Stanga: "Basta dilettanti"

TuttoBici
Numero: 5 Anno: 2010
di Pier Augusto Stagi

Da tre anni è fuori dal ciclismo. O meglio, Gian Luigi Stanga, 61 anni portati egregiamente, è lì a bordo strada, che segue i suoi ragazzi della UC Bergamasca, e lavora sodo per tornare nel grande giro professionistico con una squadra degna del suo passato. 

Da tecnico della Bergamasca De Nardi nel ’74, fino al ruolo di team manager della tedesca Milram, nel 2007, anno in cui lasciò il mondo professionistico varcato nel 1983, con la Mareno Wilier Triestina. Tren­ta­tré anni ininterrotti. Lo incon­triamo do­po un po’ di tempo, per sapere dal suo punto di osservazione come vede il ciclismo attuale e conoscere dal­la sua viva voce cosa vorrebbe si facesse per rilanciare uno sport che fatica a ritrovarsi.

- Ti manca il ciclismo?
«Se ti dicessi di no ti direi una bugia. Mi manca perché è una passione, però non ne faccio una malattia. Seguo da lontano l’UC Bergamasca De Nardi e lavoro per creare i presupposti necessari per poter allestire una buona squadra professionistica. Qualcosa si muove: non molto, ma si muove».

- Amareggiato per essere stato messo alla porta dalla Milram?
«Non sono stato proprio messo alla porta. La realtà è che un grosso sponsor tedesco gestito da italiani non piaceva molto. Alla fine abbiamo trovato un accordo economico per risolvere il contratto in modo ragionevole e conveniente per entrambe le parti».

- E del caso Jackjche?
«È una vicenda penosa. L’uomo a fine carriera era disoccupato e si è inventato uno scoop per sbarcare il lunario. Basta considerare che due mesi dopo l’intervista-shock, Georg ne ha rilasciata un’altra diametralmente opposta».

- Parliamo di ciclismo: come vedi la situazione?
«Un po’ disordinata, c’è tanta troppa confusione. È mai possibile avere più di 150 squadre nel mondo e più di duemila corridori professionisti? Secondo me no. Questa non è eccellenza».

 - Che cosa bisognerebbe fare?
«Tornare ad avere un professionismo di élite. Bisogna però partire da lontano, dalle categorie giovanili. Secondo me nel mondo c’è spazio per fare un professionismo di alto livello con 30/35 squadre, che a loro volta valorizzino le corse che vanno valorizzate. Io sono contrario allo sport agonistico in tenera età. Parlo di sport, non solo di ciclismo. Un bimbo di 6-7 anni deve giocare, non fare agonismo. Soprattutto, deve fare un po’ di tutto: nuoto, calcio, pallavolo, basket, ciclismo e così via. Deve fare conoscenza, non conoscere l’esasperazione. Dob­biamo tirare su bimbi sani, non malati di agonismo e protagonismo».

- Idea interessante, vuoi essere più preciso?
«Si dovrebbe incominciare a 13/14 anni, con una categoria che potremmo chiamare DEBUTTANTI, dove si insegna a stare in gruppo, ad alimentarsi, ad andare in bicicletta, a svolgere un’attività in maniera sana. Poi, a 15/16 anni la categoria ALLIEVI, do­ve si comincia ad affinare le doti di questi ragazzi e a individuare le attitudini di ciascuno. Senza esasperazione ma con serietà. Altro salto con la categoria JUNIORES che allungherei di un anno: dai 17 ai 19 anni. Solo da questo momento, con un ragazzo già sviluppato, si comincia a lavorare. Solo per gli juniores dell’ultimo anno deve invece essere previsto un campionato d’Euro­pa e del mondo. Tutto questo perché oggi è più lenta la maturazione psico-fisica di un ragazzo. Sono pochissimi quelli che a 20 anni sono già uomini. A 20 anni, eccoci arrivare alla categoria dilettanti, che potremmo chiamare UNDER 25. Alziamo l’età di categoria e qui si ha la possibilità di vedere davvero chi ha i numeri, le potenzialità e le attitudini per diventare corridore. Un ragazzo che entro i 25 anni non dà segnali chiari di avere un talento è giusto che cambi mestiere, che vada a fare le Gran Fondo o le passeggiate con gli amici. Non ti ordina nessuno di fare il ciclista».

