The Decision, 5 anni dopo


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Riviviamo la serata che ha cambiato per sempre la carriera di LeBron James.

di Dario Vismara
ULTIMO UOMO, 8 luglio 2015

Nella storia della comunicazione sportiva, è difficile trovare qualcosa che si avvicini a “The Decision”. Nessuno, prima dell’8 luglio 2010, aveva mai pensato di annunciare in diretta televisiva mondiale una propria scelta professionale-e, visti i risultati, nessuno lo farà in futuro. In quello show di un’ora, la carriera di LeBron James è cambiata per sempre: prima di quella sera LBJ era uno degli sportivi più amati d’America (il suo Q-Score era del 24% positivo, il più alto mai registrato per un atleta USA) e con un’intervista di 10 minuti è riuscito a distruggere completamente la sua immagine pubblica, con conseguenze che si ripercuotono ancora oggi-nonostante abbia vinto due titoli, abbia fatto cinque finali in fila e, soprattutto, sia tornato a Cleveland.

Quando mi sono messo ad analizzare “The Decision” era il gennaio del 2012 e mi apprestavo a consegnare la mia tesi di laurea sulla costruzione mediatica di LeBron James. Inutile dire quanto quello show fosse centrale per la mia analisi della sua carriera: senza quell’ora di programma, probabilmente non avrei preso in considerazione di scrivere di lui, e non a caso molti dei miei sforzi si sono concentrati su quella serata-riguardandomela più e più volte, scrutando ogni parola e ogni espressione, per cercare di spiegarmi come fosse potuto succedere il più grande autogol della storia della comunicazione sportiva. Lascio la parola al me stesso di 3 anni e mezzo fa.


Lo show

La notizia della messa in onda di “The Decision” viene accolta con iniziale scetticismo, ma nessuno alza grosse polemiche: sono tutti ancora troppo impegnati a capire quale possa essere la sua scelta finale-anche se Miami nelle ultimissime ore, dopo l’annuncio delle firme di Wade e Bosh, appare ormai come la netta favorita. La diretta su ESPN viene fissata per le 21:00 dell’8 luglio 2010 da Greenwich, Connecticut, in una palestra del Boys & Girls Club alla quale sarebbero andati in beneficenza i proventi di quella trasmissione.

La scelta di realizzare lo show in quella città è indicativa: se LeBron avesse voluto annunciare la permanenza ai suoi Cavs, perché non farla a Cleveland, o meglio ancora nella sua Akron? Nonostante sia probabile che James stesse provando a sfuggire alla pressione mediatica del suo stato natale, resta comunque una delle scelte più controverse di quella serata.

ESPN ha messo in campo tutte le sue forze: l’introduzione è scoppiettante con un video di highlights della carriera di James e delle sue giocate più famose. In studio vengono presentati i giornalisti Michael Wilbon, Jon Barry e Chris Broussard, imbeccati dall’ottimo Stuart Scott. Dopo un primo giro di considerazioni con tutti gli ospiti, viene mandato in onda un video che ripercorre la famigerata “Summer of LeBron” e tutti i risultati ottenuti fino a quel momento in carriera. Solo dopo 7 minuti c’è il primo collegamento, senza parole, dalla palestra dove si trova LeBron in compagnia di Jim Gray, giornalista “piacente” che avrebbe realizzato l’intervista col Prescelto. Prima di iniziare a parlare, però, la linea passa di nuovo allo studio per la presentazione delle sei pretendenti alla corona del Re e subito dopo si va in pubblicità, ma non prima di ricordare la sponsorizzazione di Bing, University of Phoenix e Vitamin Water, della quale LeBron è testimonial e che per l’occasione ha lanciato il suo nuovo prodotto, la “Decision Water” (sic!).

Qui il video completo della messa in onda.

Al rientro in studio, finalmente la linea passa alla palestra, con LeBron e Gray su un palco sopraelevato al centro del campo da gioco, seduti su alte sedie di legno (con bottiglia di Vitamin Water sul tavolino a fianco) e sullo sfondo un pubblico muto di ragazzi del Boys & Girls Club. L’aspetto di LeBron è a dir poco agghiacciante: barba più folta che mai, camicia a quadri viola, pantaloni scuri e Lumberjack marroni, con un’espressione sul volto che tradisce tensione e che in video appare quasi paonazza. I primi piani strettissimi della regia non aiutano a stemperare la tensione di LeBron, e infatti uno dei primi commenti da studio è: «Non sembra molto felice, anche se sta prendendo la decisione della sua vita…».


L’intervista

Proprio per stemperare quel clima teso, Jim Gray inizia l’intervista con una battuta.

- Grazie mille. Sono tutti sulle spine, in particolare le squadre che sono in corsa per LeBron James. Sei pronto LeBron? Dove hai lasciato il gesso?
L’ho lasciato a casa.

