FOOTBALL PORTRAITS - Bellucci, l'istinto del gol



di Christian Giordano ©
la Repubblica ©

«L’istinto è quello, e io non l’ho mai perso». L’istinto è quello del gol, se non si fosse capito. Claudio Bellucci non è uno da polemiche. Non ti dà mai il titolo. Troppo esperto, smaliziato e scafato per cascarci. Ma il calcio lo conosce. In campo e fuori. E quando si susseguono a mezzo stampa, via etere nel dopopartita o, come ieri, nel consueto incontro con i giornalisti a Casteldebole, arrivano due-segnali-due, meglio drizzare le antenne. 

«Io mi sono sempre sentito, e sono sempre stato, un attaccante. E dovete darmene atto: lo dicevo anche quando Guidolin mi faceva giocare sulla fascia». Come recitava quel proverbio sul buon intenditor?

Al bomberino, e si sapeva, piace giocare davanti. Ovvio, prima di tutto viene la squadra, specie «in momenti difficili come questo, si deve rinunciare a un “numero” e mettersi al servizio dei compagni, meglio un colpo di tacco in meno e una corsa in più». Il “problema” (se di problema si può parlare) però sta lì, nel fatto che chi il gol ce l’ha nel sangue dovrebbe preoccuparsi soprattutto di quello. Se poi si gioca come esterno di sinistra, a 30-40 metri dalla porta, come nel primo tempo contro la Ternana, da dura si fa durissima. 

«Quella è stata una situazione tattica» spiega Bellucci nel tentativo di difendere pubblicamente la scelta operata da Mandorlini e subito rinnegata dallo stesso tecnico nella ripresa di quella gara per certi versi emblematica. Fatte salve le assenze che costrinsero il mister ravennate all’azzardata scelta del modulo, più che degli uomini, contatissimi, fu chiaro a tutti che allontanare dalla porta Bellucci è un suicidio tattico. Il 4-4-2 disegnato sulla lavagna si è rivelato in campo un 4-2-4 troppo pretenzioso e leggerino, più simile al masochistico 4-2-2-2 del Ct colombiano Maturana che al 4-2-4 voluto a Svezia 58 dal Ct brasiliano Feola per sfruttare una prima linea atomica fatta da Garrincha-Vavá-Pelé e Zagallo ala tattica. Con tutto il dovuto rispetto e fatte le debite proporzioni, Loviso e Colucci non sono Zito e Didi e se è vero che i gol agli umbri glieli ha regalati il Bologna, il pacco dono più grosso (e il più evitabile) era quel Bellucci relegato là dove in azzurro il Ct Sacchi schierò Signori a USA 94. 

Senza i 10 gol in 17 gare (senza rigori) del suo bomber mignon, il Bologna, che già naviga in pessime acque, sarebbe già con un piede e mezzo in Serie C. Del resto i numeri raccolti in carriera, specialmente fra i cadetti, dal puntero romano dicono tutto. Nei suoi tre campionati in B, 20 gol in 33 partite col Venezia nel 1996-97; 6 in 26 gare e in 20 col Napoli nel biennio 1998-2000. Quest’anno la squadra allenata da Ulivieri prima e da Mandorlini poi ha un punto fermo: lui, che ha realizzato il 55.6% dei 18 gol segnati dai suoi (contro i 21 subiti). Cifre che la dicono lunga. Soprattutto che forse è il caso di credere a Claudio quando afferma di non averlo mai perso, quell’istinto per la porta avversaria. Perché è là che calcisticamente è «nato e cresciuto, da attaccante esterna, vicino a una punta alta e grossa».

Lo ha ribadito anche dopo il gol, arrivato in pieno recupero, col quale sabato a Bergamo ha salvato la baracca rossoblù. E che consente al derelitto Bologna, 17° a pari merito con quel Vicenza surclassato nello scontro diretto, di sperare ancora nella rimonta. «Io ci credo. Ne ho viste completare anche di più brutte. Se non ci credessi non sarei qui e farei il silenzio stampa». Qui invece c’è rimasto, perché «sono scelte. Se io fossi andato alla Roma e Amoroso alla Fiorentina, e le squadre avessero ripetuto i campionati dell’anno scorso, magari avremmo fatto due mesi di tribuna».

Difficile, per uno che l’istinto del gol non l'ha perso mai.

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