Gli anni dell’ascensore 1974-1992
Sfortuna e retrocessioni
Terminato il ciclo del Barone e Beppe Lamberti, inizia un ventennio travagliato per la Fortitudo, fatto di momenti difficili alternati a grandi esaltazioni.
Per il dopoSchull viene ingaggiato il primo colored della storia biancoblu, Gill McGregor, un centro americano dalle buone referenze (è anche il primo giocatore a vestire la maglia della Effe ad aver già militato in NBA), ma che a causa di un infortunio ad un occhio subito in estate, è praticamente una talpa che non vede il canestro manco da cinque centimetri. Celeberrima rimane una sua prepotente schiacciata…sul parquet, che scatena la costernazione mista a risate tra i tifosi sugli spalti del palasport.
Per la prima volta la Fortitudo sarebbe retrocessa in serie B, ma viene ripescata e la dirigenza non vuole più correre rischi: viene addirittura ingaggiato come coach il Professor Aza Nikolic reduce dai trionfi varesini. In cabina di regia l’astro nascente Charlie Caglieris e come pivot il biondo e tecnico Ron De Vries. Il campionato parrebbe procedere tranquillamente, con alcuni lampi – come una netta vittoria nel derby contro la Virtus di Tom McMillen – quando la sfortuna si accanisce ancora: De Vries si infortuna alla schiena e resta fuori fino alla fine della stagione. L’Alco tutta italiana si batte con il coltello tra i denti, ma viene sconfitta in un drammatico spareggio controRoma e questa volta la retrocessione in A2 non è più evitabile.
Un anno meraviglioso
Pronta risalita nella serie maggiore l’anno successivo (con Dodo Rusconi e Fessor Leonard ad aggiungersi ad un roster già di buon livello), ma i problemi di bilancio incombono e impongono un drastico ridimensionamento degli obiettivi. Vengono ceduti per rimpinguare le magre casse Primo Giauro e Amos Benevelli, Nikolic e Rusconi prendono altre strade e così la Fortitudo deve ripartire con una squadra che molti candidano ad un’inesorabile nuova discesa nella serie inferiore.
In panchina fa il suo esordio come capoallenatore John McMillen, fin lì conosciuto solo come vice di Dan Peterson alla Virtus. Accanto ai veterani Picchio Orlandi e Franz Arrigoni, il compianto Fessor Leonard e un manipolo di giovani con poca o nulla esperienza nel massimo campionato: Bonamico, Benelli, Polesello, Casanova e Biondi. A poche settimane dall’inizio della stagione, arriva dall’Argentina l’oriundo Carlos Raffaelli e tutto lo scenario cambia improvvisamente. L’Alco strabilia in Italia dove arriva terza assoluta al termine dei playoff – e in Europa, all’esordio in Coppa Korac, conquista addirittura la finale in quel di Genova contro la Jugoplastika Spalato, dove viene compiuto uno degli scippi più clamorosi della storia del basket europeo: Raffaelli viene squalificato per non aver risposto alla convocazione della nazionale argentina e non può giocare quella partita. Il capo della FIBA, lo slavo Boris Stankovic, è protagonista di questa decisione… al di sotto di ogni sospetto.
La finale è una corrida senza pietà, i fischietti compiacenti eliminano ad uno ad uno tutti i lunghi bolognesi e nonostante ciò la Fortitudo resta attaccata agli spalatini fino all’ultimo secondo, uscendo però sconfitta di soli 3 punti. Finisce con un inseguimento generale agli arbitri e il francese Mainini che rimedia qualche robusto e meritato scabuffo. La coppa viene consegnata agli slavi negli spogliatoi, mentre sul campo succede di tutto e di più. Inevitabile la squalifica per gli anni successivi in Europa.
