JOHAN CRUIJFF E LA REINVENZIONE DELLO SPAZIO




mercoledì, 6 settembre 2017 


Johan Cruijff sapeva accendere la fantasia come pochissimi altri. Ogni suo movimento con il pallone, che Nureyev associava alla danza, era totale e produceva un’eco di emozioni che non si è spenta. Esiste un riconoscimento costante per il gioco dell’Ajax forgiato da Rinus Michels, cuore e anima del Calcio Totale, per una civiltà calcistica avanzata che ha sedotto il mondo, segnando non solo la storia dei Paesi Bassi con il vero fine della bellezza.

Non conta soltanto vincere, ma soprattutto come lo si fa. «Correvano e si passavano la palla in un modo insolito, seducente, scorrevano attraverso il campo seguendo traiettorie ricercate, intricate, ipnotiche», scrive David Winner nel bel saggio Brilliant Orange (minimum fax, 362 pagine, 18 euro, traduzione a cura di Fabio Deotto), che è pure un’anatomia della nazione olandese capace del coraggio e dell’ingegno di attrezzarsi per vivere anche sotto al livello del mare.

«Non è un attaccante, ma fa tanti gol. Non è un difensore, ma non perde mai un contrasto. Non è un regista, ma gioca ogni pallone nell’interesse del compagno», diceva Alfredo Di Stefano, la Saeta rubia madridista, a proposito di Cruijff. Lui in un decennio stravolse il calcio olandese, che all’inizio degli anni Sessanta era ancora del tutto amatoriale, grezzo dal punto di vista tattico. Cruijff, all’epoca poco più che un ragazzino con i capelli lunghi, smilzo ma dall’energia incredibile, velocissimo, è stato l’avanguardia, l’icona di una rivoluzione culturale, politica e sociale che trasformò una piccola nazione puritana, austera e calvinista.

Il calcio è un gioco serio ma elegante, sosteneva Vic Buckingham, l’allenatore che preparò il terreno per il Calcio Totale dell’Ajax: trovarsi d’istinto, controllare sempre il possesso della palla, attaccare senza sosta, sentire come squadra un ritmo e suoni comuni. Dopo il grigiore del periodo postbellico, la battaglia contro la noia non era una cosa semplice e Cruijff come Best, figlio di un venditore di frutta e verdura tifosissimo dell’Ajax nonché amico del custode del campo, l’ha combattuta sul rettangolo verde con l’agilità, la sensibilità e lo stile incomparabile che assomigliavano alla gioia.

A venti anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la ribellione giovanile con epicentro ad Amsterdam s’incrociò con quella di una generazione, non solo Cruijff, di calciatori dall’attitudine ribelle, dal talento e dalla sostanza straordinari. L’autore ricorda come la giocosità, talvolta surreale, anarchica e teatrale era interpretata da quella generazione come la chiave per un mondo migliore. La felicità della gente che riempiva lo stadio e l’essere acclamati per il proprio stile rappresentavano le vittorie più importanti.

Il nesso tra una rivoluzione culturale e quella calcistica sta negli obiettivi, stavano facendo tutti un’unica cosa in modi diversi. Ciò che unisce quelle due rivoluzioni è l’atteggiamento liberale nei confronti dell’autorità, dice l’autore. Cruijff provocava l’ordine costituito e smantellò la gerarchia del calcio olandese. Il suo individualismo era creativo, di sistema: «Noi olandesi diamo il meglio quando possiamo combinare il sistema con la creatività individuale. Cruijff è il rappresentante principale di questo approccio. Ha ricostruito questo paese dopo la guerra. Credo sia stato l’unico ad aver realmente capito gli anni Sessanta», argomenta il tecnico Louis Van Gaal.

