FOOTBALL PORTRAITS - Scantamburlo: Del Piero l'ho scoperto io



di CHRISTIAN GIORDANO
Guerin Sportivo n. 33/34, 12-25 agosto 2008

L’Avvocato Agnelli lo ribattezzò Pinturicchio per distinguerlo da “Raffaello” Baggio. Nel 1998, il crac al crociato gli valse il riferimento all’eternamente atteso personaggio beckettiano. Alex però è tornato. E più forte che mai: in due stagioni, top scorer in B poi in A. Come Paolo Rossi

Chi trova un amico trova un tesoro. Se vale o no anche il viceversa dev’esserselo chiesto spesso, lo scout Vittorio Scantamburlo, da quando, il 10 novembre 1987, setacciò la pepita grezza e purissima di nome Alessandro Del Piero. 

Alex, come già lo chiamano in famiglia, è un filo d’ossa, con occhi grandi da cerbiatto, che l’allora osservatore del Padova notò nel vivaio del Conegliano. E a precisa richiesta, ancora oggi Scantamburlo si commuove (pure in tv), nel tirar fuori il quadernino dove ne appuntò le straordinarie doti. Prima di inforcare la Conegliano-Oderzo e precipitarsi a Borgo Saccon, frazione a sud della vicina San Vendemiano dove quell’inafferrabile numero 7 viveva assieme a papà Gino, elettricista dell’ENEL, mamma Bruna, casalinga e al fratellone Stefano, calciatore dilettante di nove anni più grande. Beatrice, di origini romene e adottata a cinque anni, sarebbe arrivata dopo. 

Dopo aver scoperto un certo Girardi (centrocampista classe 1963 tranistato nelle giovanili di Padova e Vicenza prima di prendere i voti) e Filippo Maniero (attaccante del 1972, a 9 anni), il cacciatore di talenti si fa un nome portando al Padova – oltre a Del Piero – Gabriele Gava, che in Serie A ci arriverà da arbitro, e il difensore Luigi Sartor, eterna promessa poi ceduta a peso d’oro, e in età da latte, alla Juventus. 

Non a caso il club della vita del futuro Pinturicchio, nome d’arte di Bernardino di Betto, allievo del Perugino. In bianconero, Alex lo sarà di Roby Baggio, alias Raffaello per Gianni Agnelli, proseguendo la tradizione di grandi numeri dieci che va da Boniperti a Platini. Nomi buttali lì non per caso. Del primo raccoglierà ogni record e, si dice, il futuro da presidente. Del secondo, il suo idolo, ha appeso il poster sopra il letto, in cameretta, seconda stanza a destra. Un giorno lo rimuoverà, e non senza veleno. 

Alessandro nasce a Conegliano (Treviso) il 9 novembre 1974. Il padre, juventino da sempre, è un appassionato del calcio, praticato a livello amatoriale e trasmesso al primogenito Stefano, arrivato sino alla Sampdoria primavera, con Lippi allenatore. «Giocavo con Gambaro e Melchiori, nella Berretti c’erano Ganz e Zanutta – ricorda – Dopo due anni, tutto finito e senza un perché. Lì capii molte cose, le stesse che poi spiegai ad Ale quando prese il volo. Anche per questo, oggi, è un ragazzo così umile, posato, mai sopra le righe». «L’esperienza di mio fratello – conferma il predestinato – è un richiamo alla realtà, ai rischi delle illusioni, all’importanza dei valori della vita». 

È proprio Stefano il primo (pardon, il secondo) a scoprire il talento del fratellino, quando, vedendolo giocare vicino casa, dice alla madre: «Alex finirà sui giornali, è un fenomeno». 

Il primo campetto è quello che papà Gino costruisce sotto casa, per le partite serali. Tra l’orto e la strada c’è una striscia di terreno, e per uno del mestiere è un gioco da ragazzi attaccarci quattro pali e altrettante lampadine (dietro le porte e a metà lato lungo del campo), portare la corrente dal garage, dove l’auto resta a fari accesi. 

«Mi pare ancora di vederlo, mio padre, mentre si arrampica – ricorda Alex – Noi zitti in attesa del miracolo, e le luci che si accendono. Un momento fantastico». Ripetuto a comando, in sfida agli amici, calciando morbido il pallone a centrare l’interruttore: «Guardate come vi accendo la luce». Detto, fatto. 