The Hawk è passato di qui
L’estate successiva si apre la possibilità di ingaggiare un leggenda del basket americano: Connie Hawkins, “The Hawk”, ormai trentacinquenne ma ancora in grado in pre-campionato di far strabuzzare gli occhi a tutti con i suoi passaggi a effetto e il suo carisma. Un giovane Fulvio Polesello si ritrova tra le mani palloni che non si sa da dove sbuchino e che lui deve solo depositare a canestro, viaggiando in preseason a 30 punti di media. Ma la dirigenza biancoblù non se la sente di rischiare con un giocatore che è così avanti negli anni, poiché non è ancora possibile sostituire uno straniero che si infortuni. E’ John McMillen, con le lacrime agli occhi, a comunicare a Hawkins la decisione. “The Hawk” come mirabilmente raccontato da Lorenzo Sani nel suo libro Vale tutto resterà a Bologna ancora altri mesi, senza avere il coraggio di dire alla moglie di essere stato tagliato e raccontandole fantasiose storie su come sta andando il suo campionato.
Viene ingaggiato al suo posto “Cannarella” Cummings, e l’Alco si salva con grande fatica. L’anno dopo, la retrocessione in A2 arriva invece inesorabile e le uniche note positive sono l’ingaggio dalla Francia del pivot Marcelous Starks e l’esordio in prima squadra di un giovane del vivaio, Maurizio Ferro.
Venezia, la luna e noi
Il campionato di A2 1979-80 parte con poche speranze: i problemi economici non permettono di allestire una squadra che punti con certezza al ritorno in A1. Invece, come è accaduto tre anni prima, la Fortitudo – dopo un avvio stentato – sorprende tutti. Dante Anconetani, Rizio Ferro, l’intramontabile Franz Arrigoni e Marcel Starks trascinano un gruppo fatto di giovanissimi, tra i quali spicca il nome di una giovane promessa che diventerà poi un grande protagonista del basket italiano: Walter Magnifico. A questi si aggiunge un americano, Charles Jordan, tra i più funambolici ed amati tra quelli che hanno vestito la maglia della Effe. Dopo un lungo inseguimento, la Mercury si gioca tutto in una partita a Venezia, contro la Canon grande favorita del campionato. Seguita da centinaia di tifosi alla fine in delirio sulla laguna, la Fortitudo espugna l’Arsenale al termine di un match drammatico, reso famoso dalla stoica volontà di Starks di tornare in campo nonostante un duro colpo subito nel primo tempo, mentre lo staff medico lo vorrebbe portare in ospedale. Di lì alla fine saranno solo vittorie e la promozione in A1 viene messa in cassaforte con l’ultima partita vinta a Fabriano, con scazzottate di prammatica in campo e sugli spalti.
Poveri ma belli
Dopo un anno di normale transizione, il campionato 1981-82 riparte con una nuova scommessa basata sui giovani. Ci sono ancora Starks, Jordan e Anconetani. Non c’è più Maurizio Ferro, ceduto per far cassa agli odiati cugini della Virtus. C’è il ritorno, questa volta in panchina, di Dodo Rusconi. Ci sono tanti ragazzi, come Santucci e Bergonzoni, tra i quali fa il suo esordio in serie A un diciassettenne toscano, Massimo Jacopini. Le prime partite riservano un impatto a dir poco sconcertante con sconfitte pesanti in casa e fuori. Poi, improvvisamente, la squadra trova un suo equilibrio, risalendo la classifica e conquistando i playoff, cosa che nessuno avrebbe pronosticato.
La stagione successiva, nuova rivoluzione. Starks e Jordan partono per altri lidi e si punta su due giovani americani usciti dalla NCAA. Il play Clyde Bradshaw e la stella nascente Fred Roberts, che fa vedere di possedere i numeri per approdare, come poi farà, in NBA. Peccato che… non sia un pivot e così, soffrendo terribilmente sotto le plance, il Latte Sole inanella una serie di sconfitte che portano ad una nuova retrocessione in A2.
La effe di John
Nel 1983 inizia l’era del duo Gambini e Caselli alla guida della società e le premesse sono più che confortanti. Lo sponsor Yoga garantisce una certa solidità economica. Arriva la guardia americana John Douglas e il centro – a dir poco … scorbutico – Earl Williams. In panchina, proveniente dal Maccabi Tel Aviv – Rudy D’Amico, che dopo alcune sconfitte non preventivate, viene sostituito dal giovane vice Andrea Sassoli, che poi resterà alla guida della Effe per altre tre stagioni. Alla fine la promozione viene conquistata a Perugia e con essa i playoff, terminati subito con due sconfitte contro Varese, la seconda delle quali ovviamente giocata senza Williams, che si era fatto espellere per l’ennesima volta nella gara di andata.