Il richiamo è ovviamente al chalk toss con cui LeBron era solito iniziare le sue partite. Segue una risata di circostanza per dare l’impressione di essere rilassati e rompere il ghiaccio. Ma quando iniziano le domande vere e proprie, sul suo volto si legge solo tensione.

- Che cosa è successo in questa estate?
Jim, tutta questa esperienza della free agency… non vedevo l’ora che arrivasse.

La domanda è standard, quasi volesse passare la palla a LeBron per un’introduzione. La prima cosa che lui dice è che non vedeva l’ora di avere l’opportunità di diventare free agent. Molte delle risposte, se viste con gli occhi di un tifoso di Cleveland, non possono che risultare fastidiose. In questo momento verrebbe da chiedersi: qual è il motivo per cui LeBron inizia con una frase del genere? Qual è il messaggio che vuole far passare? Che non vedeva l’ora di lasciare Cleveland? Che voleva che tutti quanti lo osservassero e lo cercassero? Che voleva fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto? Forse quest’ultima può essere una chiave di lettura: fare qualcosa di “completamente nuovo” è una prospettiva che ha sempre affascinato James.

- Che cosa ne pensi di questo processo?
Questo processo è stato tutto quello che pensavo potesse succedere, e molto di più. È quello che cercavo qualche anno fa, quando mi sono messo in condizione di poter ascoltare le proposte dei dirigenti di tutte le squadre e capire qual è la migliore opportunità possibile per me per vincere ed essere, in ultima analisi, felice.

Risposta spedita, senza una pausa, come fosse un libro stampato e mandato a memoria: si vede che l’inizio dello show è stato studiato nei minimi dettagli e James lo sa eseguire come nessun altro davanti a un microfono. Un paio di annotazioni: si riferirà a tutta la settimana dei colloqui chiamandolo «this process», un concetto che verrà ripetuto molte volte nel corso dell’intervista, segno che l’esperienza ha lasciato un segno molto profondo in lui e che è stata lunga e faticosa, per quanto la definisca «divertente».

Nella seconda frase («È quello che cercavo qualche anno fa») fa riferimento a quando, tre anni prima, non firmò l’estensione contrattuale per cinque ma solo per quattro anni, lasciandosi la possibilità di diventare free agent nel 2010 tramite un’opzione sull’ultimo anno: una sorta di assicurazione nel caso le cose a Cleveland non fossero andate bene. Da sottolineare un’altra frase («la migliore opportunità possibile per me per vincere»): è un concetto molto forte in tutta The Decision ed è la chiave di volta della spiegazione della sua scelta, almeno per come lui l’ha voluta far intendere a noi dall’altra parte dello schermo: LeBron James, in quanto LeBron James, non può permettersi di non vincere. Vincere è l’unica cosa che conta «in ultima analisi», e già lì si poteva capire che sarebbe andato a Miami: la prospettiva di giocare con Wade e Bosh era quella che gli dava maggiori garanzie per vincere subito.

- Non sei stato protagonista del processo di reclutamento [per il college] perché dopo il liceo sei è andato subito in NBA. Ti sei goduto questo processo di reclutamento ora?
Mi sono divertito. E voglio ringraziare tutte e sei le squadre con cui ho avuto la possibilità di sedermi e ascoltare quello che avevano da dire. E il mio team, anche loro hanno sentito quello che avevano da dire. È stata un’esperienza incredibile, che mi ha fatto sentire orgoglioso di essere in questa posizione.

Dice di essersi divertito, ma gli rimane addosso una maschera di tensione: pochi muscoli del corpo riescono a muoversi. Le risposte non sembrano sentite ma programmate a tavolino e possono suonare umilianti per i tifosi dei Cavs, che hanno vissuto in perenne stato d’ansia la settimana della free agency, con la prospettiva di veder andare via il giocatore più importante della storia della città. Non c’è spontaneità, non c’è empatia.

- Che cosa ti aspettavi [da questo processo]? Perché abbiamo visto cartelloni di trenta piedi [fatti per te]. Abbiamo visto squadre fare spazio salariale solo per te. Abbiamo visto cartoni animati realizzati su di te. Il presidente Obama, per dire, ha commentato che gli piacerebbe vederti andare a Chicago in sette occasioni diverse. Che cosa ti aspettavi da questo processo?
Beh, cose del genere non le puoi controllare. Ma mi aspettavo di essere in grado di sedermi con la mia squadra, di sedermi di fronte ad altre squadre e sentire come mi avrebbero immaginato nella loro squadra, come avrebbero potuto aiutarmi a vincere e come io avrei potuto aiutarli a vincere. L’intero processo è stata la cosa che più avevo voglia di affrontare. E come ho detto prima, posso solo ringraziare tutte le squadre che sono venute a Cleveland per fare quei colloqui con me.

