Gli sporchi canestri di Jack Molinas



Un estratto dal libro "Basketball R-Evolution" di Flavio Tranquillo, edito da Baldini&Castoldi. La storia di Jack Molinas, un talento assuefatto alla frode.

di Flavio Tranquillo

Alto, ricco, bello, giovane, carismatico e intelligente, anzi un genio (175 di QI): questo era Jacob Louis Molinas detto Jack, soprannominato «The Mole». Uno che sarebbe entrato nella storia dalla parte giusta se non avesse trovato più divertente scegliere l’ingresso posteriore. Un personaggio maestoso e squallido, comico e tragico, cerebrale e criminale. Jack Molinas è stato un Premio Nobel delle scommesse truccate, per lui non sono mai esistiti limiti in questa materia. Come quando cercò di drogare un pugile per potergli scommettere contro, precorrendo il Minias versato nelle borracce dei compagni da Paoloni prima di Cremonese-Paganese. O quando usò un sofisticato telecomando per produrre una scossa elettrica stimolante nell’orecchio del purosangue su cui aveva messo i massimi. Non vi basta? L’uomo arrivò a ridurre la corrente elettrica in sala scommesse per rallentare gli orologi e poter lasciare aperte le puntate su corse in realtà già terminate. E poi, venenum in cauda, a usare da dentro la prigione una macchina falsificatrice di firme per incassare assegni che non gli appartenevano.

«I miei cosiddetti crimini non hanno danneggiato alcuno, salvo qualche scommettitore e un po’ di allibratori» dichiarò in aula, facendo capire che la dimensione etica per lui non esisteva, come non esisteva il pentimento. In un periodo di ottimismo e opportunità come il dopoguerra Jack Molinas ha buttato al vento una vita e una carriera da prima pagina per aver ceduto a un’ossessione compulsiva. Questa è la parte tragica della storia, quella degna di Eschilo e Sofocle, ma quella comica non è da meno. Il re del gancio, il Mefistofele delle scommesse, un Tony Soprano antelitteram ostinatamente votato all’auto-distruzione, un amorale bugiardo patologico: questo, in breve, è stato Jacob Louis Molinas detto Jack. Uno che non può essere raccontato in breve, per cui dovete armarvi di pazienza.

Louis Jacob Molinas discendeva orgogliosamente da un sefardita, cioè un ebreo emigrato nella penisola iberica al tempo della diaspora. I sefarditi si considerano aristocratici e hanno sempre pagato prezzi molto salati per difendere la propria indipendenza religiosa. Il che fa a pugni con il fatto che il protagonista della nostra storia detestasse il proprio nome perché suonava troppo ebraico, dichiarandosi a seconda dei casi irlandese, greco, spagnolo o turco. La sua parabola fu sinistramente simile a quella dei molti ebrei che all’inizio del XX secolo avevano lasciato un segno nel crimine o nella pallacanestro. Lui, autentico artista del piede in (almeno) due scarpe, abbracciò quello e questa. I sefarditi parlano in ladino, un derivato dello spagnolo medievale con influenze aragonesi, catalane, galiziane e portoghesi. Gli avi di Jack erano mugnai, e siccome mulino in spagnolo si dice «molino» e la famiglia era assai numerosa, per designarne il cognome venne utilizzato il plurale. Dopo essere transitati dall’Italia i Molinas si stabilirono in Turchia dove, nel 1899 a Canakkale, nacque il padre di Jack. Il ghetto ebreo era oggetto di ripetuti pogrom e la vita per il giovane grama assai. Nel 1914, per evitare di essere arruolato nell’esercito turco, si imbarcò in terza classe su un mercantile diretto a New York, dove viveva zia Clarisse. Una volta giunto nella terra delle opportunità si industriò parecchio, con alterne fortune, mettendo in piedi traffici sempre in bilico tra legalità e zona grigia.

