La Zona di Coppino


di Simone Basso
Indiscreto - 22 dicembre 2009 

Stavolta ci occupiamo dell’ultimo vincitore toscano del Giro d’Italia; incredibile ma vero, nel dopoguerra la più grande scuola ciclistica del Bel Paese ha vinto solo una rosa finale dal 1958 a oggi. Malgrado Carlesi, Bitossi, Ballerini, Cipollini, Tafi, Bartoli, Casagrande, Bettini… Ebbene si, bignami doveroso dedicato a Franco Chioccioli da Pian di Scò, un atleta eternamente fuori del suo tempo.

Sfregaselle sfortunato a capitare in un’èra tricolore, gli anni Ottanta, autarchica e conservatrice: di quel ciclismo fu uno degli agnelli sacrificati alla rappresentazione scenica. Ebbe una carriera in chiaroscuro, che un Mastronardi avrebbe definito catramata; per causa di forza maggiore, dagli eventi e dal destino. 

Figlio di una famiglia contadina, ultimo di otto fratelli, dovette convivere con le storie dolorose di tutti i giorni. Talento annunciato fin dalle categorie giovanili, con un Giro della Lunigiana nella fedina, fu scoperto da un certo Franco Montanelli, nessuna relazione diretta con l’Indro, e valorizzato nei pro' da Luciano Pezzi. Il primo, che lo protesse come un angelo custode, vide quello che gli altri non capirono: l’annuncio di un campione, dietro quell’apparente (?) fragilità. Personaggio, il Montanelli, come se ne trovano solo in questo sport: fu infatti, prima che diesse, anche un fuoriclasse del biliardo… Il secondo, antico gregario di lusso, fu il saggio dell’ammiraglia che guidò gli ultimi due vincitori italiani del Tour (Gimondi e Pantani).

Il Giro 1983 lo rivelò, se non al grande pubblico, almeno agli addetti ai lavori: quella corsa rosa, altimetricamente banale, fu il gran ballo di una nuova generazione. Franco, che per scarsa fantasia e i lineamenti dolenti fu soprannominato Coppino, mostrò lampi di classe purissima. Vinse, quasi senza accorgersene, la maglia bianca e contribuì con i Visentini, Argentin, Chozas, Cassani a rendere la corsa imprevedibile. Si presentarono sul proscenio tanti nuovi protagonisti, magari meno classici nell’atteggiamento rispetto a chi li precedette: Paolone Rosola, per esempio, nella tappa dell’attacco garibaldino Termolan verso Vasto, fu costretto ad abbandonare il suo rosa provvisorio. Non fece drammi, anzi: arrivò quasi fuori tempo massimo, con le tribune smontate, cantando “...voglio una vita spericolaataaa...” sul traguardo… 

Popolare, lo smilzo della terra del Chianti Gallo Nero, non lo fu mai; con quella faccia un po’ così, non risultò mai l’oggetto del desiderio di media e sponsor. Troppa iella incombente lo privò di una ribalta consona alla sua classe, impedendogli un’affermazione internazionale tecnicamente nelle corde del suo potenziale: archetipo italiano, un cavallo di razza alla Motta/Battaglin, strepitoso in salita nei giorni di ispirazione massima, competente anche negli sprint ristretti dopo tracciati esigenti. Quell’isolamento italico, nelle squadrette Brancaleone, significò la rinuncia a classiche a lui favorevoli; come le ardennesi per esempio, che parevano disegnate per il suo estro. 

Ma il Chioccioli incappò anche in disavventure come quella della Maggi nel 1985; dopo un Giro eccellente, con la vittoria nella pantomima torrianesca del Gran Sasso (kafkiana...), assistette alla diaspora finanziaria della squadra stessa. Il mese seguente la grande affermazione al Giro del Friuli, contro Moser, si ritrovò a spasso come i suoi compagni di sventura, correndo alla carlona con una divisa neutra priva di scritte. Vicenda che illustra al meglio la precarietà di quel ciclismo e (di ritorno) anche di questo; legato, in Italia, a mecenati lillipuziani quasi sempre generosi e, in alcune occasioni, cialtroni e dilettanteschi. Vi sembra un caso che il momento di massimo splendore monetario, negli anni novanta, si sia verificato parallelamente alla diffusione democratica dell’epo nel plotone?