Ancora, forse più che mai, ritornano il concetto di divertimento e attesa dell’intero “processo”. Non c’è umiltà in quello che dice LeBron, ma un’esaltazione dell’ego che rasenta il culto della personalità. L’impressione che lascia agli spettatori è che questo “processo” gli abbia dato alla testa.

La risposta chiude la prima parte dell’intervista. A questo punto lo spettatore è già indisposto, sia nei confronti di LeBron che del programma: era stato promesso che la decisione sarebbe stata annunciata nei primi 10 minuti di trasmissione e invece bisogna assistere a questa “esaltazione della sua personalità”, come se fare uno show di un’ora non fosse di per sé abbastanza megalomane. Logico che poi, se la decisione finale è quella di andare a Miami (che viene vista come la scelta “facile”) e di tradire la propria città e la propria squadra, la risposta del tifoso NBA medio non può che essere di disprezzo per James.

C’è da ricordare che in quel momento della sua carriera LeBron non ha ancora vinto il titolo. E a chi piacciono gli arroganti, per di più senza argomenti per esserlo? Queste frasi hanno segnato il primo, vero momento di distruzione della sua immagine pubblica e dell’odio che ancora adesso si porta dietro. Il problema non sono state tanto le frasi in sé, quanto il contesto in cui sono state pronunciate.

- Quante persone conoscono la tua decisione in questo momento?
Non molte. È un numero molto, molto piccolo. Probabilmente potrei contarle sulle mie mani.

- Una mano o due mani?
Facciamo una.

- Quando hai deciso?
Penso di aver deciso questa mattina. Voglio dire, ho deciso questa mattina, ma sono andato avanti giorno dopo giorno. Mi sveglio una mattina, ed è questa squadra. Mi sveglio un’altra mattina, ed è quest’altra squadra. Per tutto questo periodo ho cercato di capire quale fosse la migliore opportunità per me e quale non lo fosse. Ma questa mattina mi sono svegliato e ho avuto una grande conversazione con mia madre: dopo aver parlato con lei, ho preso la mia decisione definitiva.

Nel descrivere i suoi giorni precedenti allo show gli occhi si fanno improvvisamente tristi, quasi rassegnati, forse conscio di quello che le sue parole stanno per provocare nella città di Cleveland. Quando parla della sua città e dei suoi tifosi spesso guarda da altre parti, si inumidisce le labbra e si schiarisce la voce, mostra segni di insicurezza, mentre nelle risposte precedenti nel parlare di sé e di tutto il “processo” si era mostrato sicuro, spedito, per quanto molto teso. Ora, parlando della sua decisione, appare invece insicuro e perde il contatto visivo diretto con Jim Gray, come se rivolgersi all’intervistatore volesse dire parlare direttamente alla città che stava per lasciare.

- Così l’ultima volta che hai cambiato la tua idea è stato ieri?
L’ultima volta che ho cambiato idea è stato probabilmente nei miei sogni. E quando mi sono svegliato questa mattina sapevo che era la decisione giusta.

In questa risposta di LeBron bisogna chiedersi ancora che tipo di messaggio volesse farci arrivare: perché rivelarci che ha cambiato continuamente la sua idea e che ha scelto quella notte “nei suoi sogni”? Vuole farci sapere che era indeciso fino all’ultimo? Vuole farci capire quanto è stato doloroso pensarci e di quanto ha sofferto in quei giorni e in quelle notti? E se è questa l’idea che sta dietro, fondamentalmente, al telespettatore cosa interessa? Questo fatto non aiuterà a farlo apparire più buono o umano agli occhi del tifoso medio in ogni caso. Perché rivelarlo?

- Quindi la tua prossima squadra, che annunceremo tra pochi minuti, già conosce la tua decisione?
L’hanno appena scoperto.

- L’hanno appena scoperto?
Sì.

- Così le altre cinque che stanno aspettando sulle spine non lo sanno, ma apprenderanno la tua decisione da questo show?
Esatto.

C’è una frase da sottolineare («annunceremo tra pochi minuti»): una precisazione, non saprei dire fino a quanto premeditata, da parte di Jim Gray su quanto manca all’annuncio della scelta. Il presentatore pare aver intuito che ci stanno mettendo troppo tempo e forse vuole suggerire al telespettatore di rimanere incollato al televisore in attesa. Inoltre, segna l’inizio della preparazione alla parte centrale dell’intervista, ovvero quella dell’annuncio vero e proprio, aperta con la rivelazione che solo la sua prossima squadra è a conoscenza della sua scelta, mentre le altre no. Anche qui, vista a posteriori, questa rivelazione è un danno d’immagine non indifferente e una delle principali critiche che gli sono state rivolte, ovvero di non aver avuto il coraggio di comunicare di persona il suo addio a Cleveland-anche se pare che un membro del suo entourage abbia chiamato i Cavs comunicando la sua scelta appena prima della messa in onda del programma, ma sembra solo una toppa per rappezzare un buco veramente grosso.