È interessante anche un altro nesso che lo scrittore esplora, quello con l’architettura, lo sviluppo del concetto di città come opera d’arte totale: «Con quasi quarant’anni d’anticipo sulla scuola calcistica dell’Ajax, la Scuola d’architettura di Amsterdam trovò il modo di conciliare la disciplina collettiva con la creatività individuale». Il principio consiste nella correlazione fra i sistemi per un reciproco scambio di influenze al fine della nascita di un sistema unico, complesso. Le costruzioni dovevano essere ariose, efficienti, flessibili ed esteticamente giocose come è stato il sistema dell’Ajax. La flessibilità nell’interpretazione dei ruoli quanto lo scambio delle posizioni erano un ingrediente fondamentale per indossare quella maglia. Era questione d’istinto e memoria dei movimenti: una forma d’arte collaborativa come l’architettura.

Non è un paradosso la ricerca di un equilibrio prettamente offensivo, che partì dalla difesa aggressiva, con l’acquisto del miglior giocatore dell’allora Jugoslavia, l’inflessibile capitano del Partizan Belgrado, il libero Velibor Vasović.

La parola totaalvoetbal, concetto fondato su una nuova teoria di flessibilità spaziale, entrò a far parte del linguaggio olandese non prima del 1974. Termine utilizzato per descrivere il calcio in stile Ajax giocato dalla nazionale olandese nella Coppa del Mondo di quell’anno persa in finale. Dieci anni prima il decano del design olandese Wim Crouwel aveva lanciato il suo studio Total Design.

Dal 1971 per tre anni consecutivi l’Ajax vinse la Coppa dei Campioni. Il pilastro del gioco consisteva nel reinventare lo spazio a disposizione con nuove geometrie, che allargavano l’estensione fin lì percepita del campo stesso. Si trattava dunque di creare e occupare spazio nuovo, sistematizzando i movimenti senza uccidere la creatività. Si rintraccia così l’identificazione con la storia e la geografia dei Paesi Bassi, uno dei territori più affollati e rigidamente organizzati della terra in lotta costante contro l’invasione delle acque. La stessa origine della democrazia olandese risiede nella costruzione cooperativa delle dighe.

Il saggio s’intreccia in modo interessante con la storia novecentesca europea. Winner rievoca la ferita dell’occupazione nazista e del collaborazionismo con la pagina nera della deportazione degli ebrei da Amsterdam. Lo stadio dell’Ajax era vicino ai quartieri con la più forte presenza ebraica della città e la squadra era immersa nella cultura ebraica, avendo un grande seguito fra gli ebrei.

L’Ajax era un esperimento raro per lo sport professionistico di democrazia e di libertà di cui disponevano i giocatori. Era un equilibrio delicato fra responsabilità collettiva, uguaglianza e individualismo che poteva mettere però in discussione la disciplina e la coesione. Una votazione interna, quasi a rifiutare le necessità di una leadership forte, fece perdere la fascia da capitano a Cruijff e sancì il suo addio all’Ajax, destinazione Barcellona dove da calciatore e poi forse più da allenatore riuscì a infondere lo spirito del calcio offensivo.

«Se le persone dicono che il mio Barcellona giocava il calcio più bello al mondo, cos’altro chiedere?».

Cruijff, scomparso poco più di un anno fa a causa del cancro, mostrava l’audacia e il rifiuto proprio di chi crea. Non si limitò a soddisfare la domanda di calcio preesistente, la ricreò su presupposti differenti. Indicò al proprio mondo la possibilità di una sperimentazione estetica. Rese distinguibile la purezza della sua idea di calcio tanto da ingombrare un’eternità.


Gabriele Santoro, classe 1984, è giornalista professionista dal 2010. Si è laureato nel 2007 con la tesi, poi diventata un libro, La lezione di Le Monde, da De Gaulle a Sarkozy la storia di un giornale indipendente. Ha maturato esperienze giornalistiche presso la redazione sport dell’Adnkronos, gli esteri di Rainews24 e Il Tirreno a Cecina. Dal 2009, dopo un periodo da stageur, ha una collaborazione continuativa con Il Messaggero; prima con il sito web del quotidiano, poi dal dicembre del 2011 con le pagine di Cultura&Spettacoli.

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