Zilioli, lo zen e l'arte di arrivare secondi
Quando il corridore piemontese si presentò al ciclismo in molti pensarono che fosse arrivato un nuovo Coppi. Poi le cose andarono diversamente
di Giovanni Battistuzzi - 17 marzo 2017
Fosse nato in Francia, uno come lui sarebbe ancora amatissimo. Perché i francesi tifano i campioni, ma amano ancor più i battuti. Quelli che non vincono, ma ci vanno sempre vicino, quelli da prime posizioni: gli altri sono battuti e basta e non serve tifare per loro.
Il secondopostismo, a dirla con l’ex telecronista del ciclismo francese Robert Chapatte, è “la missione del tifoso francese, perché è troppo banale la vittoria, meglio allora crogiolarsi con le lamentele da occasione sfuggita”.
E di occasioni sfuggite ne ha avute tante lungo la sua strada. Francese però non era, italiano di origine e anche di nome: Italo. Avrebbe dovuto nascere Oltralpe e magari lì sarebbe stato apprezzato davvero, amato anche, come è ancor oggi apprezzato e amato Raymond Poulidor. Pou Pou era l’eterno piazzato, in carriera una Sanremo, una Vuelta e sette tappe al Tour de France, ma otto podi, cinque volte terzo, tre volte secondo. Pou Pou non vinceva mai, ma ci andava vicino sempre. C’era sempre qualcosa tra lui e la gloria sportiva, un Willy il Coyote in bicicletta, sfortunato, incompiuto, per questo esaltato.
Poulidor ha perso con tutti i migliori corridori che si sono accavallati tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Zilioli pure. Poulidor ogni tanto si inventava l’impresa, sembrava inarrivabile, per questo quando poi perdeva poteva tirare in ballo la malasorte. Zilioli pure. Poulidor era esuberante e chiacchierone, trovava sempre una battuta per sdrammatizzare. Zilioli no. Non che fosse un musone, ma era riservato, timido, uno che lo si vedeva che era in mezzo a un ambiente che lo rendeva insicuro. Zilioli leggeva molto, gli piaceva stare a farsi gli affari suoi, non per spocchia ma per desuetudine alla mondanità.
Zilioli non avrebbe voluto trovarsi in mezzo a tifosi e telecamere, gli sarebbe bastato girare in bicicletta. E’ che su quella bici sembrava volasse e se ti presenti al ciclismo con quattro vittorie di fila in due settimane, per di più in quattro corse di prestigio come Tre Valle Varesine, Giro dell’Appennino, Giro del Veneto e Giro dell’Emilia, è normale che la gente si interessi a te.
Zilioli non avrebbe voluto trovarsi là in mezzo. Per questo trattava tutti con garbo e gentilezza, per questo forse non riuscì mai a trovare la cattiveria per imporsi, perché per farlo qualche sgarbo va fatto, ma lui non era il tipo.
Non ce la fece neppure nel 1969 dopo che Eddy Merckx, che quel Giro d’Italia lo stava dominando, fu squalificato per doping. Si trovò sulla strada Felice Gimondi e non ci fu nulla da fare. Quella volta però ci provò a cambiare le cose, a mutare il suo destino. Quella volta tirò fuori anche cattiveria e ostinazione. Salendo verso Folgaria cambiò espressione, il suo volto tranquillo iniziò a farsi violento, la sua bicicletta di solito elegante si fece baionetta. Sulla sua ruota rimase solo Felice Gimondi, dietro il vuoto. Zilioli scattava, si girava, accelerava, ma niente Gimondi non si staccava. Poi un’occhiata all’indietro, il volto del bergamasco che si prodiga in smorfie, l’affondo. Primo all’arrivo. Ma non bastò. L’indomani sulle Dolomiti pagò dazio per quell’affronto alla tranquillità. A Milano fu terzo, con la certezza che la volta buona non ci sarebbe stata più.
Vincitore: Felice Gimondi in 106 ore, 47 minuti e 3 secondi;
secondo classificato: Claudio Michelotto a 3 minuti e 35 secondi;
terzo classificato: Italo Zilioli a 4 minuti e 48 secondi;
chilometri percorsi: 3.731.
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