- Chi ti ha consigliato di più e chi ha avuto l’influenza più grande durante questo processo?
Ho ricevuto un sacco di consigli dai miei amici e familiari. Il mio agente, Leon Rose, è stato grande. Un sacco di persone a cui io mi rivolgo in un momento di bisogno o per una consulenza, che mi hanno guardato e mi hanno detto che, in ultima analisi, bisogna convivere con la propria decisione e bisogna fare ciò che è meglio per sé stessi, per la propria famiglia e per essere, in ultima analisi, felici.

Chi consiglia LeBron James? Chi lo ha portato a gestire in questo modo tutta la free agency? Chi lo ha portato a scegliere Miami? Chi gli ha consigliato di fare The Decision? Si tratta di questioni sollevate spesso riguardo The Decision. Vengono citati solo Leon Rose e, successivamente, sua madre, ma il nome su cui si sono concentrate tutte le voci “peggiori” riguardo a quelle settimane è quello di Maverick Carter, suo amico d’infanzia, CEO e braccio destro. Il solo fatto che LeBron riveli che molte persone gli hanno dato dei consigli è indicativa di alcune cose: la prima, che James non era sicuro di quello che stava per fare; la seconda, che tante, forse troppe, persone girano intorno a lui e probabilmente “gli danno i consigli sbagliati”, come si è soliti dire in questi casi; terzo, che LeBron non ha attorno a sé persone capaci di dirgli “no”: qualsiasi persona con esperienza in campo mediatico avrebbe potuto prevedere tutta la pubblicità negativa che avrebbe comportato fare una scelta del genere, soprattutto se gestita in questo modo. Le dichiarazioni negli anni successivi a quella notte hanno portato James a percorrere strade diverse, probabilmente grazie a persone diverse.

- Qual è stato il fattore principale, il motivo principale della tua decisione?
Penso che il fattore principale e la ragione principale della mia decisione sia avere la migliore opportunità per vincere, per vincere subito e per vincere anche in futuro. Vincere è una cosa enorme per me. Jim, lo sai fin da quando ero un
rookie o addirittura al liceo, abbiamo sempre parlato su quale fosse la cosa numero uno per me: aiutare i miei compagni di squadra a diventare migliori e semplicemente vincere. Ho fatto alcune grandi cose nei miei sette anni, e voglio continuare a farle.

Il concetto, ribadito in maniera convinta, è quello di voler vincere, a tutti i costi, anche negli anni futuri. È interessante però l’ultima frase: la dice molto in fretta, quasi pentendosene subito, perché anche a lui forse è sembrata fin troppo arrogante. Una delle regole del mondo della comunicazione sportiva è evitare di autocelebrarsi, lasciando che gli altri ti celebrino, e rimanere sempre umile. Per quanto sia effettivamente vera-LeBron aveva già vinto due titoli di MVP e trascinato i Cavs in Finale NBA nel 2007-quella frase non può che suonare arrogante, soprattutto alla luce del fatto che non ha ancora fatto l’unica cosa veramente “grande”, ovvero vincere l’anello.

- Quanto sei andato in profondità dentro te stesso per trovare un’equazione che ti porterà a vincere?
Una cosa che non si può controllare è che non si sa mai [se alla fine vincerai o no]. L’unica cosa che puoi fare è metterti nella posizione in cui ti senti di avere la migliore opportunità [per vincere]. Se dicessi che posso vincere un campionato l’anno prossimo o l’anno dopo… quelle sono cose che non sai fino a quando non vai là fuori e giochi. Ma bisogna mettersi nella giusta posizione per essere in grado di competere [per il titolo] e raggiungere gli obiettivi che ti sei prefissato.

È la prima risposta nella quale si mette a gesticolare: prima era una maschera di ghiaccio. Si vede che è un messaggio a cui tiene molto, ci tiene a farlo capire a casa, e su questo concetto si basa la sua “tesi difensiva”: lui vuole vincere, e la scelta di andare a Miami lo mette nella miglior posizione per farlo. E quella idea è indiscutibile, anche perché i fatti gli hanno dato ragione. Ma non è la scelta di andare agli Heat a essergli imputata, quanto il modo con cui è stata gestita la vicenda. Ora si passa al momento più importante della serata.

- Hai dubbi sulla tua decisione?
[pausa] Mmm… No. Non ho nessun dubbio.

- Ti piacerebbe dormirci ancora un po’ su, o sei pronto a prendere questa decisione?
Ho dormito abbastanza. O meglio, [non ho più voglia del]la mancanza di sonno.

- Ti mangi ancora le unghie?
Solo un po’. Non molto, ultimamente.

Adesso sono tutti gli altri a mangiarsi le unghie.

