Luci e ombre in vista di Ponferrada
Il riassunto della Vuelta 2014, il suo nucleo narrativo, è racchiuso nell’ultima ascesa. Salendo ad Ancares si ripete il pattern già esplorato nella seconda settimana di corsa: Chris Froome, generoso ma prevedibile, sgassa lasciando indietro tutti tranne la maglia rossa, un Alberto Contador diabolico, che a meno di mille metri dal traguardo lo lascia sui pedali e va a prendersi il bottino pieno. Arrivano in fila, a relativa distanza l'uno dall’altro, dettando la classifica finale: Contador, Froome, Valverde, Rodriguez, Aru.
Non essendo strilloni del cosiddetto ciclismo tradizionale (forse perché ne conosciamo la storia) potremmo definire questo Giro di Spagna tecnicamente mediocre e ripetitivo: i grandi nomi, le rampe di garage, che tanto appassionano tv e tifosi, non possono coprire i vuoti di sceneggiatura. Chilometraggi-bonsai, tracciati monodici hanno prodotto distacchi minimi sino a La Farrapona, una delle (due) frazioni con dinamiche prossime ai Grandi Giri classici (Giro e Tour), con i big che si sfidavano negli ultimi due o tre (sic) chilometri.
Laddove il Pistolero si impossessa della corsa, nella cronometro di Borja, esibendo brillantezza (un’agilità estrema), il keniano bianco Froome, più diesel che turbo, la smarrisce. E soprattutto cade il capintesta Quintana, il cui ritiro (il dì dopo) ha condizionato pesantemente i rapporti di forza e la tattica dei migliori. Il Condor colombiano ruzzola sull’asfalto in uno dei tratti più delicati di una prova contro il tempo improbabile, demenziale, con la discesa à bloc (pericolosa) e segmenti con la carreggiata in cemento. Denuncia la circostanza Fabian Cancellara, qualche ora prima di subire – dalla giuria – una penalizzazione per scia prolungata del compagno Popovych; la sequenza simil-derny di Valverde e Contador, con le moto vicine, sfuggite per caso (?) al regista tivù, invece non fanno testo.
In questo senso, rispetto a trent’anni fa, abbiamo compiuto dei progressi: nel 1984 l’eroico Eric Caritoux, francese in amarillo a dispetto dei santi, dovette essere scortato dalla Guardia Civil per portare a casa la pellaccia. Oppure ricordiamo, nel 1994, lo svizzero Tony Rominger – dominatore di quella edizione – preso a sassate nella prova contro il tempo alle Distillerie Dyc.
Vince così, a sorpresa ma nemmeno troppo, Contador. Un fuoriclasse, un purosangue, che annusa la situazione (e la provoca) meglio della concorrenza, e che rilancia, e sposta un po’ più in là, l’epilogo di una carriera zeppa di successi e di rovesci. Le bendature rossogialle, patriottiche, al ginocchio destro del campione di Pinto contrastano col suo rifiuto di correre al mondiale spagnolo di Ponferrada 2014. Decisione che provoca maretta tra gli organizzatori dell’evento, alcuni dei quali si spesero concretamente per sostenerlo nella querelle clenbuterolo (2010).
Contabal (vogliamo i diritti sul soprannome) augura pure a Balaverde e JRO un gran Mondiale: una bugia, l’ennesima, al pari dell’annuncio della frattura alla tibia dopo la caduta al Tour. La verità è che i tre si detestano e farebbero l’impossibile per impedire ai rivali di vestire l’iride: senza l’Embatido di mezzo, a Firenze, l’anno scorso, Purito ce l’avrebbe fatta. La situazione, a non vederla nei panni del CT Minguez, è divertente soprattutto per il pubblico di casa. Due asterischi importanti a riguardo: la folla sulle strade c’è ma sfigura – nel confronto – col concomitante Tour of Britain.
Il ciclismo spagnolo è prossimo all’anno zero. In sintesi, scorrendo la generale della Vuelta, Contador compirà 32 anni a dicembre, Valverde ne ha 34, Rodriguez 35, il redivivo Samu Sánchez 36. Navarro (ex gregario del Pistolero) 31, Dani Moreno 33, Nieve (luogotenente di Froome) 30. Troviamo il primo iberico U30 al ventottesimo posto (a 1h 11’ 52’’ di distacco), lo scalatore basco dell’Astana Mikel Landa. Difatti, dietro alla generazione dei trentenni, il movimento iberico è alla frutta o quasi.
Non che un’altra nazione guida come l’Italia brilli, ma – nel deserto dei Tartari – mostra un Fabio Aru potenzialmente irresistibile nei prossimi anni. E la Francia, a dispetto del forfait prematuro di Pinot (bronchite: questa stagione, nel gruppo, è andata di moda), conferma il giovanissimo Warren Barguil.
Al di là delle considerazioni teosofiche su una corsa a tappe che si conclude a settembre inoltrato, argomento scivoloso, il resto della competizione lancia segnali forti in vista di domenica 28. Degenkolb (quattro trionfi parziali e la maglia a punti) impressiona e pare il mammasantissima più in forma del lotto. Bouhanni ha convinto per la tenuta su alcuni strappi; chissà che la manfrina con Marc Madiot (che lo boicotterà impedendogli di correre ancora con la Fdj) non gli regali una motivazione extra.
Al netto di un Sagan anonimo – sembra scarico – i vecchi leoni Boonen e Cancellara non si sono risparmiati, infilandosi in diversi tentativi di fuga: hanno fatto le prove generali per Ponferrada e poi, la stessa sera (a La Coruña , si sono tolti il numero dalla schiena. Al contrario, Gilbert fino a Santiago di Compostela ci è arrivato, ma definire illeggibile la sua performance è un eufemismo; l’esatto opposto dell’aussie Matthews, che se non avesse in nazionale il Simon Gerrans 2014 sarebbe il capitano indiscusso dello squadrone down under. Talvolta però agire in penombra, da seconda punta, nella matassa intricata dell’iride può essere una fortuna.
SIMONE BASSO, Il Giornale del Popolo
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