FOOTBALL PORTRAITS - Adrian Clarke: faccio ancora notizia (2008)
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Da ex promessa dell’Arsenal a cronista sportivo: «Niente dà i brividi come giocare davanti ai 40mila di Highbury. Per nove anni ho fatto il mestiere più bello al mondo. Ora mi godo il secondo»
di CHRISTIAN GIORDANO
Guerin Sportivo n. 5, 29 gennaio – 4 febbraio 2008
Così ne scrive Joe Rose su The Official Illustrated History of Arsenal: «Adrian Clarke (Haverhill, Suffolk, 28-9-1974) non ha avuto il tempo o la chance per farcela nei Gunners, ma è riuscito in qualcosa sfuggito a più celebrati campioni: entusiasmare Highbury. Ala vecchio stampo, già nelle nazionali giovanili (Under 16 e 18, insieme con David Beckham) saltava difensori in serie, metodo garantiro per ingraziarsi i tifosi. Ci riuscì a sprazzi, ma con classe, a metà della stagione 1995-96, e in molti rimasero delusi quando tornò tra le riserve. Controllo di palla sicuro, cross con tutti e due i piedi, passava il pallone con intelligenza e non si tirava indietro, anche se il suo gioco senza palla era migliorabile. Su un simile talento ci si attendeva che Arsène Wenger avrebbe scommesso». Invece.
La vera chance in prima squadra (dove Clarke debuttò perdendo 1-3 col Queens Park Rangers il 31 dicembre 1994) la trovò nel 1996-97, ma nel prestito al Rotherham e al Southend Utd, dove tornò da svincolato l’estate seguente, prima di chiudere con Carlisle Utd, Stevenage e Margate. Dopo nove anni da professionista, un inviato gli chiese che lavoro avrebbe fatto una volta smesso di giocare. «Il tuo», la risposta senza incertezze.
- Adrian Clarke, andò proprio così?
«È vero, non è soltanto un aneddoto. Non volevo il lavoro di quel giornalista (sorride, nda), ma credo sapesse cosa intendevo. E sono contento di averlo detto., perché quell’intervista mi procurò il mio primo lavoro nei media. Mi ci sono buttato, mi sono messo alla prova, ma se avessi risposto in altro modo, forse le cose sarebbero andate diversamente».
- Adrian Clarke, andò proprio così?
«Ho sempre avuto la passione per lo sport, e anche se niente può eguagliare il brivido di giocare di fronte a 40mila tifosi, scrivere di sport è l’altra cosa che più mi piace fare. Allenare non mi ha mai attirato, scrivere sì, quindi il giornalismo poteva essere la mia strada una volta ritiratomi dal calcio a tempo pieno. Di recente ho ritrovato il nastro di un’intervista radiofonica che rilasciai a 15 anni quando ero nazionale giovanile. Già allora dicevo che un giorno mi sarebbe piaciuto fare il giornalista sportivo, l’ambizione la covavo da tempo. Non nego che essere stato calciatore mi abbia aiutato molto: so per esperienza come vivono e cosa devono affrontare i giocatori».
- Come hai capito che era quella la tua nuova strada?
«Mi ritrovai fuori dal calcio professionistico senza aspettarmelo, a 26 anni, quando al Southend United non mi rinnovarono il contratto. La mia ragazza era incinta del nostro primogenito, Crawford, e avevo urgente bisogno di un lavoro. Così decisi di giocare part-time allo Stevenage, nella Conference, quinta divisione inglese, e cominciai la carriera nel giornalismo prima di quanto pensassi. Il Southend Evening Echo mi intervistò, mi chiese che lavoro mi sarebbe piaciuto fare e risposi che avrei voluto scrivere. Mi offrì un posto e un mese dopo fui assunto come praticante».
- Devo chiedertelo: che te lo ha fatto fare?
«Sapevo di avere delle qualità e la chance al quotidiano era la miglior opportunità per fare il primo passo. Adoravo fare il calciatore e mi sarebbe piaciuto continuare fino a 35 anni, ma non è andata così. Sono contento di quel che faccio, e avere già sette anni di esperienza è un bel vantaggio».
- Che calciatore eri e che giornalista sei, o vorresti diventare?