Queste ultime tre domande di Jim Gray sono quelle che distruggono, definitivamente, la sua reputazione, che già non era particolarmente cristallina. Nel 1999 fu protagonista di un’accesa intervista con Pete Rose nella notte in cui venne indotto nella squadra del secolo. In quell’occasione Gray riportò a galla una storia di scommesse nella quale il giocatore era stato implicato, lanciandosi in una serie di domande molto insistenti, che secondo l’opinione pubblica furono totalmente fuori luogo. Gray era anche famoso per essere il giornalista di riferimento di Kobe Bryant e di tante altre star del mondo dello sport, come Mike Tyson e Dennis Rodman. La sua tendenza, solitamente, era quella di mettersi sempre al centro dell’attenzione e anzi, si dice che la prima imbeccata per fare The Decision fosse arrivata proprio da lui in un colloquio informale con Maverick Carter durante le Finali NBA del 2010. È da notare che da quel giorno in poi la carriera giornalistica di Jim Gray è sostanzialmente finita.

In un momento del genere, con tutto il mondo che aspetta quella semplice, unica domanda, lui chiede se avesse ancora dubbi (cosa avrebbe dovuto rispondere LeBron, di averne? In diretta mondiale?), se gli sarebbe piaciuto dormirci ancora un po’ su (perché dovrebbe?) e se si mangiasse ancora le unghie (talmente strampalata che anche LeBron lì per lì non sa cosa rispondergli). Anche a cinque anni di distanza si può sentire l’intero pubblico televisivo che esplode in un unico, grande urlo contro Jim Gray e le sue domande inutili, in un momento tanto delicato. Finalmente arriva l’unica domanda importante della serata.


- Quindi credo che sia arrivato il momento per loro di smettere di tormentarsi. La risposta alla domanda che tutti vogliono sapere: LeBron, qual è la tua decisione?
In questo autunno… questo è molto difficile. In questo autunno porterò i miei talenti a South Beach e mi unirò ai Miami Heat.

Come se non aspettasse nient’altro da giorni, LeBron parte in quarta dicendo subito «in questo autunno». Poi si ferma, forse ricordandosi di dover aggiungere «questo è molto difficile», anche se il motivo non è del tutto chiaro: che messaggio vuole farci arrivare con quell’inciso, nel momento più importante della sua carriera? Quel concetto di difficoltà, dubbi e ansie è già stato espresso più volte, anche se non è riuscito a creare empatia nei suoi confronti. Vuole essere una sorta di scusa verso Cleveland, come a dire “quello che sto per dire e fare non è facile per me nel profondo, ma devo farlo in ogni caso”?

Poi ricomincia da capo: «In questo autunno porterò i miei talenti a South Beach e mi unirò ai Miami Heat». Da notare l’ordine con cui viene pronunciata questa frase: prima South Beach, poi i Miami Heat. E ancora: non andrà semplicemente in uno dei luoghi più “glamour” d’America, ma porterà “i suoi talenti”, le sue qualità, le sue abilità nel basket, la sua forza, la sua superiorità. Una frase che è stata inevitabilmente recepita come molto arrogante e che ha dato il colpo di grazia all’immagine mediatica costruita fino a quel momento. Dopo quella frase nulla sarebbe stato uguale.

Nel cercare di trovare una logica a quella che è sembrata solo arroganza, a mio modo di vedere l’obiettivo del team di LeBron era proprio quello di far risaltare quella frase e renderla l’highlight della serata, un “instant classic” che entrasse direttamente nella testa di tutti per non uscirci più. Se questo era il loro obiettivo-ovvero “fare la storia”, indipendentemente se nel bene o nel male-allora hanno raggiunto il loro scopo, perché quella frase è entrata tra i modi di dire americani. Stando a Urban Dictionary, l’espressione è entrata nello slang come sinonimo di “masturbarsi” (ok, per UD sono tutte metafore sessuali, ma tralasciamo) ed è tutt’ora una delle più citate nel mondo dello sport, nonché uno dei principali motivi di scherno da parte dei suoi haters.

Resta il fatto che si è trattata di una delle frasi peggio costruite e riuscite della storia, specialmente per il contesto in cui è stata detta: un’ostentata autocelebrazione in diretta mondiale.

- I Miami Heat? Questa era la conclusione a cui sei arrivato quando ti sei svegliato questa mattina?

Questa è stata la conclusione a cui sono arrivato quando mi sono svegliato questa mattina.

- Perché?
Come ho detto prima, sento che andare da loro possa darmi la migliore opportunità per vincere per più anni. Non solo per vincere in regular season, per vincere cinque partite di fila o tre partite di fila. Voglio essere in grado di vincere tanti titoli. E sento di poter competere ogni anno laggiù.