- È una bella innovazione…
«Ma non è tutto. Anche a livello societario e fiscale le squadre dei dilettanti dovrebbero essere inquadrate come SEMIPROFESSIONISMO. Basta affiliazioni doppie, basta rimborsi spese senza capo né coda, ci vogliono contratti depositati in federazione con un minimo di stipendio anche per questi ragazzi che devono fin da subito essere inquadrati come semi-professionisti. E queste squadre, questi ragazzi, devono essere indirizzati verso quelle corse che hanno fatto la storia del ciclismo minore, come il Tour de l’Avenir, il Regioni, la corsa della Pace e la stessa Bergamasca».

- E per il professionismo?
«La Federazione si deve fare parte attiva e promuovere un ciclismo professionistico italiano diverso. Il minimo degli stipendi elevato a 50 mila euro, contratti depositati e via dicendo».

- Sì, certo, ma bisogna fare anche i conti con l’UCI, che ha tutto l’interesse a mantenere il caos che c’è: d’altronde, con le Conti­nen­­tal ci guadagna…
«Penso che anche all’UCI convenga fare in modo che si riorganizzi tutto quel sottobosco di squadre e squadrette Continental. E poi basterebbe reintegrare un ranking di coppa del mondo, diviso in fasce, dove anche le formazioni più piccine possono crescere, migliorare, aumentare di categoria anno per anno».

- Parli come se il ProTour non esistesse più…
«Il ProTour c’è e probabilmente cercheranno di farlo vivere il più possibile, ma così come è strutturato non va bene. Da quanto mi risulta anche ad Aigle stanno studiando qualcosa per renderlo più appetibile».

- L’antidoping?
«È una lotta giusta e sacrosanta, ma anche in questo caso bisogna guardarsi negli occhi e cominciare a fare la lotta al vero doping».

- Che cosa intendi dire?
«Revisione della lista dei prodotti do­panti. Eliminazione dei prodotti a restrizione d’uso. Se il Ventolin è dopante, che lo si consideri tale e basta, altrimenti togliamolo dalla lista. E poi, scusami se faccio un po’ di campanilismo, ma visto che parliamo di sport professionistico, tutti gli sport devono essere trattati allo stesso modo. Non è tollerabile che un lavoratore del ciclismo sia discriminato rispetto a un lavoratore del calcio, del tennis o del nuoto. Dimmi perché prima di una finale di Champions League, l’UEFA non fa un controllo a tutti i calciatori impegnati e invece ai partecipanti del Giro o del Tour sì? Dimmi perché nel nuoto non si fanno ancora i controlli ematici? Dimmi perché una nostra ragazza trovata positiva per un prodotto dimagrante debba pagare due anni di squalifica e a un calciatore, per lo stesso motivo, gliene danno la metà? Anche la WADA ha le sue responsabilità, perché fa figli e figliastri. Se vanno a fare i controlli a sorpresa al Barcellona e quelli non aprono la porta, a loro comminano solo un’ammenda. Che cosa farebbero a un ciclista?».

- Non credi che sarebbe però il caso di affidare l’antidoping a un ente super partes?
«Può essere un’idea. Anzi, lo trovo più che giusto».

- Sei per la radiazione?
«Per i casi chiari come chi è stato trovato positivo al Cera, sicuramente. Però mi chiedo anche: come mai l’UCi ha fatto così poco per la vicenda-Valverde?».

- Probabilmente perché temeva una reazione legale.
«E per quale ragione i team non do­vrebbero temerla? Perché solo i team, spesso le vere vittime, si devono far carico anche di questi duri bracci di ferro?».

- Credi che nel ciclismo giovanile, in materia di doping, si stia facendo a sufficienza?
«Credo che si stia facendo ancora troppo poco. E da lì che parte tutto. Se si creano generazioni di ragazzi che non sanno correre senza l’“aiutino”, è im­pensabile che questi da professionisti cambino approccio mentale».

Che cosa auspichi?
«Che la Federazione, che l’amico Renato Di Rocco si faccia garante di un progetto di riforma del ciclismo italiano e mondiale. In gioco c’è la sopravvivenza del nostro sport. Soprattutto nel nostro Paese».

- Pensi sia una buona idea quella di ridare forma alla Lega del ciclismo professionistico?
«Fin quando c’era ha funzionato anche bene. Se serve per ridare forza a un movimento che sta facendo fatica, per mettere delle regole certe e chiare, ben venga. Certo, una lega italiana con pochissimi team italiani… In ogni caso io auspico un passo indietro per riuscire ad andare finalmente avanti. Un Pro­Tour più “sportivo”. Una “top die­ci” che dia le giuste garanzie. Un ciclismo di eccellenza, che premi pochi, ma tuteli tutti quelli che hanno i requisiti per ambire a essere protagonisti di un ciclismo veramente professionistico».

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