Johnny “Red” Kerr, la grande freddura


di CHRISTIAN GIORDANO

In America li chiamano one-liners, barzellettieri. E nella categoria, Johnny Graham “Red” Kerr, forse il più citabile fra giocatori ed ex NBA, è stato uno degli interpreti più continui e convincenti.

Ritenerlo però soltanto un comedian mancato sarebbe fare un torto alla sua carriera di iron man. Per oltre undici stagioni non saltò neanche una gara: 844 consecutive, seconda striscia di sempre (ma allora un record), e avrebbe potuto essere più lunga se Paul Seymour,  il 4 novembre 1965, non l'avesse interrotta preferendogli, nel frontcourt dei Baltimore Bullets, Jim Barnes e Bob Ferry nella sconfitta di 11 contro i Boston Celtics.

L'esclusione aveva sorpreso e deluso la squadra, ma coach Seymour si era poi difeso adducendo la presunta distorsione a una caviglia di Kerr, che invece l'ha sempre negata. A precisa domanda su che cosa lo avesse motivato negli undici anni senza saltare una partita, Johnny rispose à la Kerr: «Temevo che mia moglie mi avrebbe fatto lavare i piatti».

A striscia già inoltrata, chiacchierando nel prepartita con Leonard Koppett, cronista sportivo del New York Times, Kerr chiuse la conversazione dicendo: «Devi scusarmi ma devo andare a raccontare una balla alle mie gambe: ricordate, l'altra sera, quando vi ho detto che quella sarebbe stata la mia ultima partita? Be’, ho mentito. Sarà quella di stasera la mia ultima partita».

A forza di balle come quella Kerr giocò nella lega per dodici anni, undici dei quali con i Syracuse Nationals, che nel 1963 si trasferirono a Philadelphia e cambiarono nome in 76ers. La sua partenza, due anni dopo, seguì l’arrivo (dai San Francisco Warriors) di Wilt Chamberlain, che lo aveva costretto al ruolo di rincalzo. Johnny chiese di essere ceduto e lo spiegò à la Kerr: «Quando giochi dietro a Wilt, il futuro ce l'hai alle spalle».

Mai stato un gran realizzatore, viaggiò in carriera a 13.8 punti e 11 rimbalzi di media. Il suo altruistico stile di gioco consisteva nel piazzare i migliori blocchi mai visti nella NBA, ma il suo forte erano le qualità di passatore. Qualità, queste, sulle quali spesso ironizzava, al punto da intitolare  l'autobiografia Twelve Years in the Pivot Without Ball, dodici anni in area senza palla.

Al di là delle cifre, però, ebbe una carriera carriera ragguardevole, specie se si pensa che al liceo giocò a basket solo verso la fine del suo anno da senior. Johnny era forte a calcio, sport nel quale il padre - morto quando Johnny aveva tre anni - aveva furoreggiato in Scozia prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Cresciuto dall'1,82 dell'anno da matricola fino a 2,04, era stato notato da coach Bill Postl che con lui in squadra vinse subito il titolo della public league.

D'incanto piovvero borse di studio, e Kerr guidò subito i Fightin Illini della University of Illinois a due Final Four consecutive: 1951 e 1952. Entrambe perse di due in semifinale: la prima 74-76 contro la Kentucky futura campione su Kansas State, la seconda 59-61 da St John's poi battuta da Kansas.

Syracuse lo scelse con la sesta chiamata al primo giro del draft NBA 1954, e da rookie contribuì al titolo vinto dai Nats in Gara 7 contro i Fort Wayne Pistons.

In dodici anni nei pro' centrò sempre i playoff, e appena smesso di giocare fu chiamato ad allenare - lui, chicagoano, doc - la franchigia di espansione nata in città, i Bulls. Coach of the Year già da matricola nel 1966, portò una squadra appena formata al 33-48 in stagione e ai playoff. Big Red era ancora più forte di gran parte dei suoi giocatori, ma aveva capito di essere diventato troppo lento quando «entrando a canestro [gli arbitri] mi fischiavano infrazione di tre secondi in attacco». Quella dei tre secondi difensivi invece sarebbe arrivata in NBA nel 2001-02, per contrastare la marcatura a zona ammessa nella stessa annata. E che Kerr fosse una sagoma ormai dovreste averlo capito.

Smesso di allenare nel 1970 dopo il biennio ai Phoenix Suns, tornò a Chicago come aedo al microfono dell'epopea dei Bulls di Michael Jordan. Anni in cui MJ aveva come rituale prepartita quello di sollevargli in faccia una nuvola di talco battendo le mani prima della palla a due. «Non so come tutto cominciò - ha raccontato Jordan - Forse aveva un bel completo e volevo rovinarglielo un po'». Memorabili, e americanissimi, i siparietti in cui Kerr e vicino di postazione aprivano gli ombrelli o indossavano mascherine da chirurgo o antigas. Tutto questo vent'anni prima del celebre Chalk Toss di LeBron James, gesto iconizzato dal loro comune sponsor con lo slogan del «Siamo tutti testimoni».

Kerr non rinunciò mai alle folgoranti battute che ne hanno caratterizzato l'esistenza, chiusa in carrozzina per cancro alla prostrata il 26 febbraio 2009, poche ore dopo un'altra leggenda dei Bulls, Norm Van Lier. Una volta, alla richiesta di come avrebbe marcato lui Kareem Abdul-Jabbar, rispose: «Gli sarei rimasto appiccicato e soffiando gli avrei appannato i goggles». La grande freddura, e neanche la più grande.

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