Ancora una volta, il punto su cui decide di basare la sua giustificazione è la vittoria finale, non solo per un anno, ma per anni multipli. Qualche secondo prima, però, aveva citato South Beach, ovvero il glamour, come luogo dove “portare i suoi talenti”. Non ha detto “mi unirò a Wade e Bosh per giocare e vincere un titolo con i Miami Heat”, ma “porterò i miei talenti a South Beach”-dando un’impressione completamente diversa da quella che avrebbe voluto, o dovuto, dare. In altre parole, al cuore della scelta di LeBron sta veramente la necessità di dover vincere un titolo. E i Miami Heat, con Wade e Bosh, erano la migliore opzione per vincere ripetutamente. Solo che ha sbagliato clamorosamente il modo di far intendere questa cosa, non rimarcandola al momento dell’annuncio vero e proprio, ma citando piuttosto il glamour di South Beach. Un autogol di proporzioni epiche.

- È stato sempre il tuo obiettivo andare a giocare con Dwyane Wade e Chris Bosh?
Beh, voglio dire, non vedo l’ora di farlo. Però dire che è sempre stato nei miei piani… no, perché non ho mai pensato che fosse possibile. Ma le cose che i Miami Heat hanno fatto per liberare spazio salariale ed essere in grado di mettersi in questa posizione quest’estate per averci tutti e tre… era difficile da rifiutare. Questi sono due grandi giocatori, due dei più grandi giocatori che abbiamo nella NBA oggi. E sai, aggiungendo me, saremo una squadra davvero forte.

Sceglie con cura le parole da dire e, nonostante la prospettiva di giocare con Bosh e Wade sia esaltante, non appare incredibilmente entusiasta di giocare con gli altri due, almeno non subito. Dà quasi l’impressione che accettare la possibilità di giocare con due così fosse “un’offerta che non si può rifiutare”. Come se non se la fosse sentita di dire di no, nonostante sapesse a cosa sarebbe andato incontro. L’ultima frase, poi, è una cosa che di solito si lascia dire agli altri e si evita di dire in prima persona, per un mero fatto di umiltà. È palese che saranno forti tutti assieme, non c’è bisogno di sottolinearlo.

- Voi tre ora condividerete i riflettori e le luci della ribalta. E per certi versi tu stai andando nella squadra Dwyane Wade. Lui è Miami. Ha vinto un titolo con loro. Come pensi che sarai in grado di adattarti e come gestirai il fatto di non essere più il protagonista principale per tutto il tempo?
Per me non si tratta di condividere le luci della ribalta. Sai, tutti avranno i propri riflettori puntati e tutti dovremo fare ciò che è meglio per la squadra. Arrivati a questo punto, D-Wade non è un ragazzo egoista. Per essere in grado di avere Chris Bosh e LeBron James, per accoglierci nella sua squadra, non si può essere individualisti. Perché se così fosse, D-Wade non ci avrebbe chiesto di unirsi a lui, e noi non avremmo chiesto a lui se gli fosse piaciuto giocare con noi. Non si tratta di individui. Si tratta di una squadra, è così che si gioca a basket.

Questa è una delle poche domande difficili che Jim Gray gli propone, ovvero quella su come condividere “le luci della ribalta” con Wade e Bosh. La frase sottolineata è quella che tutti gli vorrebbero fare, ovvero come sarebbe riuscito ad accettare il fatto di essere andato nella “squadra di un altro”-un tema molto importante nel basket americano, ovvero quello di essere il maschio alfa del branco o il primo violino di una squadra. LeBron non risponde direttamente alla questione, spostando il discorso sulla condivisione e sui concetti di squadra, rimarcando come Wade sia un ragazzo disponibile ad avere Bosh e LeBron (si cita in terza persona, non sarà l’ultima volta) nella sua squadra. È anche vero che nel corso della sua carriera LeBron non ha avuto atteggiamenti da superstar in campo, ma, anzi, è sempre stato un team guy. Si è sempre impegnato nel rendere migliori i compagni attorno a sé passando sempre il pallone e facendo sempre la scelta giusta.

- Come si fa a spiegare tutto questo alle persone in Cleveland?
Ehm… [pausa] Voglio dire, è una cosa che prendo sul personale. Sai, è difficile da spiegare, ma ho dato tutto il mio cuore nei sette anni che ho passato in questa franchigia, in quella città. Voglio dire, quei 20.000 tifosi che sono venuti ogni sera al palazzo mi hanno visto crescere da un ragazzino di 18 anni a un uomo di 25. E non avrei mai voluto lasciare Cleveland. Il mio cuore sarà sempre in quella zona. Ma sento che la sfida più grande per me sia andare avanti.

