HOOPS PORTRAITS - James, il destino del Re


A 28 anni sua maestà Michael Jordan festeggiava il primo dei suoi sei titoli di campione NBA e di MVP delle Finals.

Alla stessa età, sei stagioni dopo la sua prima Finale, persa con Cleveland proprio contro gli Spurs, LeBron James ha già conquistato - da miglior giocatore della stagione e delle Finali - il secondo anello NBA consecutivo.

Lo ha fatto da dominatore, contro tutto e contro tutti. In particolare la critica più gratuita, cattiva e superficiale: i cosiddetti "Miami Haters", gli odiatori di professione dei Big Three, lo stesso LeBron, Dwyane Wade e Chris Bosh), le stelle "colpevoli" di esagerata, arrogante, sfacciata superiorità. E il discorso del re, alla fine, è già nella storia. Come questa meravigliosa serie finale di sette partite. 

"Non posso preoccuparmi di ciò che dicono di me. 
Io sono LeBron James, da Akron, Ohio. 
Vengo dal ghetto. 
Neanche dovrei esserci, qui. 
E tanto basta. 
Ogni sera quando entro in spogliatoio e vedo la maglia col numero sei e la scritta "James" sulle spalle... 
Ho avuto un dono. 
E qualsiasi cosa dicano di me fuori del campo, non importa. 
Io non dico altro".

Vincendo il titolo un anno fa The King s'è tolto un peso enorme. Ma con lui niente, nel bene e nel male, sarà mai valutato per quello che è: una partita vinta o persa del più forte giocatore della sua epoca. Uno che quest'anno coinvolgendo più che mai i compagni ha vinto di squadra e dimostrato, ancora una volta, di essere "The Chosen One", il Prescelto.

Qualsiasi cosa faccia, e che gli importi o no, il confronto con le leggende, i miti del passato lo accompagnerà per sempre. È il suo destino. 
Il destino del Re.

Per Sky Sport 24, Christian Giordano (21 giugno 2013)

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