La storia di Zlatan Ibrahimovic

di Alec Cordolcini,
lunedì 29 novembre 2010
Zlatan Ibrahimovic è un giocatore che fa discutere. Sempre. Vince il campionato da sette stagioni consecutive, risultando il più delle volte decisivo nel successo. Per qualcuno non basta. Ha chiuso la sua prima stagione a Barcellona con 21 reti. Per qualcuno ha fatto flop.
Lo svedese ha sempre pagato un carattere poco malleabile, non avvezzo a lisciare il pelo a chicchessia. Avere un procuratore come Mino Raiola non regala punti alla voce “simpatia”. Il tourbillon continuo di maglie nemmeno. Lo dipingono come un mercenario, ma non risulta che gli Zanetti di turno giochino per beneficenza. E una società calcistica non è propriamente paragonabile alla patria. Il polverone attorno al personaggio non aiuta un giudizio sereno sul giocatore. Raramente negli ultimi anni si è vista una simile fusione tra tecnica, rapidità e potenza fisica. Con Ibrahimovic la Serie A riacquista un campione. Magari con un ego “grande quanto Stoccolma” (copyright di Johnny Gyllensjo, allenatore di Ibra nelle giovanili del Malmö), ma pur sempre un giocatore di altissimo profilo. Questa è la sua storia.

Le spine di Rosengård
144mila euro rappresentano per il piccolo FBK Balkan il budget di cinque anni. Questa società, le cui selezioni - un crogiuolo di serbi, croati, montenegrini e bosniaci - sembrano una Jugoslavia in miniatura, ha ricevuto tale somma in un’unica soluzione dal Barcellona. Merito della clausola di solidarietà della FIFA, che riconosce una piccola percentuale al club che ha “allevato” il campione oggetto di un trasferimento milionario, ma anche della magnanimità del Barcellona, che per Zlatan Ibrahimovic ha versato all’Inter 66 milioni di euro (45 cash, il resto nella persona di Samuel Eto’o).
L’FBK Balkan è stata una delle prime squadre del ragazzo “d'oro” (questo il significato del nome Zlatan in bosniaco), nato il 3 ottobre 1981 dal bosniaco Sefik e dalla croata Djurka, fuggiti nei primi anni settanta da Bijeljina, Bosnia-Erzegovina, alla ricerca di un futuro migliore. Quello che li aspettava erano mille impieghi saltuari e un poco confortevole appartamento in un prefabbricato in Commons Vag, quartiere di Rosengård, periferia di Malmö. Zona ad alto tasso di immigrazione e bassa percentuale di occupazione. Asfalto, cemento, un campetto di terra scura con le porte arrugginite: l’infanzia di Ibrahimovic. FBK Balkan, Malmö BI (oggi rinominata Fc Rosengård), Flagg; la sua carriera calcistica inizia invece da questi piccoli club. Hasib Klikic, uno dei suoi primi allenatori, lo ricorda così: “Con la palla tra i piedi tentava di fare di tutto, dribbling, finte, colpi ad effetto. In campo giocava come fosse da solo, non si fidava di compagni che percepiva nettamente inferiori a livello tecnico. Ma non potevo nemmeno rimproverarlo troppo, perché segnava sempre”.
La leggenda narra che in una partita contro il Vellinge entra nella ripresa, con la sua squadra sotto di quattro reti, e ne segna otto. Era un campionato per under 12, lui aveva 10 anni.