Alex gioca sino allo sfinimento con gli inseparabili Nelso, Pierpaolo e Giovanni Paolo. Tra i gli amici d’infanzia ci sono anche Mazzer e Basei. 

Il primo allenatore, a otto anni, è Umberto Prestia, al San Vendemiano. «Gli diedi il pallone – racconta – e si mise a palleggiare. Non la smetteva più. Era il più bravo, e per misurarsi cercava i più grandi. Le sue fortune sono state l’esperienza del fratello e i sani princìpi dei genitori. È così che è cresciuto, un ragazzo perbene e un gran giocatore». 

Se ne accorge, sei anni dopo, Adriano Buffoni, tecnico che nel 1987-88 sta portando il Padova dalla C1 alla B e che vive lì a due passi. A Buffoni la dritta arriva da quel Pierpaolo Mazzer che da bambino giocava sempre con Alex. E il mister la gira al proprio DS, Giambattista Pastorello: «Guarda che in una squadretta qua vicino c’è un ragazzino che pare sia un gran talento». E il Padova manda Scantamburlo. L’uomo delle pepite. 

Alessandro non ha ancora 14 anni e i genitori preferirebbero terminasse le medie prima di pensare sul serio al calcio. Ma il 18 agosto 1988 Romolo Camuffo, responsabile del settore giovanile del Padova, va a prenderlo a casa per tesserarlo nei Giovanissimi di Bozzao e Cavasin e subito scudetto. Negli Allievi, lo allena Maurizio Viscidi. «Un giorno, lo prendo da parte – ricorda – e gli chiedo come fa a smarcarsi sempre e a ricevere comunque la palla. Lui mi spiega un paio di cose che avrei letto un anno dopo, sui libri di tattica. In pratica, mi ha insegnato lui l’autocreazione degli spazi». 

Il 15 marzo 1992 Bruno Mazzia lo fa esordire in prima squadra: a Messina, in B. Per Alex altre 4 gare e zero gol. Il primo lo firma il 22 novembre, con Mauro Sandreani allenatore: in Padova-Ternana, di destro. Sarà l’unico (in 10 presenze) della stagione. Eppure l’allora DS Piero Aggradi parla di «nuovo van Basten». E come tale lo propone (come diritto di prelazione) a Juventus e Milan nel pacchetto-Sartor. L’altro nel taccuino di Scantamburlo. 

Come i compagni che vengono da fuori, Alex abita nella foresteria vicino lo stadio e viene seguìto negli studi. Del Piero li completa col diploma di ragioniere, il più bel gol per ripagare i tanti sacrifici di mamma e papà. 

Finalmente, testa ed energie sono tutte per il calcio. Il ragazzo che davanti alla tv sognava di vendicare Platini (sdraiato per protesta), cui era stato ingiustamente annullato il gol della vita contro l’Argentinos Juniors nella finale Intercontinentale 1985, vorrebbe la Juventus, che ha fatto un’offerta. Il Milan la giudica troppo alta e si defila. E a fine 1992-93, quando si rifà sotto, è tardi: Giampiero Boniperti telefona ad Aggradi e per 4 miliardi di lire, più la cessione del portiere Adriano Bonaiuti, veste di bianconero il gioiello. «Il Milan ha preso van Basten? E noi Del Piero» dirà il presidentissimo, che placa così Aggradi: «Se diventerà qualcuno come dici, ti regalerò la nostra miglior FIAT». 

Aggregato alla Primavera, vince scudetto e “Viareggio” (già giocato nel Padova, 6 partite e 2 reti), e fa capolino nella prima squadra di Giovanni Trapattoni. Non prima della ramanzina-bis (dopo quella di Boniperti) sul taglio dei capelli. 

Nelle nazionali giovanili non salta una tappa dalla Under 15, con l’unico neo del rigore sbagliato con la U17 all’esordio mondiale di Montecatini: Italia-Usa, 16 agosto 1991. Nel match successivo si rifà segnando alla Cina, ma la maglia numero 7 – lo stesso che aveva da ragazzo e che poi indosserà in azzurro nei tornei dei grandi – finirà incorniciata nella sua stanza. A imperituro ricordo. 