Nel 1929 sposò Betty, figlia di immigrati turchi che tre anni più tardi, il 16 aprile 1932, gli diede il primogenito Jacob Louis, nato al Mount Royal Hospital di Manhattan. Seguendo la tradizione di famiglia, per auspicare un futuro di ricchezza, salute e fortuna Louis mise tre monete d’oro nella culla del neonato. Dentro quella culla c’era un bambino bellissimo, con folti capelli, occhi magnetici e un sorriso meraviglioso. Un bambino difficile però, che scoppiava a piangere appena gli veniva negato qualcosa, tanto che mamma Betty giurò solennemente che sarebbe rimasto figlio unico. A tre anni il pargolo aveva già imparato a leggere in inglese e un anno più tardi avrebbe imparato a farlo in spagnolo, grazie alla prodigiosa memoria di cui era dotato. Jack aveva un pronunciato mancinismo, caratteristica che papà Louis considerava un difetto da estirpare. Per quello che constava a lui il diavolo era mancino e «sinistro» un aggettivo che evocava sventure. Così la mano preferita di Jackie, questo il vezzeggiativo usato in famiglia, venne legata dietro la schiena al compimento dei due anni.

Non fu l’unica scivolata verso l’autoritarismo dell’educazione paterna, punteggiata da frequenti sessioni di poderose cinghiate. Il punto più basso si toccò quando Jack, a quattro anni, venne portato in un parco e posizionato sotto un albero. «Adesso io me ne vado e tu aspetti qui – gli disse il non troppo amorevole papà – e quando torno sarà meglio che ti ritrovi esattamente dove ti ho lasciato». Incurante del pianto disperato del figlio il padre lo piantò in asso sotto quell’albero che Jack non avrebbe mai più dimenticato. Quando Louis tornò due ore più tardi trovò il bimbo pietrificato nella stessa identica posizione in cui lo aveva abbandonato. Solo che quel bimbo aveva interiorizzato un rancore così profondo che gli avrebbe fatto cattiva compagnia per tutta la vita. Papà Molinas avrebbe raccontato mille volte quell’episodio a parenti e amici per magnificare le sue doti disciplinari, convinto che così avrebbe raddrizzato quel geniale e disubbidiente figliolo che Betty viziava per amore. Ah, quanto si sbagliava…

A sette anni Jack era già in grado di risolvere problemi di algebra senza usare penna e quaderno. Non immaginatelo però come un nerd sempre chiuso in camera da letto a leggere e fantasticare. Il suo «ufficio» era St. James Park, dove dominava psicologicamente e fisicamente i coetanei. Nei weekend la famiglia si concedeva un film, e proprio davanti al grande schermo si innamorò di Ava Gardner, che avrebbe rappresentato per sempre il suo elevato standard di bellezza femminile. Stretto tra il pugno di ferro del padre e il guanto di velluto della madre, Molinas passò emotivamente indenne tra le forche caudine della Seconda guerra mondiale, per poi iscriversi nel 1943 alla Creston Junior High School. Per molti andare al liceo significava perdere il calore di casa e doversi misurare con i primi banchi di prova, un vero trauma. Per il figlio di Louis Molinas, invece, significava affrancarsi dal giogo paterno. Senza voler gettare la croce addosso al sefardita e senza volergli addossare le molte colpe del figlio, come educatore Louis ha fallito fragorosamente. Oltre a essere stato incapace di trasmettere qualsiasi affetto, è stato infatti un pessimo modello per i disinvolti investimenti che ha fatto. Negli anni Trenta lui e tre soci gestivano il Glen Island Casino, locale che vendeva alcolici in tempo di proibizionismo (uno dei nomi in gergo di questi esercizi era «blind pig», come una delle opzioni del triangolo di Tex Winter).

Poi, dopo l’Harbor Inn, la cooperativa dei quattro acquisì nel 1942 l’Eagle Bar and Grill, tra Surf Avenue e la Dodicesima. Da metà aprile a inizio ottobre all’Eagle si beveva, mangiava e suonava, e tutta Coney Island conosceva quel locale. Coney Island richiama la saga di Stephon Marbury, Sebastian Telfair e Jamel Thomas, quella che fa sembrare Cent’anni di solitudine un fumettone. In quegli anni a cavallo della guerra, però, era soprattutto il regno di Joe Bananas, boss mafioso nato a Castellammare del Golfo sotto il nome di Giuseppe Bonanno e trasferitosi a New York dopo un’adolescenza avventurosa. Bananas/Bonanno era il braccio destro di Lucky Luciano e nel 1957 partecipò al grande summit di Palermo presso l’Hotel des Palmes, ritenuto dagli storici della materia il grande snodo delle nuove rotte del narcotraffico. Insomma, stiamo parlando di un mafioso di peso, che esercitava un fascino perverso su tutta la comunità. L’Eagle andava a gonfi e vele ma doveva sottrarre ai profitti lordi l’alcol che “spettava” agli affiliati a Cosa Nostra e la mazzetta di duecento dollari settimanali da versare ai poliziotti. Un giorno, travolto dagli impegni, Molinas senior dimenticò l’appuntamento col capitano ebreo corrotto che lo proteggeva e quest’ultimo lo fece immediatamente arrestare con l’accusa di aver venduto alcol a un minore. Quando venne a conoscenza dell’accaduto Jack ne ricavò la rovinosa idea che buoni e cattivi non esistessero, e si trattasse solamente di una gran combutta. Un’idea che avrebbe segnato un’esistenza passata a cercare di ingannare gli altri nella presunzione che questi ultimi fossero impegnati nella stessa attività.

