Moser, dinastia senza tramonto: ''Ora tocca a figli e nipoti''
Da destra Aldo Moser, Francesco, suo figlio Ignazio (tricolore juniores di inseguimento) e Matteo, che si è ritirato nel 2000
Festa da Palù a Gardolo per l'uomo della Roubaix. E la terza generazione comincia a imporsi. Francesco, 60 anni domenica: ''La bici nel sangue''. Il sogno di Ignazio, suo figlio: ''Al Tour con mio cugino Moreno. A me le tappe, lui in giallo''
dall'inviato MAURIZIO CROSETTI
la Repubblica, 14 giugno 2011
GARDOLO DI TRENTO - Tutto è come questo sasso appoggiato sopra la botte, che non è un sasso ma un cubo di porfido, e lo danno a quelli che vincono la Roubaix. Tutto è così squadrato, ruvido, solido, vagamente ombroso. I Moser sono gente di pietra. Le vene di Francesco sembrano scolpite da Michelangelo, ora che stringe la tenaglia e sposta il pannello con le sue vecchie foto. Le mani di Aldo sono legno purissimo, e gli occhi hanno il colore della montagna quando piove. Le braccia di Ignazio sono muscolo giovane, fresco di giornata, che meraviglia i corpi dei figli quando prendono forma e ti esplodono davanti, senza paura del futuro.
Tre generazioni di Moser, e manca un sacco di gente. Manca Enzo, morto tre anni fa sotto un trattore nella vigna. Manca Moreno, gran ciclista dilettante, sta quasi per vincere il Giro d'Italia, in queste ore è in sella (e suo cugino Ignazio, comunque, è campione italiano dell'inseguimento su pista e sta preparando l'esame di maturità). Quattro fratelli, per cominciare: Aldo che correva con Coppi, poi Enzo, Diego e Francesco il memorabile, sessant'anni domenica prossima: "Faremo una grande festa, la solita biciclettata, poi la torta e dovrò pur dire qualcosa".
Aldo, Enzo e Francesco sono stati tutti in maglia rosa. Francesco ha vinto più corse di Coppi e Bartali messi insieme. Diego è stato il meno forte, però ha prodotto Leonardo (27 anni, ex professionista, ora ha smesso), Matteo, 31 anni e soprattutto Moreno, 21 anni, grande promessa. "Mi somiglia", dice zio Aldo. "È anche scalatore, meglio di me in volata. Poco ci voleva".
L'albero dei Moser non è solo un disegno genealogico, è come una delle piante dei loro boschi, sui loro monti, quelli di Palù di Giovo che è il mitico paese natale e quelli di Gardolo, dove Francesco ha comprato quattordici ettari di cascine, terre, vigne, paesaggi e ne ha fatto il "Maso Villa Warth": il gran premio della montagna della sua vita. "Si arriva quassù scalando, ci sono tre o quattro tornanti, si vede che era destino per me che la salita non l'ho mai amata". Se si guarda sotto, dallo strapiombo, Trento è come un fiume immobile, pare di toccarla ma sta a distanze siderali da questo silenzio.
Tutto cominciò con Aldo, nel '46. "Per scherzo, la bici era solo un modo per spostarsi la domenica con gli amici. Però il ciclismo è dentro il nostro sangue. Si mangiava sempre polenta, eravamo allenati dalla campagna, forse è questo il segreto dei Moser: la bigoncia per portare l'uva, che mio padre mi mise sulla schiena quando avevo sei anni. Nella lingua trentina si chiama congiàl. Avevo vent'anni, il Coppi trentacinque, allora agli anziani si portava rispetto senza soggezione: al Lombardia lo staccai sul Ghisallo, poi ci riprese e trionfò. Era un uomo pieno di solitudine".
Il povero Enzo, invece, non era solo un ciclista ma un tecnico. "Mi accompagnò alla prima corsa", ricorda Francesco, "io forai e lui mi cambiò il tubolare, c'era la strada bianca e arrivai secondo. La domenica dopo, vinsi". Enzo fu il direttore sportivo di Francesco, Diego e Aldo. "Ma sono stato io ad avviare tutti al ciclismo: regalavo la prima bici, quand'era ora", racconta Aldo. "A Francesco la diedi tardi, aveva già 18 anni, perché mamma Cecilia lo voleva a lavorare nei campi, aveva bisogno di quelle braccia".
Tutt'intorno, vigne e nuvole. Adesso Francesco sta preparando la mostra della sua vita, sposta coppe, targhe, foto, pagine ingiallite, bici. "Con questa, rossa, ho partecipato all'ultima corsa. Con questa ho vinto la Roubaix del '79, funziona a meraviglia, ieri ci ho fatto ottanta chilometri, ha ancora i cinghietti ai pedali". Ripensa a suo padre: "Combatté la Grande Guerra con addosso la divisa austriaca. Mi portava a vedere le corse dei miei fratelli, io lo ricordo quando faceva i tetti delle case spostando i lastroni, e quando ferrava i buoi". Il campione prende una biro, disegna lo schema della ferratura, mima il bue che si china, imbracato nelle corde. "E se il chiodo bucava oltre l'unghia, nella carne viva, era terribile guardare il dolore della bestia". Anche la bici è tutta una storia di dolore e bestie. "La fatica, come nei campi, è quella lì".
Francesco Moser, una leggenda in maniche di camicia. Ora prende la vanga, raccoglie un fungo mazza di tamburo. "Andiamo al belvedere". Si entra in vigna, sulla sommità del monte che profuma di terra e muschio. "Il cane Tom attacca le caprette, abbaia ma ha paura, quelle sono piccole e lo prendono a cornate". Stappa una bottiglia di traminer, ne versa un po', lo fa girare nel bicchiere. Un uomo forte e felice, così si direbbe. "Si sa niente di Moreno?", domanda. Quarto nella tappa del Giro, gli rispondono. "Può vincerlo, c'è ancora un sacco di roba dura per strada, per lui".
Ignazio invece lascia i libri per dieci minuti e guarda dritto nel suo sogno: "Correre il Tour de France con mio cugino Moreno, a me qualche tappa, a lui la classifica, ce lo ripetiamo da quand'eravamo bambini. Chiamarsi Moser e andare in bici dev'essere come chiamarsi Del Piero e giocare a calcio: tutti ti guardano e ti aspettano, se perdi sono dolori, se vinci parlano il doppio di te. Mai visto correre papà, però i filmati alle Roubaix sono incredibili. Io l'ho già fatta due volte, da dilettante, sempre caduto". Suo padre ha appena appoggiato sulla botte il pezzo di pietra vinto tanto tempo fa: chi farà festa, domenica, lo vedrà nell'angolo di una cantina. A volte il passato è proprio un sasso. Quanta voglia di allungare le mani, anche solo per una carezza.
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