Eroi mai per caso

di CHRISTIAN GIORDANO, Black Jesus

Qui si parla di «eroi», e le virgolette, più che necessarie trattandosi di basket, saranno da qui in poi sottintese.

Premessa. Tempo fa il giovane direttore della prima pay-tv nostrana distribuì alla redazione una circolare dal titolo esemplificativo, Indicazioni per le telecronache. In quelle linee guida i telecronisti venivano caldamente invitati ad evitare il ricorso non solo alla parola eroe, ma a tutto un gergo bellico ormai comune nel giornalismo, sportivo e no, e fuori luogo già prima dell’Undici settembre figurarsi dopo. Eccone, testuale, lo stralcio in questione: «Termini da evitare in SRV [servizi, ndr], TC [telecronache], BC [bordo campo]: (…) GENERICI – (…) eroe (non ci sono eroi in nessun avvenimento sportivo); dramma/drammatico (il fatto accaduto deve essere proprio eccezionalmente negativo, ma anche in questo caso meglio cercare di evitare completamente questa parola: non ci sono drammi nello sport) (…)». Parole nette e precise. Tenetele a mente: ci serviranno.

Tornando a noi, qualche collega più o meno illustre, ma evidentemente poco a suo agio con la lingua d’oltremanica e men che meno con quella d’oltreoceano, incappa sovente in sesquipedali sfondoni confondendo heroics, prodezze, con heroisms, eroismi. Qui pur non tralasciando le prime, ci soffermeremo sui secondi. Quanto alle virgolette, siamo intesi.

In tema di valore e forza d’animo straordinari siamo a raccontare l’incredibile capacità che ha lo sport, e nella fattispecie il basket NBA, di tirare fuori il meglio dai suoi primattori e cioè dagli atleti. Talvolta le loro storie assurgono a leggenda: epiche dimostrazioni di autentico coraggio, abnegazione, spirito di sacrificio la cui eco trascende gli angusti confini dello sport. Tra i classici del genere, abbiamo scelto cinque momenti di eroica determinazione in cui professionisti iperaffermati hanno saputo essere fonte d’ispirazione per la propria squadra, non necessariamente trascinandola alla vittoria.

King, Thomas, Bird, Jordan sono nomi che parlano da soli. Ma se è di eroi NBA che si parla, parafrasando il Mario Ferretti dell’epopea coppiana, nella storia di “The League” c’è «un uomo solo al comando, la sua maglia è biancobluarancio, il suo nome è… Willis Reed». Secondo l’ex presidente dei Knicks, Michael Burke, «i tifosi dei Knicks hanno un legame del tutto personale nei confronti di Willis Reed. Lui è sempre il loro capitano, una figura eroica nel senso classico del termine. I newyorchesi in un modo o nell’altro vengono a sapere di come Willis, zoppo com’era, sia passato direttamente dal lettino del massaggiatore alla vittoria nel campionato del 1970. Quando Joe Di Maggio scendeva in strada, o Jack Dempsey entrava in un ristorante, erano ancora “New Yorkers”. E Willis ci va vicino».

Già. A più di trent’anni di distanza, per i newyorchesi di ogni età Reed è sempre “The Captain”. Ancora oggi è considerato una figura quasi di culto, un Mito mai scalfito dal tempo, un’icona: del potere della volontà più che della volontà di potenza. Riavvolgiamo il nastro della memoria, allora. Scopriremo perché.


Willis Reed, Natural Born Leader
8 maggio 1970, «Madison Square Garden», New York
Finali NBA, gara-7, New York Knicks vs. Los Angeles Lakers 113-99

Oggi avremmo decine di telecamere sulla porta dello spogliatoio se non addirittura dentro. Dai talk-show radiotelevisivi rimbalzerebbe subito la voce che Willis Reed avrebbe giocato, anche se non riusciva nemmeno a camminare. La grancassa dei media avrebbe prima pompato e poi distrutto il momento, la grande attesa; e il poco pathos rimasto verrebbe servito a caldo, via-satellite, nei salotti d’America e del resto del mondo, ma con tutt’altro aroma, più simile a quello del caffè liofilizzato che a quello dell’espresso. Difficile dire se più o meno pregiato, di sicuro diverso.