Questa è la parte più difficile dell’intervista, ovvero quella che tocca il tema di Cleveland. LeBron appare palesemente mortificato, tanto che evita il contatto visivo diretto con Jim Gray e molto spesso si ferma dicendo “ehm…” per pesare bene le parole che sta per dire, o per cercare quelle più giuste per esprimere i suoi sentimenti. Sono i momenti in cui la maschera che ha indossato fino a quel momento inizia a mostrare le prime crepe, anche se mantiene l’aura seriosa tenuta fino a quel momento e ricorda con affetto i momenti passati con i Cavs. Dal punto di vista dei tifosi di Cleveland, però, la frase «non avrei mai voluto lasciare Cleveland» suona come una presa in giro, perché se davvero lo avesse voluto sarebbe potuto rimanere e giocare nella sua squadra per il resto della sua carriera, anche senza vincere mai un titolo. L’ultima frase è interessante: LeBron parla della sua scelta di andare a Miami come “la sfida più grande” e di “andare avanti”, come se si stesse lasciando indietro un capitolo della propria vita e, in un certo senso, stesse per affrontare un passo avanti come uomo, prima ancora che come giocatore. A pensarci bene, James non è mai uscito dall’Ohio: in tutta la sua vita ha sempre vissuto tra Akron e Cleveland e può essere che la scelta di andare in Florida potesse, tra le tantissime variabili, essere anche una “scelta di vita”.


Lebron Decision

- Qual è stato il motivo principale per lasciare i Cavaliers?
Non è così che la vedo io, il punto di tutto questo non è lasciare Cleveland. Il punto è unire le forze con altri due ragazzi che io sento di rispettare più di tutti gli altri. E sento che abbiamo una grande occasione per vincere e vincere per più anni. Come ho detto prima, questo è un momento molto emotivo per me. So che è emotivo per i tifosi e anche per la zona. E se fosse un mondo perfetto, mi sarebbe piaciuto rimanere, perché ho fatto tante grandi cose per quella squadra, e loro hanno fatto tante grandi cose per me. Ma sento che è arrivato il momento di cambiare.

La frase del «se fosse un mondo perfetto» appare troppo fatalista, come se volesse trovare una giustificazione “superiore” rispetto alla sua singola volontà di andare a Miami, e può giustamente essergli imputata dai tifosi dei Cavs come l’ennesimo schiaffo in faccia alla città che lo ha cresciuto e amato come nessun altro. Le reazioni che ha provocato nei tifosi di Cleveland sono largamente imputabili alle frasi di questa parte dell’intervista, che sono probabilmente la parte che LeBron vorrebbe cambiare di quella serata più di ogni altra cosa, perché hanno completamente distrutto la sua reputazione tra la sua gente-almeno prima del suo ritorno.

- Quale pensi che sarà la reazione dei tifosi laggiù, e vivrai ancora ad Akron in futuro?
Non ne sono sicuro. Sai, potranno avere sentimenti contrastanti, naturalmente, e ci saranno un sacco di reazioni emotive di gente che non capisce perché [sto andando via da Cleveland]. E poi ci saranno i veri amici che mi vogliono bene per quello che sono. Io sono nato a Akron, Ohio, e continuo ad amare Akron, Ohio, sarà sempre casa mia. Vivrò per sempre là, sarà per sempre casa mia.

In questa frase si nota la netta distinzione che LeBron fa tra Cleveland e Akron: per lui Cleveland è sostanzialmente la città dove “lavora”; Akron, invece, è la città dove “vive” e dove continuerà a vivere per il resto della sua vita. Non a caso, successivamente, quando i giornalisti gli chiederanno come si fosse sentito a lasciare “casa”, lui risponderà che casa sua è Akron, non Cleveland, e che quando era ragazzino lui e i suoi amici non sopportavano quelli di Cleveland, chiamandoli “fighetti”. È un prendere le distanze e ribadire le sue origini, anche se in questo contesto-davanti al pubblico nazionale e internazionale-è una distinzione che ha poco significato.

Erik Spoelstra è l’allenatore. Dwyane Wade e Chris Bosh hanno detto che sarà l’allenatore. Ti è stato detto che sarà il tuo allenatore o Pat Riley, nei vostri incontri, ti ha detto che potrebbe tornare in panchina?

No. Erik Spoelstra sarà l’allenatore. Questo è quello che ha detto Pat. E Erik è un grande giovane allenatore. Ha un grande maestro in Pat. Se hai un problema da risolvere, lui è una grande persona a cui chiedere consiglio, perché Pat ha vissuto di tutto, è vissuto ai livelli più alti e quelli più bassi. Lui sa tutto di tutto. Ma io rispetto Erik e rispetto lo staff tecnico. Rispetto coach Spoelstra e tutto quello che ha intenzione di fare per cercare di metterci nella giusta posizione per vincere.

Risposta abbastanza standard, ma è interessante notare le belle parole spese per Pat Riley (il vero artefice dell’arrivo di LeBron a Miami) e le parole di circostanza per coach Spoelstra, con il quale il rapporto non sarà sempre semplicissimo, almeno all’inizio. Ovviamente punta molto sul concetto di rispetto, che bisogna dare a tutti quelli che vogliono aiutarlo per arrivare a vincere.

