Kathrine, la maratoneta che fece correre le donne Torna in gara a 70 anni


Arnie Briggs, allenatore di atletica, cerca di proteggere Kathrine Switzer 
La Switzer con il numero di gara 261 Jock Semple, giudice di gara, prova a fermarla Tom Miller, lanciatore di martello e fidanzato della studentessa della Syracuse University che sta per correre in suo aiuto

Riccardo Bruno
24 Feb 2017 - Corriere della Sera
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Tornare a correre dopo la maratona di Boston a 70 anni, dopo 50 dalla prima volta, sarebbe giù un bel primato. Ma trattandosi di Kathrine Switzer è qualcosa di più. Nel 1967 quella sua cavalcata di 4 ore e 20 minuti e 30 minuti, in felpa e pantaloni della tuta un po' abbandonati, cambiò la storia dell'atletica. E non solo. Alle donne non era permesso partecipare a gare di 42 chilometri, erano considerate «troppo fragili» per affrontare uno sforzo così prolungato.

Kathrine però era cresciuta correndo. A soli 12 anni usciva sulla strada da sola, 5 chilometri attorno casa, senza che nessuna delle coetanee avrebbe avrebbero osato farlo. Macinava chilometri anche al college, per essere più forte a hockey. Il coach di atletica dei ragazzi le notò subito e la invitò ad allenarsi con loro. Fece scandalo, qualcuno le mandò delle lettere anonime, ma lei tirò dritto. Nel vero senso della parola.

Kathrine conosceva la sua forza, sapeva che avrebbe potuto finire una maratona, e
davvero non capiva quell'essurdo divieto. Così si iscrisse a (quella di) Boston del 1967, regina della gara di fondo. Aveva vent'anni, bella e spavalda, e ricorse a un innocente sotterfugio. «Mi registrai come K. V. Switzer, perché così mi firmavo nel giornalino dell'università. Nessuno si accorse prima che fossi una donna». Come andò a finire è entrato nei libri di storia del costume. Jock Semple, un giudice di gara, capì presto che tra i partecipanti c’era anche una ragazza. La raggiunse, cercò di bloccarla, la strattonò e le gridò in faccia: «Vattene dalla mia gara, dammi il pettorale». Finché non venne allontanato dall’allora fidanzato di Kathrine, Tom Miller, 106 chili, lanciatore del peso. Tutto avvenne davanti agli obiettivi dei fotografi, la sequenza fece il giro del mondo anche senza Internet. Kathrine riuscì ad arrivare al traguardo, e vinse cinque anni dopo, quando le donne finalmente vennero ammesse non solo a Boston ma a tutte le gare di fondo.

«Sì, è stata come una rivoluzione sociale — ricorda annunciando che tornerà a Boston —. Oggi negli Stati Uniti ci sono più runner donne che uomini».

Non era solo una provocatrice, ma un’atleta di tutto rispetto. Nel 1974 vinse la maratona di New York, l’anno dopo, ancora a Boston, fece il suo record personale chiudendo in 2 ore e 50 minuti. Nel 1968 si è laureata in giornalismo, è diventata una conduttrice televisiva e autrice di libri di successo sulla corsa. Ha fondato «261 Fearless» («senza paura», accanto al numero del pettorale del 1967 diventato un simbolo), un’associazione che promuove l’emancipazione delle donne attraverso il running.

Dopo 50 anni il 19 aprile non vuole sfigurare: «Mi sto allenando duramente. Sarà una celebrazione, un modo per ringraziare tutti coloro che si battono per rafforzare il nostro ruolo». Per inciso, Tom, l’energumeno fidanzato di allora, divenne suo marito l’anno dopo, ma non funzionò. Si separarono nel 1973. Poi un secondo matrimonio e nuovo divorzio, finché non conobbe un runner e scrittore inglese. Libera di correre, anche nella vita privata.

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Pioniera

Il numero 261 da quel 19 aprile 1967 è rimasto «attaccato» a Kathrine Switzer. Lo ha fatto diventare il simbolo del movimento mondiale che ha fondato per propagandare il coraggio e la «mancanza di paura di fronte alle avversità» delle donne, sia nell’affrontare una maratona che le difficoltà della vita.

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Chi è

  • Kathrine Switzer è nata il 5 gennaio 1947 ad Amberg, in Germania, figlia di un maggiore dell’Esercito americano
  • A 20 anni si iscrive alla maratona di Boston indicando solo le iniziali del suo nome. In questo modo è la prima donna a ottenere un numero ufficiale per la gara, a quel tempo riservata solo agli uomini
  • Finora Switzer ha corso 39 maratone e ha al suo attivo due vittorie a New York
  • Dopo l’attività agonistica è diventa commentatrice televisiva, autrice di libri e relatrice in conferenze in campo universitario e professionale
  • Ha fondato la società non profit «261 Fearless» per stimolare l’autostima delle donne attraverso la corsa
  • Si è iscritta alla maratona di Boston che si disputerà il 16 aprile
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Così finirono molti pregiudizi sulle atlete

24 Feb 2017 - Corriere della Sera
di Giorgio Rondelli
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Sino a qualche decennio fa le donne avevano un ruolo minore nello sport. Anzi per molti addetti ai lavori, avendo le donne soltanto i due terzi della forza di un uomo, non erano assolutamente in grado di affrontare gare molto lunghe e faticose, in primis la maratona. Lo straordinario episodio legato a Kathrine Switzer nella maratona di Boston del 1967, che poi la stampa americana chiamò, un po’ enfaticamente «The Great Incident», servì a dimostrare che erano solo pregiudizi e luoghi comuni. Il resto lo fece certamente la tenace Kathrine che caparbiamente, 50 anni fa, riuscì ad arrivare al traguardo in 4 ore e 20 minuti dimostrando che anche una donna poteva portare a termine 42 km e 195 metri senza essere ricoverata in ospedale. Dopo quella prima volta, tutto cambiò per le donne nel mondo delle gare di fondo. Nel 1971 gli organizzatori della prima maratona di New York accettarono anche le iscrizioni femminili. L’anno dopo a Boston la loro partecipazione venne definitivamente ufficializzata. Il fenomeno maratona coniugato al femminile esplose poi a livello mondiale con la serie di nove vittorie a New York, fra il 1978 e il 1988, della fondista norvegese Grete Waitz. Nel frattempo la maratona era già entrata a fare parte del programma dei mondiali di Helsinki (1983) e dei giochi olimpici di Los Angeles (1984). L’attuale primato mondiale di 2 ore 15 minuti e 25 secondi della britannica Paula Radcliffe, stabilito nel 2003, è un crono straordinario di livello maschile. Vuol dire correre con un tempo di 3 minuti e 12 secondi al chilometro! Quasi lo stesso tempo (2h15’16”) con cui il leggendario Abebe Bikila vinse, a piedi scalzi, la maratona dei Giochi Olimpici del 1960 a Roma.



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