Il Franco comunque continuò a recitare la parte, frustrante, della comparsa di valore: rispettando il copione, fece sempre la cosa giusta al momento sbagliato. Anche al Giro 1988, quando indossò un rosa splendente, ibernò i sogni di gloria sotto la tempesta di neve del Gavia: quasi che la sconfitta eroica fosse nel suo codice genetico. In posizione di sparo, ai mondiali 1989 di Chambery, cadde facendo il pieno delle occasioni perdute. L’anno prima di riscuotere, in una volta sola, tutto il credito accumulato con gli dei, arrivò ad un biglietto ferroviario dalla fine anticipata della carriera: nel 1990, nella maxicrono di Cuneo, prese una stesa memorabile (e sette minuti in settanta chilometri). Solamente i tecnici e i colleghi della Del Tongo lo dissuasero dall’abbandono; già, perchè il Chioccioli visse sempre sul filo di una crisi di nervi, privo di difese immunitarie dalle tensioni agonistiche. L’insonnia talvolta divenne un presagio felice: passò senza addormentarsi quasi tutte le vigilie importanti della sua carriera, solitamente quando sentiva la gamba giusta. Così si ritrovò a inventare espedienti per riposare almeno qualche ora, per evitare che con quel fisichino il vento lo portasse via: il rimedio più bizzarro fu lo scotch adesivo nero applicato a tutte le fessure e le spie che emettevano luce…

Fu con questo spirito che entrò nel momento magico del Giro 1991: perse da vessato una tappa sarda, alzando le mani troppo presto, e poi riscattò una carriera. Ruppe le uova nel paniere allo scontro designato tra Bugno e Chiappucci, interpretando tutti i segnali positivi della strada; salvò il primato nella cronometro dalla sfinge monzese per un solo secondo ed entrò nella Zona. Quella di Tarkovsky in “Stalker”, la stanza all’interno della quale gli uomini possono esaudire i propri desideri. L’aretino fece un numero ancora oggi ineguagliato nell’era moderna della corsa rosa: fuggì in rosa sul Mortirolo e realizzò un capolavoro verso l’Aprica. Sessanta chili attaccati al manubrio, la schiena ricurva sul telaio e la pedalata nervosa di chi stava volando: oltre il bis sul Pordoi, quasi scontato, l’impresa tecnica più rilevante fu nella durissima prova contro il tempo di Casteggio. Pian di Scò, quella domenica di festa tranquilla, si trasferì a Milano: fu anche il suggello romantico della Del Tongo, arrivata alla fine di un decennio di sponsorizzazioni storiche (Saronni, Piasecki, Baronchelli, Fondriest, Ballerini, Cipollini eccetera). Marchio che firmò un’epoca anche con le sue abitudini: per il mobilificio di Togoleto, il Giro della Puglia venne sempre prima della Liegi-Bastogne-Liegi. 

Non siamo qui a stabilire quanto Van Mol ci fosse in quelle settimane da favola, ma il cosiddetto Coppino ripartì per un’ultima parte di carriera serena, molto più consapevole dei propri mezzi. Nel 1992 al Giro fece un terzo posto da campione e fu l’unico che provò ad attaccare seriamente il Faraone Indurain; esordì al Tour a quasi trentatre anni e vinse una tappa, quella di Saint Etienne, bellissima. Fu un appuntamento appagante ma nostalgico; chissà cosa sarebbe successo, se fosse capitato da giovinastro in una dimensione meno provinciale. Rimase sempre con la stessa espressione malinconica; il viso di una magrezza atavica, scavato dalla fatica, come un attore di un film neorealista o un ritratto di Ligabue. Addosso, sulla pelle, l’idea di un’Italia più autentica e silenziosa, mai tracotante. 
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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