- Rifaresti di nuovo tutto quello che hai fatto?
Tutto questo è molto duro. È tutto molto difficile, perché senti di aver deluso un sacco di persone. Di aver creato un sacco di aspettative tra la gente. È stata una decisione difficile, perché mi ritengo una persona fedele. Una cosa che mia madre mi ha detto mentre stavo affrontando questo processo, che poi è quello che alla fine mi ha aiutato a prendere la mia decisione, è che bisogna fare ciò che è meglio per sé stessi e quello che ti rende felice, perché nessun altro può vivere con le conseguenze della tua decisione. Ma una volta che ho parlato con mia madre, la persona nella quale cerco sempre una guida, è stato facile [scegliere].

Il ricordo di Cleveland è palese all’inizio di questa risposta: LeBron tentenna, forse iniziando a realizzare per davvero cosa significa “deludere un sacco di persone” e cosa significa andare via senza aver vinto il titolo che tutti si aspettavano che lui portasse in città, riscattandola da un destino che li vede da sempre perdenti. Un altro concetto che lui sente di dover rimarcare è quanto è fedele, perché «lui detesta che qualcuno gli possa dire che non si ricorda da dove viene» (cit. Federico Buffa).

- Mi hai detto che [tua madre] ha avuto una grande influenza quando l’hai chiamata questa mattina. Non credevi che la reazione che avrebbe avuto lei sarebbe stata quella che poi hai realmente ottenuto? Puoi condividere con noi ciò che ti ha detto questa mattina?

Assolutamente. Come ho detto, quando ho chiamato mia madre, pensavo di sentire una reazione diversa. Invece pensava che fosse una grande scelta, perché sentiva che alla fine sarei stato felice. Non si trattava di vivere a Miami. Non si trattava di giocare al fianco di Chris, giocare accanto a Dwyane-anche se lei crede che siano due grandi giocatori di basket, perché ama il gioco. La cosa più importante è che sentiva che questa scelta mi avrebbe reso felice. Quando ho sentito questo da mia madre, ho trovato il sollievo che stavo cercando da tutto questo processo.

LeBron chiude la sua intervista con il racconto del colloquio avuto con sua madre-del quale, sinceramente, interessa a poche persone se non quelle della sua cerchia e quelli che conoscono le difficoltà nelle quali sono passati loro due. Può essere che l’immagine che voglia far passare sia quello dell’uomo “di famiglia”, ma arrivati a questo punto non lo aiuta di certo a cambiare la sua percezione. Alla gente interessa solo quanto è stato detto e fatto prima della conclusione di questi dieci minuti nefasti che hanno cambiato la sua carriera.

Gray lascia un LeBron visibilmente più sciolto nelle mani dei giornalisti da studio. Lì prende la parola Michael Wilbon, che inizia una serie di domande articolate decisamente più spinose («Hai parlato con Dan Gilbert?» «Sei pronto a prenderti i fischi in tutta America?» «Un titolo in casa tua non sarebbe stato più dolce rispetto a uno vinto a Miami?» «Quanto ha influito il contratto collettivo in scadenza nella tua scelta?») ma sono domande che pochi ascolteranno. Dopo l’annuncio il mondo è già intento a commentare la sua scelta sui social network, e in pochi prestano ancora attenzione alla trasmissione. Molti, a dir la verità, potrebbero aver già cambiato canale.

La seconda parte dello show è quella in cui il vecchio LeBron torna a essere sé stesso: dopo essersi liberato del peso della sua Decision, appare teso, ma non rigido come prima, risponde con precisione a tutte le domande con la sua classica parlantina sciolta e tiene botta alle insidie di Wilbon e Barry. Dal suo volto trasuda comunque molto poco, nonostante i primissimi piani della regia lo inquadrino perennemente. Jim Gray scompare dallo studio dopo l’annuncio, e prima era stato inquadrato solo due volte; il pubblico assiste ma è come se non ci fosse, completamente muto-tanto che viene da chiedersi perché mostrarlo se non può nemmeno dare l’impressione di rappresentare il pubblico da casa.

Solo a un quarto d’ora dalla fine dello speciale LeBron ha un sussulto, quando in video appaiono le immagini della sua maglietta bruciata a Cleveland. La sua risposta, però, è glaciale e composta: «Non posso farmi coinvolgere da questo. Voglio dire, l’unica cosa che non volevo fare era una scelta dettata dalle emozioni. Quello che volevo fare era la scelta migliore per LeBron James e quello che farà LeBron James per rendere felice sé stesso». Queste parole e l’uso della terza persona riferita a sé stesso sono la degna conclusione di una serata nata male e terminata peggio, nonostante alla fine LeBron provi ad addolcire la sua immagine con un messaggio finale per i tifosi di Cleveland all’ascolto. Ma ormai era troppo tardi.

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