Il debutto in A il 12 settembre a Foggia (1-1), il primo gol la settimana dopo: di sinistro contro la Reggiana. Dopo la tripletta al Parma, il 20 marzo, il Guerino si sbilancia: «È nata una stella». Prima copertina. 

Cinque gol in undici spezzoni potrebbero significare il prestito proprio ai gialloblù, invece al via della nuova stagione Roberto Baggio si fa male e per lui si aprono nuove strade. Compresa quella del marketing societario, a lungo sua croce e delizia. I nuovi dirigenti intuiscono d’avere in casa l’erede del Codino e, perorando la causa con qualche ultrà-energumeno in spogliatoio, convincono Roby ad accettare il Milan. 

Come d’incanto Del Piero esplode. La rete – in spaccata d’esterno destro su cross da sinistra – del 3-2 sulla Fiorentina, il 4 dicembre 1994, è da cineteca. Idem i successivi gol alla Del Piero (con buona pace di Robbie Fowler, che pure ne aveva fatti): conversione da sinistra e palla a giro d’interno destro spedita sotto l’incrocio lontano. Il resto si ammira in bacheca. E si conta in banca. 

Champions, scudetti e coppette col mentore Lippi e Pubblicità in proporzione. Discutibili, ma efficaci, strategie commerciali gli fanno fare figure barbine ma ne fanno un simbolo: dei tempi e del club, che gli dedica la mascotte. Lui ci mette multimedalità e amicizie VIP (Nash, Byant, gli Oasis, Kylie Minogue, Fiorello). 

I maligni sussurrano che senza uccellino (lo sponsor), in nazionale, dopo i flop euromondiali (nel 1998 pagò i postumi dell’infortunio patito in finale Champions col Real Madrid; nel 2000 si mangiò i due gol del titolo contro la Francia), non sarebbe tornato. Lui ha dimostrato di meritarsela quanto più rischiava di perderla. Vedi l’ultima stagione (21 gol), la prima da top scorer in A (dopo esserlo stato in B, con 20), unico con Paolo Rossi), quando disse al Ct Donadoni: o punta, o niente. Sacchi, Maldini Sr, Zoff, Trapattoni, ci sono cascati tutti: a cotanto talento non si rinuncia. Costi quel che costi. 

Un prezzo alto lo paga anche Alex. Al destino. L’8 novembre 1998, al 92’ di Udinese-Juventus, gli saltano crociati anteriori e posteriori del ginocchio sinistro: 9 mesi fuori. È l’episodio-spartiacque della carriera, e forse della vita insieme con il matrimonio con Sonia Amoruso, conosciuta quell’anno, e la nascita del loro Tobias. 

Al rientro, non pare più lui. È titolare senza un perché tecnico. Segna e offre assist, ma il cambio di passo sembra ritardato di un paio di frame. Per Agnelli diventa il beckettiano Godot: lo aspetti e non arriva mai. 

Al settimanale L’Espresso, Zeman parla di «calcio che deve uscire dalle farmacie» e di giocatori come Vialli e Del Piero che non sembrano più loro, tanto paiono gonfiati. Il PM Guariniello indaga ma, oltre ai 200 tipi di medicinali dei bianconeri, trova (assieme alla frode sportiva) solo la prescrizione. 

Godot comincia a palesarsi in Bari-Juventus del 18 febbraio 2001: segna in serpentina ed esulta con un pianto liberatorio. La dedica è al padre, deceduto pochi giorni prima. Lì comincia il terzo Del Piero, record all-time di presenze (560) e gol (241) in bianconero. Dal 2004, Capello, con mille sostituzioni, lo manda fuori di testa, ma dice una verità colpevolmente trascurata: «Un giorno mi ringrazierà». Calciopoli sprofonda la Juve in B. Il capitano la riporta in A, dove a 34 anni vive la sua miglior stagione. «È come il vino: invecchiando migliora», le coccole di Claudio Ranieri durante la Emirates Cup. C’è da credergli: glielo ha detto l’uccellino.
Guerin Sportivo n. 33/34, 12-25 agosto 2008


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