Flashback. New York viene dalla sua prima stagione da sessanta vittorie e in regular season ha inanellato una striscia-record di 18 successi consecutivi. Nei playoff, letteralmente trascinata dal centro Willis Reed, alla migliore stagione della sua carriera, si sbarazza dei Baltimore Bullets (in sette gare) e dei Milwaukee Bucks (in cinque) prima di raggiungere la finale contro i Los Angeles Lakers; per i Knicks una sorta di rivincita dai tempi della doppia sconfitta subita nel ’52 e nel ’53, quando i «lacustri» ancora erano a Minneapolis.

Gli uomini di coach Red Holzman detengono il miglior bilancio della Lega (60-22) e quindi il vantaggio del campo. All’epoca il formato è il 2-2-1-1-1. Le prime due recite al Madison Square Garden hanno un copione analogo che viene interpretato a parti invertite. In gara-1, i padroni di casa prendono il largo, si fanno raggiungere e poi la spuntano nel finale, grazie anche allo strepitoso Reed (37 punti, 16 rimbalzi e 5 assist). Tre giorni dopo è Los Angeles a condurre le danze prima di subire la rabbiosa rimonta newyorchese, che però si arresta a 22” dalla sirena, quando la stoppata di Chamberlain a Reed di fatto impatta la serie. Sull’1-1 si va sulla West Coast.

Gara-3 e gara-4 sono al cardiopalma e per deciderle occorre un supplementare. Nell’una New York, con il miglior Reed della serie (38 punti contro i 21 di Wilt) espugna LA, nell’altra Baylor (30) e soprattutto West riportano la serie al MSG sul 2-2. Nell’occasione, “Mr. Clutch” si supera: 37 punti, 18 assist e 5 rimbalzi in 52’ di gioco e per di più con un pollice slogato. Il resto è storia.

Gara-5. A poco più di 8’ dal termine del primo quarto, con i Knicks sotto 25-15, Reed riceve il pallone all’altezza della lunetta e viene affrontato da Chamberlain. Nel girarsi sulla sinistra per andare in entrata lungo la lane [la corsia centrale, ndr] e concludere in layup, Willis si procura un doppio strappo alla coscia destra e rimane a terra, contorcendosi dal dolore. Sull’altro fronte l’azione prosegue mentre coach Holzman urla agli arbitri di interrompere il gioco. New York perde il suo Capitano ma vince l’incontro (107-100). Il trucco? Doppio. Attacco 3-2 senza pivot e Chamberlain tenuto a zona (mascherata, of course). Ma in gara-6, a Los Angeles, l’incantesimo si rompe. Senza Willis a limitarlo, Wilt dilaga (45 punti e 27 rimbalzi) e con lui i Lakers: Knicks travolti 135-113. La pesante sconfitta rimanda l’assegnazione del titolo a gara-7, l’8 maggio al Garden. La più classica delle «do-or-die situations», vincere o morire. A questo punto i nobili precetti del diretur sarebbero già saltati.

Con Reed fuori, per New York tutto sarebbe perduto. Con il centro anche solo a mezzo servizio, si può ancora sperare. Nessuno però ne conosce davvero lo stato di salute, forse neanche lui. A due ore dalla gara decide di scoprirlo. Mette piede nell’arena immersa in un silenzio irreale e dopo una mini sessione di tiro decide di giocare. Poi informa Holzman e la squadra, e l’umore dello «spogliatoio» schizza ad altitudini siderali. Rinfrancati, i Knicks completano il riscaldamento. Willis invece rimane nello stanzino del trainer per sottoporsi a due massicce infiltrazioni, una di cortisone e una di carbocaina, antidolorifico più potente e durevole della tradizionale novocaina. Più del dolore, però, a spaventare “The Wolf” sono le dimensioni dell’ago. «Era enorme. Credo di aver sofferto più per l’ago che per l’infortunio», dirà a cose fatte. Sull’altra sponda, le mani di West sono nelle stesse condizioni. Ma per lui, chissà perché, nessuno spargerà fiumi di inchiostro né solleverà oceani di retorica. Misteri dei media, specie se newyorchesi.