A dodici anni Jack fece conoscenza con una delle mille cose che gli riuscivano naturalmente facili: il basket. Louis e Betty non si capacitavano della nuova passione del figlio, per loro era qualcosa di iperuranio. E invece per Jackie era vero amore, soprattutto quando a quattordici anni crebbe fi no a 1,94 e cominciò a dominare. Alto e magro, divenne un giocatore perimetrale contravvenendo ai precetti dell’epoca che volevano quelli come lui piantati nelle vicinanze del ferro. Stava nascendo un grande giocatore, ma assieme a lui si stava sviluppando un grande criminale. In ambedue i mondi serve un esempio per eccellere, buono nel primo caso e cattivo nel secondo. Il cattivo esempio di Jack divenne Solomon Hacken, detto Joe Jalop per via del ferrovecchio che guidava. La famiglia di Hacken aveva compiuto un percorso simile ai Molinas. Papà Pincus era fuggito da un villaggio al confine austro-ungarico e appena arrivato negli USA aveva americanizzato il nome del figlio in Joe. Quel ragazzo avrebbe avuto sulla strada un successo inversamente proporzionale a quello che l’accento gutturale gli aveva negato a scuola. Joe Hacken decise presto che sarebbe diventato uno scommettitore professionista e che avrebbe ridotto i rischi del mestiere con tutti i mezzi, a patto che fossero molto illeciti. A diciotto anni aveva già truccato con successo la prima partita di basket, e quell’attivismo non passò inosservato sulla 188esima. Due pezzi grossi di Cosa Nostra come Frankie Carbo (al secolo Paolo Gianfranco Carbone) e Frank «Blinky» Palermo inserirono quel ragazzino così promettente nel loro business principale, i match truccati di boxe. Carbo e Palermo non truccavano combattimenti altrui ma erano direttamente promoter di quegli eventi, in modo da eliminare alla radice la possibilità di un match vagamente genuino. Dai due gangster Joe ereditò una visione che purtroppo possiamo (e dobbiamo) definire moderna. Così si inventò gli Hacken All-Stars, squadra di liceali che batteva regolarmente rappresentative collegiali nei tornei che furoreggiavano all’epoca. L’obiettivo era quello di farsi benvolere e di conoscere talenti che un domani avrebbe annesso con facilità alla scuderia dei corrotti. Perché ieri come oggi, speriamo un po’ meno domani, pochi si chiedono chi sono alcuni dei «mecenati» che «sostengono» lo sport professionistico e quali sono i motivi del loro «investimento».

Hacken era un gran dritto e un fine conoscitore di pallacanestro. Col fiuto sviluppato sulla strada capì subito che Jack Molinas sarebbe diventato una stella del basket, e quindi un prezioso alleato. Per questo lo coltivò con meticolosa attenzione, alternando piccoli favori a lezioni cattedratiche su quote e point spread, le scommesse a handycap che dopo la guerra erano diventate popolarissime. L’anno chiave è il 1944, quando il dodicenne Molinas si rese conto di avere un talento fuori dal comune per quello straordinario Gioco. È Hacken a piazzargli la prima puntata della vita, otto dollari su una partita degli Yankees. Jack perde e vede avvicinarsi il disastro, perché tre di quegli otto dollari li ha presi a prestito da un amico e per ripagarlo non può certo chiedere all’arcigno padre pena l’ennesimo incontro ravvicinato con la sua cintura. Il bookmaker però gli condona la somma dicendogli che è troppo giovane per scommettere, che prima deve capire bene come funzionano le cose in quel mondo e che è fortunato ad avere un amico che gli vuole bene. Secondo la discussa teoria dell’apprendimento sociale, percepire un rinforzo positivo dopo un’azione criminale implica una spinta a ripeterla. Vera o meno che sia la predetta teoria, per Jack funzionò alla grande. L’interessata generosità di Hacken fece presa sulla giovane stella, affascinata dalla furbizia del mentore e dalla facilità con cui uno con la sua intelligenza poteva eccellere nel settore. Perché lui intelligente lo era per davvero.

