Il catenaccio si fa ma non si dice

Il sistema di gioco più difensivo che c'è, ormai tabù da più di 20 anni, torna alla ribalta dopo le accuse di Totti a Ranieri. Ma il catenaccio ha vinto tanto. Ultimo interprete Mou, in trincea a Barcellona con l'Inter che poi trionfò in Champions.

di Christian Giordano

Catenaccio. I ventenni di oggi potrebbero non averne mai sentito parlare. E se è successo, era una parolaccia. Perché quando sono nati, fra gli anni 80 e 90, era già diventato un tabù, un nemico, il male assoluto per i seguaci di Sacchi. L'ayatollah di Fusignano. Eppure, unito al contropiede, il catenaccio ha vinto tanto e a lungo. La Grecia a Euro 2004, e senza andare lontano, l'Inter di Mourinho, in trincea a Barcellona in Champions.

Sono gli ultimi esempi - camuffati più o meno ad arte - di un modulo inventato negli anni 30 dall'austriaco Rappan. Che lo chiamò verrou, in francese "chiavistello", che non è la stessa cosa ma quasi. Con il Servette prima e nella nazionale Svizzera poi, Rappan adeguò il Metodo di Pozzo e corresse il Sistema di Chapman mettendo un terzino alle spalle del centromediano. Nascevano così la difesa a 4 - rigorosamente a uomo - e il "libero", termine coniato dal genio di Gianni Brera, che di quel modulo divenne il sommo cantore.

Rocco, il suo prediletto, vi costruì attorno la Triestina e il Padova dei miracoli. L'Uruguay vinse il Mondiale del '50. L'Inter di Foni due scudetti, quella di Herrera tutto in Italia, in Europa, nel mondo.

Trapattoni giocava con due punte, più un 10 classico, un tornante e un terzino fluidificante, ma vincere chiudendosi non bastava più. Bisognava giocare a zona, in linea, senza libero. Baresi al Milan lo era, e si staccava, e la squadra difendeva alta, corta e stretta. Da allora, il Catenaccio - anche se con fuorigioco e falli sistematici - è peccato: si fa ma non si dice.

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