In mattinata i compagni Bradley e DeBusschere avevano chiesto a Reed di scendere in campo per una ventina di minuti, assicurandogli che poi la squadra ce l’avrebbe fatta da sola. Il Capitano non poteva né voleva tirarsi indietro, se non altro perché in certi casi pesa meno il rimorso che il rammarico. «Volevo giocare», ricorda. «Si trattava di vincere il campionato, il sogno di una vita. Non volevo ritrovarmi allo specchio, dopo vent’anni, a ripetermi che avrei dovuto almeno provarci. Non volevo ritrovarmi, un giorno, seduto sulla veranda con i miei nipotini, a dire a me stesso: “Se solo avessi provato a giocare, quella sera”».

Fino alle 19,30 di quel venerdì, Willis non sapeva nemmeno se sarebbe sceso in campo. Quindici minuti dopo era già una leggenda, e i Knicks si apprestavano a diventare per la prima volta «NBA World Champions».

Timoroso dell’assenza del proprio condottiero, il pubblico del Garden esplode quando, ad un minuto dalla palla a due, vede il proprio big man uscire dal tunnel degli spogliatoi e avviarsi lentamente verso l’estremità del campo occupata dai Knicks. Il boato che ne segue è da pelle d’oca. Per verificare la solidità delle fondamenta dell’arena più famosa al mondo non potrebbe esserci test migliore. I compagni si fermano a guardare Reed, casualmente proprio mentre infila il suo primo tiro di riscaldamento: un presagio? A bordo campo, perfino Chamberlain interrompe il warm-up. Così gli altri Lakers. La stessa scena innesca reazioni opposte: da una parte il presentimento dell’ineluttabile, dall’altra la scarica adrenalinica di New York. «L’intera squadra dei Lakers si era fermata a fissarlo», è l’istantanea colta da Frazier. «E quando li ho visti interrompere il riscaldamento, qualcosa mi ha detto che sarebbero stati nostri». Sarà buon profeta.

«I can’t go to my right all that well», faccio fatica ad andare a destra, borbotta Reed mentre esce dal campo passando alle spalle di Chamberlain, al quale strappa un mezzo sorriso. Per Willis, mancino puro di piede e di mano – nel pugilato l’avrebbero ostracizzato con l’etichetta di southpaw, «guardia destra» –, non era una novità. Da quella parte, infatti, non c’era mai andato con particolare naturalezza, neanche prima dell’infortunio.

Dopo quel drammatico (ehm…) ingresso in campo, Reed va a saltare con Chamberlain per il tip-off ma sta fermo. In qualche modo il possesso è Knicks. Willis trascina la gamba malata e raggiunge il vertice dell’area, Frazier lo serve e Reed «mette» il jumper. Un minuto dopo, dai venti piedi, a conclusione di un contropiede nato da un suo rimbalzo difensivo, il centro infila il suo secondo e ultimo canestro. È fatta. “The Captain” non doveva giocare invece aveva segnato i primi quattro punti della gara.

Quando abbandona definitivamente il campo, a 3’05” dall’intervallo, i Knicks conducono 61 a 37. Willis chiude con 2/5 al tiro, 3 rimbalzi e 4 falli: il tutto su una gamba sola. Ma la sua sola presenza, durata appena 27, pregnantissimi, minuti, era quanto serviva a New York per vincere la partita (113-99) e il tanto agognato titolo NBA.

Oscurata dall’emotività scatenata a profusione dall’eroico Reed, una delle più grandi prestazioni mai viste nella storia dei playoff: quella di Walt Frazier, 36 punti, 19 assist, 7 rimbalzi, 12/17 dal campo e un immacolato 12/12 dalla linea. Se Reed (MVP di regular season, dell’All-Star Game e delle Finali) fu il cuore del primo, storico anello dei Knicks, “Clyde” ne fu la mente e il braccio.

Scelto da New York al secondo giro nel Draft NBA del 1964 (decima pick assoluta), Reed era la testata d’angolo dello straordinario collettivo costruito da Holzman. Il proverbiale gioco di squadra di quei Knicks si basava su tre imperativi. Il «See the ball, see the ball!» che il coach strillava ai suoi per farli concentrare in difesa e i celeberrimi «Move without the ball» e «Hit the open man». Seguire con lo sguardo il pallone, muoversi senza palla e pescare l’uomo libero: ecco i tre pilastri di uno dei più grandi complessi mai assemblati – e celebrati – nella storia della NBA. Una formazione il cui rapporto con i tifosi era davvero speciale anche perché, come sostiene Bradley, il competentissimo pubblico newyorchese aveva l’intelligenza di applaudire il «passaggio che portava al passaggio che portava al canestro». E se avevi un minimo di cuore, al Garden i 19500 che nella spessa nube di fumo di sigaro gridavano con tutto il fiato che avevano in corpo «Dee-fense! Dee-fense!», ti tiravano fuori anche l’anima.