Il cielo è sempre più blu
“Zlatan Ibrahimovic ha regalato un’identità alla gente di Rosengård”. Tra gli immigrati di Malmö circola questa massima. Un’esagerazione? No. Qualche anno fa una piccola piazza nei pressi dei palazzi dove il nostro ha trascorso la sua infanzia è stata rinnovata grazie a un progetto, che prevedeva una pavimentazione fatta con materiale ricavato dal riciclo delle suole di migliaia di scarpe da calcio, presentato da un’azienda locale con l’aiuto del giocatore e di uno dei suoi sponsor, la Nike. All’inaugurazione, assieme a Ibra, c’erano oltre cinquemila persone. Eppure la storia di Zlatan Ibrahimovic sarebbe probabilmente stata molto diversa se all’età di quindici anni non avesse incontrato Johnny Gyllensjo, oggi ispettore presso il Dipartimento Anticrimine della polizia di Malmö, all’epoca allenatore delle giovanili degli Himmelsblått (Blu cielo). “Lascio la squadra”, gli disse un giorno Zlatan durante un allenamento. Il motivo aveva un nome e un cognome, Tony Flygare, amico, compagno di squadra nonché attaccante dalle medie realizzative altissime che oscuravano quelle del ragazzo di origini bosniache, tanto da soffiargli il posto nelle nazionali giovanili svedesi under-16 e under-17. Ci vogliono tutta la pazienza e l’esperienza di Gyllensjo per far desistere Ibra. “A quell’età ciò che conta agli occhi dei ragazzi è segnare, io gli feci capire che il calcio è molto di più. Gli dissi di lasciar perdere la quantità, perché lui era uno dei pochi che aveva il dono della qualità. Flygare non è mai andato oltre le serie minori”.
Nel 1999 Roland Anderssons aggrega il giovane ragazzo dal carattere difficile (ma in Svezia circola un proverbio che recita “un ragazzo si tiene lontano il fuoco solo quando si è scottato”) alla prima squadra del Malmö. L’anno successivo chiude in doppia cifra - 12 reti - nel Superettan (la Serie B svedese), e si vede recapitare a casa un pacco contenente la maglia numero nove dell’Arsenal. Sul retro c’è scritto “Zlatan”. E’ il personale invito di Arsène Wenger a raggiungerlo a Londra. Respinto. La destinazione di Zlatan è l’Olanda.

Un amico vero
Leo Beenhakker non aveva dubbi: quel lungagnone svedese era un giocatore da Ajax, pertanto la dirigenza ajacide non avrebbe dovuto spaventarsi di fronte al notevole esborso, 7.8 milioni di euro, che le era stato prospettato. Ad Amsterdam si fidano, mentre la stampa inizia a caricare i fucili. E dopo i primi difficili mesi di Zlatan in maglia biancorossa, apre il fuoco. Non vede la porta, non gioca per la squadra, prende troppi cartellini. Anche tra i tifosi dell’Ajax serpeggia il malumore. Ci vorrà quasi un anno per far decollare il rapporto. La scintilla scocca sul finire della stagione 2001/02; l’Ajax vince il titolo, Zlatan segna la rete decisiva nella finale di Coppa d’Olanda. Fondamentale, a detta dello stesso giocatore, il supporto di Beenhakker, definito “profondo conoscitore di calcio, ma anche vero amico”. Non sono parole di circostanza. L’abbraccio tra i due in Germania nel Mondiale 2006 al termine di Svezia-Trinidad e Tobago vale più di mille parole. Rotto il ghiaccio, Ibra comincia a carburare. Doppietta al Lione all’esordio in Champions League, avventura che per un Ajax traboccante di talento (Chivu, Sneijder, Van der Meyde, Nigel de Jong, Van der Vaart) si concluderà solamente ai quarti di finale al termine di uno sfortunato doppio confronto con il Milan. Gli ajacidi si rifanno l’anno seguente con un nuovo titolo nazionale; è il 2004, e da quel momento Ibrahimovic non ha più smesso di chiudere le stagioni al primo posto. Gol, giocate ma anche litigi; l’ex amico Mido gli tira un paio di forbici in una stanza d’albergo, con Heitinga e Van der Vaart l’ostilità cresce giorno dopo giorno. “Ci detestiamo”, dichiara Van der Vaart, “ma in campo non si vede, e questo è ciò che conta”. L’importante però è indossare la stessa maglia. Lo impara a sue spese l’olandese durante un’amichevole tra Olanda e Svezia, quando Ibrahimovic lo tocca duro costringendolo ad uscire dal campo. Tre settimane dopo lascia Amsterdam per l’Italia. La Eredivisie è già iniziata, lui si congeda con tre reti in altrettante partite e uno splendido assolo alla prima giornata contro il Nac Breda, in seguito votato miglior gol del campionato olandese 2004/2005.

