Argentin e le due ruote, amore senza fine



di RENZO PULIERO
L'Arena, 26 marzo 2016

Moreno Argentin vanta un titolo mondiale e due italiani, 84 vittorie in carriera con gemme come la Liegi-Bastogne-Liegi (ben 4 volte), il Giro delle Fiandre, la Freccia Vallone (3 volte), il Giro di Lombardia, 2 tappe al Tour, 13 al Giro (dove è stato terzo nella classifica finale nel 1984 alle spalle di Francesco Moser e Laurent Fignon), 8 alla Tirreno-Adriatico. Ha vinto anche titoli italiani in pista, è stato dodici giorni in maglia rosa e azzurro in undici Mondiali. 

Classe 1960, dal 1981 al 1994 è stato un protagonista assoluto del ciclismo mondiale. Argentin è il «padrino», con Giorgio Furlan, del Trofeo Gino Visentini, la corsa per Under 23 Élite di Bagnolo di Nogarole Rocca, in scena il lunedì dopo Pasqua (28 marzo). «Devo tutto alla bici - dice -, mi ha fatto esprimere come atleta e come uomo, è stata una palestra di vita che consiglio a tutti. Ho ottenuto risultati belli, meravigliosi».

Verona ha conosciuto Argentin nel 1977 quando, da junior, vinse una gara a Pescantina. «Il ricordo - ammette - è sbiadito, ma di Verona ho un grande ricordo: nell’anno del Giro di Moser, 1984, sono entrato anch’io in Arena, salendo sul terzo gradino del podio. È stato un grande giorno. Sono arrivato "finito", ma c’ero anch’io in quel magnifico teatro, applaudito da tutta quella gente».

Il terzo posto aveva fatto sperare in un Argentin da corse a tappe?

«Una cosa che un atleta deve fare è capire, al più presto, i propri limiti e dove può arrivare. Già allora, ritenevo giusto specializzarmi. Le mie caratteristiche erano quelle di un corridore da corse di un giorno. Era il Belgio il mio territorio. Però, dovevo e volevo provare a fare classifica in un grande Giro, ma proprio quel terzo posto mi ha fatto capire che il mio posto non era lì».

Dieci anni dopo, nel 1994, ha aiutato il suo compagno di squadra Berzin a vincere il Giro...

«Tutti, in squadra, andavamo forte. Berzin era il giovane esordiente, con tanta voglia di imparare: gli abbiamo fatto tutti da "gregario", io, Bontempi, Ugrumov, Rijs, Furlan».

Poi, concluso il Giro, a sorpresa, ha smesso: eppure, quell’anno, aveva già vinto Freccia Vallone, tappa e classifica al Giro del Trentino e una tappa al Giro.

«Ma sentivo di non avere più la massima determinazione e la voglia di allenarmi 7-8 ore al giorno. Credo di aver smesso al momento giusto. Non dimentichiamo che ero al 14° anno di professionismo e quegli anni si facevano sentire».

Qual è la vittoria che più le è rimasta nel cuore?

«La prima "Liegi". Mi ha dato convinzione, lì ho rotto il ghiaccio, acquisito autostima e la consapevolezza di poter essere protagonista».

Rimpianti?

«Non ho mai vinto la Sanremo, l’ho inseguita, cercata con tutte le mie forze, non ci sono riuscito: sono stato secondo, una volta sono arrivato terzo, mai primo. Avrei dovuto avere ancora più convinzione».

Il giorno più bello?

«Quando vinci un Mondiale lontano da casa, come è successo a me a Colorado Springs nel 1986, l’emozione è altissima. Là ho coronato un sogno che avevo sin da bambino. E’ stata una giornata meravigliosa. Mi piace, poi, aver onorato la maglia iridata: il 1987 è l’anno in cui ho vinto di più».

I podi di Villach (2°) e Montello (3°) potevano diventare oro?

«A Villach, probabilmente, se ci fosse stato qualche compagno ad aiutarmi, si poteva riuscire a fare il bis. Più difficile sul Montello. Ho raccolto quanto seminato».

Qual è l’avversario che le ha dato più fastidio?

«Kelly, mi ha battuto a Sanremo, opportunista più di me».

E il più grande?

«Hinault mi impressionava per temperamento, feroce determinazione e la capacità di vincere quando voleva. E subito dopo, Indurain».

Ha frequentato molto la pista: due titoli italiani junior, due da dilettante, uno da prof. E una vittoria alla Sei Giorni di Bassano.

«La pista è luogo di formazione. Alcide Cerato ci faceva allenare su strada e pista. Correre nei velodromi mi ha insegnato tanto e qualche corsa da prof l’ho vinta grazie a freddezza e colpo d’occhio acquisiti e affinati in pista. La pista dà qualcosa in più, il colpo di pedale giusto e il sapere come stare in bici, per vincere su strada».

Intravvede un nuovo Argentin?

«Contavo tanto su Enrico Battaglin per i grandi numeri mostrati da dilettante, ma si è un po’ perso. Tanti dicono sia Ulissi ad assomigliarmi di più. Ma questi ragazzi devono vincere».

Cosa le è rimasto dentro di quegli anni?

«Ci divertivamo. La bici è una scoperta continua. Ho girato il mondo. Gli anni del ciclismo sono strepitosi, li consiglio a tutti, comunque vada, si sia campioni o no».

Renzo Puliero

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