«Ricordo sempre [di aver pensato] una cosa», racconta Willis. «Prima o poi avrei smesso col basket e me ne sarei stato seduto da qualche parte, magari in un lago a pescare, a ripetermi: “Ragazzo, lo sai, vorrei tanto che avessi giocato quella sera”. Non avrei lasciato che accadesse, perché quello era il mio momento. Era la nostra grande occasione». Colta al volo dai Knicks dell’eroico Capitano, per il quale, da tre decenni, si sprecano elogi pressoché unanimi.

Unica voce fuori del coro quella di Royce Webb, columnist del sito chicagoano SportsJones.com, che nella rubrica «Basketball Diary» scrive: «(…) Ammettiamolo, Willis Reed non ha fatto nulla di eccezionale. Bo Jackson [stella nel baseball e del football professionistici, ndr] ha giocato con un’anca fuori uso e quando non ce la faceva più, con una protesi artificiale. E nelle major leagues, realizzando alla prima battuta un fuoricampo. Quello è stato eccezionale. Wilma Rudolph riusciva a malapena camminare da bambina, eppure vinse tre ori nell’atletica alle Olimpiadi del 1960. Anche quello è stato eccezionale. Willis Reed no. Ha fatto quello che gli atleti fanno normalmente.

Ma noi abbiamo bisogno di icone, di semidei, di pietre di paragone culturali da poter condividere con gli altri. Abbiamo bisogno dei Paul Bunyan, degli Abramo Lincoln, delle Amelia Earhart. E dei Willis Reed.

Non sono infastidito che a Reed venga riconosciuto di aver fatto qualcosa che tutti avremmo fatto. Solo stupito. È sceso in campo zoppicando, ha segnato quattro punti ed è diventato una leggenda. Ne deduco che il tempismo sia davvero tutto».

Forse il severo Webb non ha tutti i torti. Forse, anche nello sport, e in particolare nel basket NBA, eroi ed eroismi sono altri. Esempi? Tanti da farci una Treccani. Peschiamo ad occhi chiusi a spasso nel tempo. Eroico Oscar “Big O” Robertson lo è stato per aver donato, nel 1997, un rene alla figlia Tia, anche se lui la pensa diversamente: «Non sono un eroe, solo un padre»; e non per la sua incredibile stagione 1961-62, chiusa con una tripla doppia di media (30.8 punti, 12.5 rimbalzi e 11.4 assist a sera). Eroici sono stati Alonzo Mourning e Sean Elliot (che nel ’99 un rene l’ha ricevuto, dal fratello Noel) per non essersi arresi a gravi malattie; Chris Mullin e John Lucas per essersi disintossicati dall’alcool; Michael “Sugar” Ray Richardson e George “Iceman” Gervin per aver fatto altrettanto con la droga. Eroici sono stati Charlie “Chuck” Cooper (primo nero scelto al Draft NBA, nel ’50), Earl “Big Cat” Lloyd (primo nero a giocare nella NBA) e Nate “Sweetwater” Clifton (primo nero a firmare un contratto NBA, con i Knicks) che infransero le barriere razziali, aprendo agli atleti afroamericani le porte di una Lega che oggi è Cosa Loro e che dopo averli a lungo banditi si affanna adesso a celebrarli. Eroico è stato Jack Twyman, grande giocatore più spesso ricordato per la solidarietà, spirituale e materiale, dimostrata al compagno di squadra e amico Maurice Stokes paralizzato da un terribile quanto banale incidente di gioco. Ma queste sono altre storie. Niente heroics qui, solo heroisms. Quanto alle virgolette, siamo intesi.
Christian Giordano, Black Jesus magazine, n. 1/2003

Commenti

Post popolari in questo blog

Dalla periferia del continente al Grand Continent

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?

I 100 cattivi del calcio