Dopo aver superato senza sforzo gli esami per entrare nella prestigiosa Bronx High School of Science, una lettera di coach Samuel Harrison «Doc» Ellner lo convinse a iscriversi alla parimenti importante Stuyvesant High School, anche se questo significava quaranta minuti di metropolitana ad andare e altrettanti a tornare ogni santa mattina. Ellner si era perdutamente innamorato della grazia e della facilità con cui Molinas giocava, ed era convinto che sarebbe bastato trovare un paio di altri giocatori decenti per fare di Stuyvesant una corazzata. Stan Maratos e Paul «Whitey» Brandt rispondevano a questa descrizione, e quello che mancava loro in talento lo recuperavano con la determinazione. Brandt in particolare era il perfetto complemento per «Mole», di cui sarebbe stato uno dei pochissimi veri amici fi no all’ultimo giorno. Quasi senza toccare i libri Jack aveva voti straordinari in quel 1946, anno in cui cinque giocatori del Brooklyn College vennero espulsi e incriminati per aver truccato delle partite. Considerando che i cinque felloni erano stati traditi da un’intercettazione telefonica ordinata per tutt’altre questioni (furto di merci), la storia comincia ad assumere una connotazione fin troppo moderna.

Se Molinas studiava pochino, lavorava però con grande dedizione sulla sua pallacanestro offensiva. Assieme al push shot a una mano e all’uno contro uno ora poteva contare su un gancio più che rispettabile, e con questo arsenale era immarcabile per le poco sofisticate difese del tempo. Il problema è che l’immarcabilità abbracciava anche altri e meno raccomandabili campi. Fedele al motto di hackeniana memoria «è la mente che guadagna, mentre i muscoli lavorano», divenne contemporaneamente l’una e l’altra cosa. Per scommettere sulle partite della sua Stuyvesant senza compromettere il risultato vittorioso bastava sbagliare un lay-up strategico o perdere accidentalmente un pallone, riducendo lo scarto finale al di sotto dello spread e acchiappando così i classici due piccioni con una fava. Dopo due stagioni Molinas entrò negli Hacken All-Stars pur essendo un implume quindicenne. Il suo purissimo talento e l’irresistibile attrazione verso le scommesse erano una combinazione perfetta per il non disinteressato sponsor. Papà Louis, che di malvivenza se ne intendeva, sapeva bene chi fosse Joe Jalop e cosa succedesse dietro le quinte del Bickford’s, il locale sulla 188esima ai cui tavoli Hacken organizzava il proprio business. Così nel 1948 negò al figlio il permesso di raggiungere i compagni per giocare la finale di un torneo importante. «Hacken è un poco di buono e i suoi amici tutti scommettitori di mezza tacca» tuonò con notevole precisione fattuale. Solo che ancora una volta, cercando di fare una cosa buona, peggiorò la situazione.

Jack effettuò il più freudiano dei transfert, sostituendo Joe Hacken all’odiata figura paterna con le disastrose conseguenze del caso. Trovato il coraggio di raccontare bugie al padre, aggirare i suoi divieti fu facile come vincere una scommessa truccata. Molinas segnava 20 punti di media contro avversari che potevano al massimo fargli il solletico in post basso, e si divertiva molto di più a sabotare le partite che a vincerle. Quello era banale, mentre per alterare il risultato doveva essere sempre concentrato, sveglio, pronto a non far risaltare errori troppo pacchiani e a non far prendere al punteggio una piega indesiderata: vuoi mettere l’ebbrezza? Ormai in tasca gli giravano parecchi soldi, e per paura che mamma Betty li scoprisse durante le pulizie teneva tutto il contante nel portafogli, andando in giro con somme esorbitanti. Per giustificare chi delinque troppo spesso si ricorre alla povertà, ma questo caso dimostra che non si tratta di soddisfare i bisogni primari. Jackie non faceva il criminale per denaro ma per assaporare le emozioni perverse dell’accumulazione fraudolenta della ricchezza. Quelle che solo il «fixing» delle partite poteva garantirgli e che amava sopra ogni cosa.

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