Il Pantadattilo ha chiuso le ali



di GIANNI MURA
la Repubblica - 16 febbraio 2004

Fare l'elastico, nel gergo del ciclismo, è perdere contatto dal gruppetto o dal gruppo, e poi riaccodarsi, e staccarsi di nuovo, e riaccodarsi. Pantani ha fatto l'elastico col ciclismo (e con la vita, ma allora non si poteva immaginare) dalla mattina del 5 giugno 1999.

Adesso siamo al voyeurismo della cronaca, che coincide con quello del cuore. Le pasticche di ansiolitici, lui in jeans e a torso nudo, lui con un rivolo di sangue alla bocca (forse), lui che scrive sui fogli di carta del residence (non si sa cos'abbia scritto, ma è sintomatico che abbia scritto), lui senza telefonino, ultima cena un'omelette con prosciutto e formaggio (un piatto da atleti in attività). E i fiori davanti al residence, gli applausi notturni al furgone che lo porta via verso l'obitorio, la sorella Manola che grida a tutti di andare via, non c'è niente da vedere. Ma c'è molto da pensare su quell'ultima notte di quiete.

Il mondo piccolo della Romagna, la riviera spoglia, fuori stagione. Una stanza al quinto piano di un residence. Non la villa di Cesenatico, forse troppo grande e fitta di ricordi. Non il rifugio di Saturnia, non quello di Predappio. Ancora Rimini, l'universo notturno su cui Pantani andava regolarmente a sbattere come una farfalla disposta a bruciarsi. Sesso e droga in maxi-dosi, rock 'n' roll forse.

La fine di Pantani può evocare quella di stelle della musica. Jim Morrison, Janis Joplin, l'amato (da Pantani) Charlie Parker. Ma un ciclista (questo è stato, non dimentichiamolo, e a suo modo dispensatore di musica e poesia, anche questo non dimentichiamo) è più legato alla terra. Otto mesi fa Pantani era ancora in gruppo, dopo tanto elastico. Dopo Campiglio, era obbligato a fermarsi 15 giorni per ematocrito alto, nessuna squalifica, solo una pausa per tornare ai valori giusti. Si è fermato un anno, che ne vale dieci per un ciclista. Bastava che tornasse in sella, che dicesse ho sbagliato, come tanti, troppi. Ma non l'ha fatto ed era penoso, per chi l'aveva ammirato e amato, prendere atto di questo rifiuto, di questa sosta dilatata, come se la cicatrice, lo sfregio all'immagine pubblica dell'erede di Coppi, fosse troppo profonda per rimarginarsi a comando.

Era penoso e non c'era molto da fare. Non lo dico per alleggerirmi la coscienza. Ho provato parecchie volte a cercare Pantani, non s'è mai fatto trovare e alla fine ho pensato che non lo avrei cercato più, perché il rispetto di una persona è anche rispetto delle sue scelte: l'isolamento, per dirne una. Che era, poi, l'allontanarsi da tutto quello o quelli che gli ricordavano il periodo d'oro.

Secondo Arrigo Sacchi, Pantani è stato vittima della stampa, secondo Eddy Merckx dei giudici. Non sono frasi leggere, anzi sono pietre, beati loro che ne sono così sicuri, che hanno la verità pronta. Io penso che Pantani sia stato vittima di un cocktail in cui si può mescolare di tutto, ma l'ingrediente principale resta la sua mancanza di forza. Pantani s'è perduto e non s'è ritrovato perché non poteva ammettere una semplice ma pesante verità. Fatta non di congiure, di complotti, ma di un prelievo di sangue maggiorato. Certo non era la sola pecora nera in un gruppo di pecore bianche. Ma è stato una pecora nera che non riconosceva neppure per un attimo di essere nera, un dio tirato giù dal cielo.

Noi pensiamo che i campioni dello sport siano fortissimi sempre. Lo sono nello sport, dove ascese e cadute sono all'ordine del giorno, ma nella vita possono essere fragilissimi. Si può attraversare un oceano e annegare in una pozzanghera, si possono scalare le montagne più aspre e inciampare in un gradino. Lo sport è la ricerca, anche enfatica, del superuomo, che batte gli avversari e cancella i ricordi.

L'uomo è un impasto più delicato e di difficile lettura: per l'uomo ci sono la famiglia, gli amici, se ne ha, i medici, gli psicologi, le cliniche. Penso che Pantani sia andato a Cuba da Maradona a far qualche giorno e notte di bella vita (che tanto bella non è, è come veder le stelle in fondo a un buco).

Penso che i più grandi talenti dei due sport più popolari nell'ultimo decennio del secolo scorso hanno conosciuto le stesse grandezze e le stesse miserie. Ma Maradona è più di scorza dura, è un tribuno, può abbracciare Castro e attaccare gli USA, o Menem, o Blatter.

Maradona sa rompere il silenzio, il giorno della morte di Pantani era in bermuda a inaugurare una sciovia. Pantani ha scelto il silenzio come protesta, come difesa, come compagno. Ma che sport è mai questo, su quali regole poggia, dove può condurre? Ogni tanto dovremmo chiedercelo tutti.

Dovremmo chiedercelo mentre Pantani passa in un'altra dimensione, anzi due: quella della morte, in una ritrovata e definitiva innocenza, e quella della leggenda. Il ciclismo ha i suoi santuari senza croci, crescono ai bordi delle strade: e saranno, per Marco, sul Mortirolo, a Montecampione, a Oropa, a Piancavallo, sull'Alpe d'Huez, sul Galibier, sul Plateau de Beille, e saranno in quel tuffo del sangue che arriva quando un uomo solo va via in salita (ma non sarà la stessa cosa, non prendiamoci in giro, uno come Pantani non ci sarà più).

Ciao Pirata, anche nei momenti più belli segnato da un'ombra presaga. Le emozioni non si cancellano e non ritiro una parola di quelle che ho scritto al Tour del '98. So che ti sei lasciato andare e poi lasciato morire, e che questa sofferta deriva, quest'elastico sulla corda tesa, queste curve sul buio, altro che la discesa dell'Aspin, meriterebbero un silenzio che il mio mestiere non consente.

Però Marco Pantani, per quello che ha fatto in vita, merita che si rifaccia come Orio Vergani con Coppi. Il grande Pantadattilo ha chiuso le ali.
(16 febbraio 2004)

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