IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Scalatori esotici: Andy Hampsten


Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine - kindle, amazon.it – € 9,90

Campione e pioniere, Andy Hampsten nacque (a Columbus) in Ohio e rappresentò – poco dietro Greg LeMond – la frontiera americana. 

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Al battesimo del fuoco con i pro’ del vecchio continente – 1985 – si mise subito in evidenza. Firmò un contratto a tempo con la 7-Eleven, la compagine nordamericana che colmò le distanze, soprattutto culturali, con l’altra parte dell’Atlantico. 

Hampsten, dei ragazzi del diesse Mike Neel, era il più futuribile. C’erano Ron Kiefel, che sorprese tutti, all’esordio in Italia, vincendo il Trofeo Laigueglia, Davis Phinney (marito di Connie Carpenter e babbo di Taylor), l’hombre messicano Raúl Alcalá, la leggenda olimpica (del pattinaggio di velocità) Eric Heiden e Jonathan Boyer, il precursore. 

Un po’ di folklore, tattiche inedite per i nostri standard (abituati ai capitani dittatori) e tanto talento. Furono la sorpresa del Giro d’Italia 1985, altresì ricordato come una delle edizioni più monotone. 

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Cinquantotto chilometri verso il Gran Paradiso in Val d’Aosta: Andy partì secco dal plotoncino e nessuno osò replicare. Al traguardo, il primo successo tra i grandi e l’interessamento degli squadroni europei. Prevalse la francese La Vie Claire per un paio di ottime ragioni: molte svanziche e un gruppetto di nordamericani (LeMond, Steve Bauer, Clarence “Roy” Knickman eccetera) ad accoglierlo. 

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L’anno dopo, nonostante i soldi, preferì tornare alla 7-Eleven nel ruolo di capitano. 

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Hampsten divenne Hampsten al Giro 1988, sconvolto dalla bufera di neve sul Passo Gavia. Dall’inferno bianco emersero, per il successo parziale e lo scalpo rosa, Erik Breukink e l’americano, che fu sorpassato, in bambola, in discesa, dall’olandese: Hampsten, tremando come una foglia, indossò le insegne del primato. 

Un Giro bellissimo, zeppo di colpi di scena. Andy dominò all’insù: in linea, a Selvino, e a cronometro, in quel di Vetriolo Terme. Jeff Bernard, il grande favorito della vigilia, era affondato nella bufera in Valtellina. Per ribaltare la classifica, Jean-François siglò un patto con Urs Zimmermann: un Trofeo Baracchi nella Borgo Valsugana-Arta Terme era l’ideale. Il capitano della Toshiba non ci arrivò, cadde in una galleria due dì prima, Zimmy si involò, con Stefano Giuliani a mo’ di zavorra a ruota, ed ebbe sulle spalle – per un’ora – la rosa virtuale. Poi, nel fondovalle, la 7-Eleven trovò la Del Tongo di Flavio Giupponi e la Panasonic di Breukink, e Hampsten completò l’impresa. 

Fece terzo l’anno seguente, nel 1989, quando Laurent Fignon si riprese il maltolto di un lustro prima. Andy rimase lassù, con i migliori, pure all’esplosione – deflagrante – del Robosport. 

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Trent’anni dopo il suo Giro, Andrew si divide tra il Colorado, il luogo in cui si è sviluppato il movimento a stelle e strisce, e la Toscana, sua terra adottiva. A Boulder, insieme al fratello Steve, disegna e vende bici customizzate. In Italia organizza con Elaine, la moglie, pedalate in giro per il Bel paese. 

Il viso da bambino, invecchiato ma non troppo, è sempre lo stesso. Se gli chiedete dei suoi trionfi, il lupo del Gavia sorride e vi risponde evitando l’enfasi: «I’m just some guy who raced his bike through the snow...».

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