Tanking, si fa ma non si dice

Tanking? No, thankx. 
Il neo-Commissioner NBA, Adam Silver, non "ci è", e certo non ci fa. Non gioca sulle parole, è che per lui il problema non sussiste. I media lo chiamano tanking, giocare a perdere per arrivare a scegliere più in alto al Draft a fine stagione. Lui, l'ex delfino di David Stern nominato comandante dal suo stesso predecessore, lo chiama rebuilding. Ricostruzione.

Il tanking, l'arte di perdere volutamente, per i vertici della lega è diventato un tabù al punto che il gran capo rifiuta persino di pronunciarlo. "T-word", lo chiama; la parola che "comincia per T". 

Ma perché le squadre ci tengono tanto a perdere. E a perdere tanto? Perché alla lottery, il sorteggio per accedere ai migliori talenti universitari, le squadre sono classificate in ordine inverso rispetto al record della regular season, quindi la squadra con la peggiore percentuale vittorie/sconfitte è quella con più palline nell'urna. E quindi con maggiori probabilità di scegliere in alto.

Non è una scienza esatta, ma aiuta se vuoi arrivare ai vari Andrew Wiggins e Joel Embiid (di Kansas) o Jabari Parker (Duke), i probabili primi tre alla lotteria del prossimo 26 giugno.

A febbraio, Phila ha ceduto Spencer Hawes e Evan Turner, ex seconda scelta assoluta, e ha perso 18 partite in fila. Diciotto, e la striscia è aperta. Gary Neal, ceduto a Charlotte, si è pentito di non essersene andato prima da Milwaukee, dove i Bucks stanno buttando via la stagione.


Ma per il Commissioner, il quinto della storia, la lega ha già al proprio interno i meccanismi anti-tanking. "Se non funzionano li cambieremo", ha detto Silver, ammettendo implicitamente che il problema esiste. Il tanking c'è, ed è un peccato. Si fa, ma non si dice. 
PER SKY SPORT 24, CHRISTIAN GIORDANO







INS CONF KOBE: 

"DOBBIAMO COMINCIARE DALLA 'CULTURA' DELLA NOSTRA SQUADRA. 

L'ATTEGGIAMENTO, LA DIREZIONE DA PRENDRE, IL SISTEMA DI GIOCO.

TUTTO COMINCIA DA QUI. È SU QUESTE BASI CHE BISOGNA COSTRUIRE LE FONDAMENTA.

Questo è Kobe Bryant.

E questi sono i Los Angeles Lakers.

I Lakers di Bryant. E della dinastia Buss.

"Si deve partire da loro, Jim e Jeanie", ha detto Bryant. "Poi dallo staff tecnico. Che cosa farà Mike? Cosa vogliono fare con lui?"

Domande retoriche, per Kobe.

Perché, questi Lakers, di D'Antoni non lo sono mai stati, e mai lo saranno.

Nel giorno in cui i Lakers annunciano che per Bryant questa stagione è già finita, Sean Deveney di Sporting News ha svelato che Kobe "non ha alcun interesse" a giocare anche la prossima con questo allenatore. 


Dopo appena sei partite, al rientro dalla rottura del tendine d'Achille dello scorso anno, a Bryant è saltato il ginocchio sinistro; 

altro lungo e stop e il 12 marzo la decisione di non tornare per le ultime 18 partite di regular season.

Con la Los Angeles gialloviola precipitata a 22-43 nel bilancio vinte-perse, ultima squadra a Ovest, forse la peggiore stagione di sempre della franchigia, non aveva senso tornare.

Meglio prendersi sette mesi e provare a tornare Kobe, o almeno a qualcosa che gli somigli. 

Per non vivere mai più un'altra annata così.

LA STAGIONE è NEGATIVA, MOLTO NEGATIVA. SIAMO LONTANISSIMI DALLA ZONA-PLAYOFF.

ABBIAMO UNA STORIA, UN PASSTAO, LOTTIAMO SEMPRE PE RIL TITOLO.

SE GIOCHI NEI LAKERS E NON VINCI HAI FALLITO.

NO, NON VOGLIO VIVERE UN'ALTRA STAGIONE COME QUESTA, UN'ALTRA STAGIONE DA BUTTARE.

Anche con ancora un anno di contratto a 4 milioni di dollari, il destino di pare segnato. 

Ma a dargli il colpo di grazia, più che il non ritorno o il presunto "disinteresse" di Kobe, potrebbe essere l'arrivo di Carmelo Anthony dai Knicks.

Sedotto da Joakim Noah per andare a vincere quel benedetto titolo a Chicago, "Melo" potrebbe invece fare il percorso inverso di Phil Jackson. 

La fidanzata Jeanie Buss, sì, quella Jeanie Buss, ha detto che è una decisione che spetta solo a Phil.

E Phil, New York, in fondo non l'ha mai lasciata.



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