L’anno dopo arriva il fratello di John, Leon Douglas, che diventerà ben presto un beniamino dei tifosi per il suo atteggiamento in campo. Purtroppo la squadra, nonostante i molti complimenti per il suo gioco, non riesce a concretizzare alcune partite perse di misura e arriva l’ennesima retrocessione in A2.
L’anno dopo la Yoga mette a segno un colpo ad effetto ingaggiando George “Ercolino” Bucci, idolo di Siena e diventato italiano dopo un anno di purgatorio in Promozione. Giocando di fatto con tre americani la Fortitudo riconquista abbastanza facilmente la serie superiore e il campionato 1986-87 sembra finalmente quello che può far spiccare il volo all’Aquila. Dopo la vittoria nel derby di Natale, la Yoga si issa al 3° posto in classifica, ma lì qualcosa si rompe e dopo aver mancato l’accesso ai playoff, la Effe deve retrocedere nuovamente nei playout, dopo una drammatica partita da “dentro o fuori” a Napoli, in cui il trionfale ingresso tra il pubblico di Diego Maradona cambia l’inerzia dell’incontro e … dell’arbitraggio.
Il sorpasso
E’ una delusione cocente, a seguito della quale la dirigenza biancoblu decide di rivoluzionare l’assetto della squadra. Si inizia dalla panchina: il trio Gambini-Caselli assieme al DS Giancarlo Sarti si presenta a casa di Mauro Di Vincenzo – reduce dall’essere stato nominato allenatore dell’anno a Livorno – e gli comunica che non se andrà di lì senza la sua firma sul contratto. Di Vincenzo accetta, ma chiede che il primo rinforzo sia Daniele Albertazzi, che lui ha trasformato in ala pura e che è anch’egli reduce dal titolo di miglior giocatore italiano l’anno precedente. Entrambi accettano di scendere in A2, affiancandosi a Jack Zatti, George Bucci e a due americani che più diversi tra loro non potrebbero essere: il lunghissimo ma tecnicamente validissimo Wally Bryant e il concreto ed essenziale Bill Garnett, tutti e due con esperienze italiane alle spalle, a Cantù e Torino. A completare la rosa arriva anche da Venezia il mortifero tiratore Moris Massetti, ex-scuola Virtus.
Il campionato di A2 viene dominato e sembra servire solo ad assemblare al meglio la squadra in vista dei playoff, che riservano agli ottavi l’incrocio che tutti i fortitudini desiderano: quello con la Virtus, allenata dal “Vescovo” Kresemir Cosic. Sono forse i tre giorni più intensi e straordinari della storia della Fortitudo prima dell’era Seragnoli: la domenica la Yoga strapazza nel primo tempo la Knorr, arrivando a 20 punti di vantaggio. Poi subisce il ritorno dei bianconeri, ma un super Bucci (da monumento equestre, chioserà un ammirato Walter Fuochi) chiude il match con cinque canestri consecutivi che non lasciano scampo agli avversari. Il lunedì una fila interminabile di tifosi si accalca ai botteghini di Piazza Azzarita fin dalle prime ore del mattino e il mercoledì l’aria che si respira dentro al Palasport richiama – e forse ancora di più – il clima delle stracittadine degli anni dell’Eldorado.
E’ una partita scorbutica e dura. La Yoga sembra aver paura di vincere e sbaglia cose che normalmente esegue ormai a memoria. E’ Tazzi a suonare la sveglia, con un recupero a metà campo su Villalta, che per fermarlo compie fallo intenzionale. Da lì alla fine c’è solo Fortitudo, con Zatti che vola a schiacciare a canestro in faccia a Kyle Macy e a tutta la difesa virtussina, liberando l’urlo del palasport, forse per la prima volta in stragrande maggioranza biancoblu. E’ “il sorpasso”, tanto atteso da tutti i fortitudini, dopo anni di egemonia cittadina della Virtus.