«Da giocatore ero un’ala naturale. Mi piaceva giocare in libertà, dribblare i difensori, creare occasioni per le punte. Avevo la fortuna di essere portato per il calcio, e sono fiero di aver avuto il rispetto di tanti miei ex compagni quali Dennis Bergkamp, David Platt, Tony Adams e Ian Wright. Mi hanno sempre trattato come uno di loro. Detto col senno di poi, mi compiacevo un po’ troppo del mio talento. E avrei potuto allenarmi di più. Come giornalista, ritengo di saper scrivere, ma so di avere ancora molto da imparare. Non ho studiato per questo mestiere, quindi ho fatto miei i consigli e imparato strada facendo. E questo ha anche un lato positivo: ho sviluppato uno stile personale. Non amo massacrare i professionisti dello sport, cerco di essere obiettivo, ma non ho paura di dire le cose come stanno. E cerco di esprimere opinioni forti. In futuro vorrei raggiungere il top nel mio campo ed essere considerato fra i migliori giornalisti sportivi britannici. Bravo al punto da essere ricordato più come cronista che come calciatore».
- Da giocatore che cosa non sopportavi dei media? E ora, dall’altra parte della barricata, che cosa t’infastidisce dei tuoi ex colleghi?
«Quando ero all’Arsenal, i tabloid non facevano che chiedermi dei miei compagni più famosi. Lo detestavo. Non so come, ma riuscivano sempre a procurarsi il mio numero, e dopo un po’ lasciavo rispondere altri al posto mio. Non avrei mai sparlato dei colleghi. Quando lasciai il club, mi fu chiesto se la rosa con tanti stranieri aveva contribuito alla decisione dell’allenatore Arsène Wenger di non confermarmi. Risposi con garbo, eppure un giornalista del Daily Express m’ingannò cucinando il pezzo come un mio velenoso attacco a Wenger. Non lo era, ma imparai la lezione. Mi ritenevo più aperto e più sincero di gran parte dei calciatori, nelle interviste. E se potevo cercavo di fornire materiale interessante. Ne vorrei di più, oggi, di giocatori così, ma i club, in Inghilterra, difficilmente permettono ai propri tesserati di parlare troppo. Fare domande personali non mi piace perché mettono a disagio. E non è facile chiedere particolari sugli allenatori, specialmente quando i risultati vanno male. So che un giocatore non può essere sincero fino in fondo, ma da giornalista devo fare il mio lavoro. In generale, non ho timore di rivolgere domande. Se qualcuno rifiuta di rispondere, lo accetto e passo oltre. Ma chi non chiede non ottiene».
- Quali sono i pro e i contro per un giornalista che ha giocato ad alti livelli?
«La mia carriera agonistica è stata buona e sono orgoglioso di aver giocato con l’Arsenal in Premiership. Ma se mi guardo indietro penso che avrei potuto durare e vincere di più, nel calcio. E quella delusione mi spinge a fare sì che la mia seconda carriera, nel giornalismo, abbia più successo. Sfondare in questa professione mi renderebbe persino più orgoglioso di aver giocato nei Gunners. Il vantaggio è che quando i calciatori sanno che giocavo mi trattano come uno di loro. Diventano meno sospettosi e si fidano di più. Possiamo parlare alla pari di calcio. So rapportarmi con loro, sono rilassati e ben disposti. Di contro, non ne vedo. All’inizio, i miei nuovi colleghi non mi prendevano sul serio, poi però ho dimostrato di essere all’altezza».
- Com’è nata l’idea dell’agenzia editoriale?
«A luglio 2006 con il più esperto collega Iain Spragg abbiamo fondato a Londra la Sport Media Solutions e messo insieme i nostri contatti, idee ed esperienze per avvicinare il mondo dello sport e quello dei media. Oggi non è facile avere accesso ai campioni, quindi cerchiamo di fornire soluzioni al problema».
- Quali sono i vostri clienti?
«I maggiori quotidiani e siti web britannici, riviste, agenzie di stampa, tv. Abbiamo dieci corrispondenti freelance sparsi per il mondo (retribuiti con 150 euro a intervista o a percentuale, con 100 euro di bonus se il “prodotto” è stato rivenduto bene, nda) ed entro un anno assumeremo personale a tempo pieno. Ma prima di correre dobbiamo imparare a camminare».
- Come non hanno fatto i tuoi ex colleghi Robert Prosinečki e Clarence Seedorf.
«La loro carriera calcistica è stata molto più luminosa, impossibile fare paragoni. Non ho avuto pari fama, fortuna o reputazione, quindi ho dovuto cominciare dal basso. Se con la SMS otterrò qualcosa di simile a quanto loro hanno conquistato in campo, sarò un uomo felice».
E che ha vissuto due sogni.
CHRISTIAN GIORDANO
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