Bell’Italia
“Ma dove vuole andare con quel nome da zingaro?”. Nel 2003 qualcuno della Roma bocciò così l’acquisto di Ibrahimovic, segnalato dal Nils Liedholm. Ecco quindi, un anno e mezzo dopo, la Juventus. 16.5 milioni di euro e un impatto super nella nuova realtà: tanti gol (16, cifra mai raggiunta prima in Olanda), numeri di alta scuola ma anche concretezza. “In allenamento dobbiamo metterci in sei per portargli via la palla”, commenta Emerson. “Io faccio con un’arancia quello che John Carew fa con un pallone”, risponde Ibra a quelli che, come il citato attaccante norvegese, provano a mettere in dubbio le sue qualità. Un pestone a Cordoba ed una testata a Mihalijovic aggiornano invece la sua fama di personaggio irritabile. Soffre però in campo internazionale: non incide in Champions, e anche con la maglia della Svezia fatica a fare la differenza, tanto che ad oggi si può tranquillamente affermare che il colpo di taekwondo (arte marziale da lui praticata) che infila Buffon a Euro 2004 rimane il suo momento migliore. Nel frattempo però sono passati due Mondiali (a quello del 2010 la Svezia non si è nemmeno qualificata anche a causa della sua latitanza in attacco) e un Europeo (quello del 2008, giocato discretamente a dispetto delle precarie condizioni fisiche). Il top a livello di rendimento Ibrahimovic lo raggiunge però nel triennio all’Inter. In nerazzurro ci approda grazie a Calciopoli. La Juventus, retrocessa in Serie B, lo vende nell’estate 2006 per 24.8 milioni di euro. In tre stagioni realizza 57 reti in campionato, raggiungendo la punta massima di 25 nel campionato 2008/09, il primo sotto la guida Josè Mourinho. In quello precedente una sua doppietta al Parma aveva regalato all’Inter il sofferto scudetto numero sedici (o quindici, dipende dai punti di vista). Fuori dal campo, Ibra soffre di nostalgia (nel 2007, controversa intervista a Libero su Luciano Moggi) e di mal di pancia (nel 2009, quando è ormai deciso a levare le tende da Milano). Contro quest’ultimo sintomo la cura è rappresentata da una maglia color blaugrana.

Filosofi e professori
Credeva di aver firmato per il Fc Barcellona, invece si è ritrovato nel Fc Guardiola. Questo è il sunto dell’Ibra-pensiero al termine di un’annata non facile, in cui non sono mancati i gol né le giocate, ma dove lo svedese non ha inciso sui destini della squadra come era abituato a fare con Ajax, Juventus e Inter. Un problema innanzitutto tattico; il Barcellona non giocava un calcio adatto al suo stile di gioco, spesso paragonabile a “improvvisazioni jazz” (copyright Björn Ranelid, scrittore), ma soprattutto non giocava per lui. Poi c’era l’aspetto mediatico, con il costante tentativo da parte di certa carta stampata di creare un dualismo -in realtà inesistente- tra lui e Messi (“la stampa svedese è terribile; da quando sono a Barcellona in sala stampa c’erano più giornalisti di cronaca rosa che sportivi”). Infine la questione-Guardiola; tra i due relazioni sempre ai minimi termini e comunicazione pressoché nulla. Solamente con Co Adriaanse durante il suo primo anno all’Ajax Ibrahimovic aveva avuto un rapporto così freddo con un allenatore. Alla fine Zlatan non chiama più Guardiola nemmeno per nome; nelle interviste diventa “il filosofo”. Per il tecnico spagnolo Ibra è invece un pacco, indesiderato fin dal giorno del suo arrivo, del quale sbarazzarsi il prima possibile. Il resto è storia dei giorni nostri. Il Milan, doppietta all’esordio in Champions, immediata lite con Arrigo Sacchi in diretta tv: “tu parli troppo, se non ti piace il mio modo di giocare non guardarmi”. Zlatan Ibrahimovic continua ad essere un giocatore che fa discutere. Sempre

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