MaraDiego, 55 anni "esagerati"
Il 30 ottobre Diego Armando Maradona spegne cinquantacinque candeline di un'esistenza esagerata, roba che un essere umano normale potrebbe accumulare vivendo dieci volte tanto. E' stato Maradona a dispetto dell'autolesionismo praticato; uno sciamano colle scarpette allacciate e un pallone da calcio (o un'arancia...). Oppure, a scelta, l'ultimo dei Mohicani.
"Si no hubiese tomado droga. Hubiese sido un jugador de la puta madre."
Una montagna di cocaina, la dipendenza cominciò in Catalogna, le donnine, il "Chiagni e fotti" da capopolo sbilenco. Il Diego è venerato ma non è mai stato un santo.
Per MaraDiego vale, più di ogni altro campionissimo, la sindrome di James Brown. Anche se diventi un dioscuro per la tua gente, rimarrai povero fuori. Puoi fermare una rivolta nei ghetti con un appello in diretta tivù, ma non riuscirai mai a gestire quella follia che si chiama fama. Forse perché hai avuto troppa fame prima, quando eri un bambino di Elko o di Villa Fiorito. La povertà, come la morte, sta scritta sulla pelle.
Eroe dalla faccia sporca, Maradona non si può disgiungere dal tugurio dove crebbe, dai nonni (Mumo Orsi) e dagli zii (Omar Sivori) per estro e inventiva, e soprattutto da Napoli. Lui, uno scugnizzo nato per errore fuori dai confini di "una Pompei che non è mai stata sepolta."
Il romanzo sportivo di Diego sta giusto nei quattro capitoli della Coppa del Mondo che disputò, vittima e carnefice. La prima e la quarta con le formazioni più forti ma incompiute, la seconda e la terza con squadre meno scintillanti, di buon livello quella dell'86 che guidò - impareggiabile - al trionfo, invedibile, oscena, la Seleccion di Italia '90. Che arrivò miracolosamente in finale e perse una partita, colla Germania, impossibile da vincere. I suoi giocavano un futbol tremebondo ma le dinamiche FIFA del tempo, ammaestrando l'arbitro Codesal Méndez, decisero il rispetto di una sceneggiatura dove quelli brutti, sporchi e cattivi soccombevano comunque.
E così fu nella carriera postuma, poiché nel caso del Pibe de Oro in "Vedi Napoli e poi muori" c'è il senso della sua vita: chiamato per esigenze di cartellone in vista del Mondiale americano (1994), vedendo i primi incontri dell'albiceleste si resero conto, Havelange e soci, che quell'Argentina avrebbe potuto stravolgere la trama già stabilita.
Maradonesco, una medaglia d'oro al petto, essere ancora oggi l'unico positivo di nome all'antidoping nella storia della rassegna (o della fiction).
Maradona, nella Serie A che negli anni Ottanta impazzava, compì se stesso giocando (e imponendosi) contro le armate invincibili.
All'inizio una Juventus indistinguibile dalla Nazionale di Bearzot, fortissima, più Platini e Boniek. Il giocattolo per ricchi di Agnelli, il vero Re d'Italia, il mecenatismo che diventava "pane e circo".
Poi il Milan di Berlusconi, il macchinario calcistico - ed egotico - per eccellenza.
Il suo Napoli ebbe la vernice col vecchio Italo Allodi, il primo grande corruttore del movimento italiano, e si confermò con Luciano Moggi, l'ultimo Mefistofele di quella Pedata, sublimazione e caricatura dei metodi certificati da Allodi stesso.
Il sistema calcio era già altro: lo divenne coi lustrini e i fuochi artificiali di Berlusconi e Perez.
Si è fatto ribalta politica, soma mediatica, finanza creativa: debordando ovunque, ha perso definitivamente il suo senso. La sua morte accellerata porta a uno spettacolo che è l'emblema massimo della simulazione di ogni aspetto.
Ci sovviene una frase di Baudrillard: "Immaginate qualcosa di bello che abbia assorbito tutta l'energia del brutto: e avete la moda..
Immaginate il vero che abbia assorbito tutta l'energia del falso: e avete la simulazione.."
Sarebbe banale ridurre Diego ai sessanta metri di tango, palla al piede a mò di calamita, del secondo gol contro l'Inghilterra.
Amarcord, ne avremmo cento, ricordiamo una serata del Maradona tardo ma non troppo: Coppa Uefa 1989, semifinale di ritorno con il Bayern Monaco. Il Napoli giocava di rimessa, corto nella sua metà campo, aspettando l'attimo.
El Diez fu menato dai tedeschi per novanta minuti: oggi - coi regolamenti televisivi - gli altri rimarrebbero in sei o sette.
La biomeccanica di Maradona non aveva spiegazioni. Non era Di Stéfano o Cruijff, i fuoriclasse con due piedi due, ma sul prato portava dinamiche inusitate.
Il destro gli serviva da perno, nemmeno fosse il punto fermo di un compasso: baricentro basso, in equilibrio perenne, tutti i palloni giravano sul sinistro. Diego non prendeva solamente il tempo (giusto) sulla palla, ma lo sottraeva agli avversari e lo regalava ai compagni.
All'Olympiastadion mandò al bar gli avversari, di finte con la mancina, mezzi passi, accellerazioni improvvise, cambi di direzione, almeno una decina di volte.
Nel secondo tempo, con gli spazi allargati, il puparo col dieci sulla schiena si divertì a muovere i fili di ventuno pupi. Una ripartenza da terra, colle spalle alla porta avversaria e i glutei sull'erba, un assist millimetrico al compagno - che non vide bensì immaginò - quindici metri più avanti.
Un altro sulla rimessa con le mani di Giuliani, il portiere, al volo, di tacco, per innestare l'incursore De Napoli. Fece segnare una doppietta a Careca, uno vero, ma quella sera - malgrado il guardalinee ipovedente e le botte del Bayern - mise solo davanti ad Aumann persino Carannante, l'ennesimo Sancio Panza nella storia (picaresca?) di Maradò.
Nulla in comune con una scuola calcio (sic) ma la strada e il gioco nella sua pura essenzialità (l'anima). Aboliva d'istinto lo spazio temporale tra la decisione e il gesto, che diventava immanènte. Uno scherzo della natura: vederlo giocare è stato un mistero gioioso che pure le parole, a lungo andare, non riescono a penetrare. Ed è meglio così.
Pubblicato il 30 ottobre 2015 da Il Giornale del Popolo
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