durante una carriera di interviste, Wallace è ricorso all’acronimo CTC (“Cut the check”) per esprimere un concetto molto semplice.
Esiste l’attaccamento alla maglia, a una particolare città o franchigia, ma la storia della NBA ci ha insegnato – e continua a farlo – che spesso i giocatori si ritrovano ad essere pura merce di scambio; pagata fior di milioni, s’intenda, ma senza una reale possibilità di controllare il proprio destino, salvo casi eccezionali. Sheed sostiene che questa dinamica sia chiara a tutti, una volta firmato il primo contratto da professionista: quindi, piagnucolare ogni volta che uno scambio viene deciso, non ha alcun senso. Il giocatore di basket sarà anche idolatrato, strapagato e sotto la costante attenzione dei media, ma è pur sempre un dipendente, che fornisce una prestazione a un datore di lavoro in cambio di denaro, utile al sostentamento suo e della sua famiglia.
Wallace non perde mai di vista questo principio. Ancora una volta, ciò che fa scalpore, non è l’assunto in sé ma il fatto che lo esprima a voce alta, mentre la maggior parte dei colleghi preferiscono il silenzio, per non dare adito a polemiche di sorta.
Si dirà “Ah, mercenario!”. No: significa, avere una lucida comprensione della propria attività professionale.
Questo non toglie che un giocatore di basket, come un qualunque professionista, possa nutrire ambizioni e obiettivi importanti e fare di tutto per raggiungerli, al di là del mero stipendio.
“Non sono un grande fan dell’individualità. Mia moglie e i miei figli vorrebbero vedermi segnare 50 punti ogni sera, ma io preferirei un anello: dovessi finire la carriera senza un titolo, sarebbe un enorme fallimento per me.”
Fin dai tempi del liceo Simon Gratz in quel di Philadelphia, è difficile far fare da primo violino a Rasheed. Non è una questione di talento, né tantomeno di competitività o agonismo: è semplicemente nato per essere un giocatore di squadra.
Ne è riprova il fatto che in sedici stagioni da professionista non abbia mai superato i 19 di media che, onestamente, avrebbe potuto mettere nel sonno, bendato, con una mano sola (destra o sinistra fa lo stesso…) ogni sera.
Questa sua forma mentis è innata, ma viene sicuramente affinata durante i due anni passati a North Carolina, in cui Sheed diventa il pupillo di coach Dean Smith.
Tra i due nasce un bellissimo rapporto: Wallace non ha alcun timore reverenziale nei confronti del decano di UNC, che a sua volta si fida moltissimo del suo ragazzone, al quale ha capito di aver ben poco da insegnare – perlomeno tecnicamente.
Durante un allenamento a Chapel Hill, Wallace manda a bersaglio un folle tiro dalla linea di fondo, praticamente fuori dal campo. Smith ferma il gioco e gli si avvicina.
– “Ti sembrava un buon tiro da prendere?”
“Certo, coach!” (Che domande…)
– “Bene, allora vediamo se ne metti dieci in fila!”
Il coach lo sfida, ma all’ottavo bersaglio consecutivo è costretto a fermarlo, sconfitto, e a riprendere con gli esercizi.
Dopo i tanti anni tribolati di Portland, Wallace vincerà quell’anello tanto agognato fin dalla sua scelta al Draft nel 1995. Arrivato a Detroit nel febbraio 2004, si inserisce in modo discreto e rispettoso nei meccanismi di gioco di Larry Brown, non come una star bizzosa ma come un uomo squadra, pronto a sacrificare le proprie cifre per il bene comune. Quei Pistons hanno già una guida forte, quella di Billups e Hamilton, supervisionati dal ministro della difesa Ben Wallace: Sheed si “limita” a essere la terza opzione offensiva, con Big Ben pronto a coprire le sue defiance difensive.
I momenti in cui prende il sopravvento, però, non mancano. NBA Finals, Gara 5 contro i Lakers, infuocata e tesa come giusto che sia. A cinque minuti dalla fine del terzo quarto, col punteggio in parità, Sheed rimane invischiato in una scaramuccia con il giallo-viola Medvedenko. Qualcosa dentro di lui scatta e il successivo quarto e spiccioli che rimangono da giocare sono un clinic di pallacanestro da far venire i brividi.
Chiuderà la partita con 26 punti e 13 rimbalzi, portando i Pistons sul match point, sfruttato due giorni dopo al Palace of Auburn Hills, contro quei Lakers dominanti, tre volte campioni negli ultimi quattro anni, che facevano paura a tutti. Tutti tranne, ça va sans dire, Wallace.
“Ball don’t lie”
Queste poche parole stanno alla storia del basket NBA come quelle di Neil Armstrong, appena sbarcato sulla luna, stanno a quella con la S maiuscola. Di per sé, niente di nuovo: sarebbero l’equivalente, alle nostre latitudini, del detto “San Giovanni non vuole inganni”. Ma in esse è racchiusa la vera essenza di questo profeta del Gioco, la dicono lunga riguardo allo spirito con cui ha affrontato ogni singola gara della sua vita, con un amore e un rispetto incrollabili per la pallacanestro.
Quando questi amore e rispetto venivano, agli occhi di Sheed, intaccati da un agente esterno negativo, una scorrettezza, una simulazione o, in questo caso specifico, una pessima chiamata arbitrale, era il momento di reagire con veemenza. Per mostrare a tutti il torto subìto. Anche in modo teatrale, perché in fondo i giocatori sono lì per intrattenere una platea.
La celebre formula, traducibile pedissequamente con “la palla non mente”, esce spontaneamente dalla sua bocca quando una chiamata arbitrale dubbia manda in lunetta un suo avversario diretto.
Nel momento in cui il suddetto avversario dovesse sbagliare il tiro libero, ecco Rasheed pronto a ricordare a tutti i presenti che il basket ha un suo codice, un disegno divino in grado di ristabilire l’ordine in caso d’ingiustizia.
La manifestazione più spassosa del mantra è avvenuta durante l’ultima stagione della carriera. Partita casalinga dei suoi Knicks contro i Suns: Scola parte in uno contro uno in post basso, subisce un fallo da Wallace che, per impedirgli la conclusione e il potenziale gioco da tre punti, prosegue il contatto. L’arbitro lo giudica un fallo a gioco fermo, amministrando un tecnico nei suoi confronti. Sheed è nervoso e quando il libero tirato da Dragic gira sul ferro ed esce, in un Madison stranamente silenzioso, un deflagrante “BALL DON’T LIE” risuona come un grido liberatorio. L’arbitro non la prende bene: altro tecnico ed espulsione. La partita di Wallace è finita con un minuto da giocare nel primo quarto. Questa idea di giustizia divina si è rivelata anche in altri comandamenti di Wallace, spesso riguardanti un’etichetta non scritta che i custodi del basket old school rivendicano con orgoglio.
Sul trash talking, ad esempio, Sheed ha una posizione romantica, da vero gentiluomo, su ciò che è lecito, o meno, dire.
“Nel trash talking non parlo della mamma, della moglie o dei figli di nessuno. Parlo solo del mio avversario in quella particolare partita: esiste una linea da non superare”
Altro argomento caldo è il flopping, la tanto discussa simulazione ancora oggi al centro delle polemiche.
Nel 2009, in forza ai Celtics, Rasheed venne multato per 30mila dollari dalla Lega per alcune affermazioni rivolte direttamente a Turkoglu dopo una partita contro i Toronto Raptors, in cui i due avevano avuto alcune schermaglie.
“La gente deve capire che è un maledetto simulatore, è l’unica cosa che Turkodudu sa fare. Sembrava che gli avessi sparato, questo non è basket, non è saper difendere: è una schifezza! Sono contento che la mia carriera stia giungendo al termine, non mi piace questa deriva…”
Una nostalgia dei bei vecchi tempi che ultimamente è tornata in auge quando, interrogato sulla possibilità o meno dei suoi Pistons di competere nel basket moderno, Wallace senza mezzi termini ha detto che avrebbero potuto passeggiare su tutti gli avversari senza troppi problemi.
“Noi difendevamo sul serio”
Che sia un guascone lo si è già detto e lo conferma ogni volta che apre bocca.
A questa affermazione, un coro di risate dei suoi ex compagni dev’essersi levato all’unisono, visto che Sheed ha optato per quella che si potrebbe definire, eufemisticamente, una “difesa selettiva” per la maggior parte della sua carriera.
Come quando, durante le Finals del 2005 contro gli Spurs, all’overtime di gara-5 con la serie in parità e i Pistons sopra di due punti, ha dimenticato sulla sua mattonella preferita Robert Horry, al quale non è parso vero di poter decidere una stagione con un tiro così comodo.
Gli episodi per ricordare Sheed sarebbero infiniti.
Dai balli pre partita, a “Both teams played hard”, passando per quella volta in cui prima di un possesso decisivo si è messo a cantare a squarciagola la canzone suonata dagli altoparlanti del Garden, oppure quando ha trasformato un’innocua canzoncina di natale in un’esilarante performance di beatbox. Il vuoto lasciato dal suo addio al basket è irrecuperabile, perché è sempre più raro, specie ai giorni nostri, trovare una tale combinazione di talento, sregolatezza, amore per il gioco e spontaneità.
Un episodio del tutto superfluo, a fronte di una carriera leggendaria, racchiude alla perfezione quello che Sheed incarna e quello che ha rappresentato per gli amanti della palla a spicchi.
Nell’ottobre 2012, dopo due anni di ritiro, viene ingaggiato a sorpresa dai New York Knicks.
La sua firma, seppur come ultimo dei gregari, viene accolta dai romantici tifosi della Grande Mela con grande gioia: impossibile che una città non convenzionale come NYC non ami uno spirito libero come Wallace.
In quest’ultima, malinconica, stagione sotto la guida di Mike Woodson, giocherà scampoli di partita, perlopiù legati a garbage time o partite poco rilevanti.
La prima gara dell’anno è un incontro casalingo contro i Miami Heat dei Big Three: contro tutti i pronostici, i padroni di casa volano via nel primo quarto, trascinati da un Melo da 30 punti, e per il resto della gara si limitano ad amministrare il vantaggio. Verso la fine dell’ultimo periodo, i tifosi del Madison cominciano a cantare il suo nome: vogliono vedere Rasheed in campo, a tutti i costi.
“You wanna play Rasheed?”. Non sentiamo la sua risposta, ma dopo pochi istanti Mike Woodson, con quella sua aria da protagonista di un film della blaxploitation, gli si rivolge di nuovo: “Let’s go!”
Qualche star navigata, con la puzza sotto il naso, non avrebbe mai accettato di entrare a punteggio deciso, giusto per il volere popolare: Sheed è diverso. The Mecca si leva in un’ovazione straordinaria, mentre Wallace si avvicina al cubo dei cambi, negli occhi la volontà di stupire ancora una volta, anche se per pochi minuti.
Se questo non è amore, ditemi voi cosa sia.
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