Passato il turno, ad attendere la Yoga è Cantù. I bolognesi sprecano la grande occasione in gara-1 in Brianza, persa dopo i supplementari. Gara-2 viene risolta da un tiro dall’angolo allo scadere di Wally Bryant. Si deve giocare la bella, con la convinzione di potercela fare, ma nell’ultimo allenamento Wally, dal carattere non proprio gioviale, decide di stendere con un diretto Garnett dopo un normale contrasto sotto canestro. Il bel giochino si rompe improvvisamente e a Cantù non c’è partita, tramortiti dalle bombe di Antonello Riva.
Artis for Arimo
Nell’estate successiva si punta a rafforzare la squadra, per proiettarla ai vertici della pallacanestro nazionale. Torna da Livorno “Black” Nino Pellacani e soprattutto vengono ingaggiati dagli States due giocatori con grande esperienza NBA: Eugene “Gino” Banks e addirittura Artis Gilmore, una vera e propria leggenda del basket americano. Nonostante questi rinforzi, la squadra fatica a riconquistare il livello di gioco dell’anno prima. Gino – che comunque è diventato in poche settimane un idolo della tifoseria – è reduce da un infortunio che non ha ancora del tutto recuperato. Gilmore – ormai alla soglia dei 40 anni – troneggia in difesa, ma in attacco i compagni faticano a ritrovarsi con un centro che occupa spazio staticamente. L’arrivo di Vincent Askew al posto di Banks rilancia la squadra, ma al di là di qualche risultato eclatante – come la vittoria nel derby del “Grande Freddo” con 32 punti di scarto – la stagione si conclude ai quarti di playoff contro l’Enichem Livorno. Un risultato alla fine un po’ deludente, per un roster che secondo coach Di Vincenzo avrebbe potuto puntare al titolo se solo ci avesse creduto con più convinzione.
Per il campionato 1989-90 vengono ingaggiati gli americani Chris McNealy e Dave “Formaggione” Feitl. Pellacani parte per Treviso, sostituito da Moreno Sfiligoi, giocatore generoso ma assai poco incisivo in attacco. La squadra balla sulla soglia della quota playoff, ma alla fine non riesce a raggiungerli. Decisiva la sconfitta contro Milano, giocata a Forlì perchè il palasport è occupato dal congresso di un partito politico, nonostante un esodo biblico di tifosi che in più di 4000 riempono il palazzetto romagnolo. Nei playout la squadra si sfalda e con una serie di sconfitte non pronosticabili scende di nuovo in A2, mentre grosse nubi di carattere finanziario si addensano sulla società.
Gli anni degli incubi
Germano Gambini è costretto a lasciare la proprietà della Fortitudo e l’avvocato Renato Palumbi riesce a tamponare la situazione debitoria tenendo buone le banche. Si deve però ripartire dai giovani, ridimensionando pesantemente il valore del roster. Della vecchia squadra resta solo capitan Albertazzi, sotto canestro viene ingaggiato una vecchia conoscenza del basket italiano, Cedric Hordges, Dal Mar Baltico arriva Valdemaras Chomichus, il primo sovietico a giocare in Italia. Per il resto tutti juniores o quasi, provenienti dal settore giovanile, con Stefano Pillastrini in panchina: Dallamora, Cessel, Ballestra, Neri, Sabatini, Golinelli, Della Valentina, con l’aggiunta di Emilio Marcheselli in prestito dalla Virtus. L’Aprimatic in casa bene o male riesce a portare legna in cascina, ma in trasferta non vince mai. Chomichus tira e segna, ma c’è bisogno di più sostanza nel reparto esterni. Così si arriva ad ingaggiare Pete Myers che può ricoprire tre ruoli a seconda delle esigenze. Si arriva a due giornate dalla fine con l’incubo della retrocessione in B ancora vivo, ma la vittoria a Cremona – con uno storico esodo di oltre 2000 tifosi per i quali la fede non conosce classifica o serie in cui si gioca – spegne le paure, almeno per quello che riguarda il campo.
Nell’estate si cerca di rinforzare la squadra con elementi di maggiore esperienza, come lo statuario pivot Renzo Vecchiato e la guardia Mauro Bonino (“idolo locale”). Confermato Pete Myers, dagli States arriva addirittura una prima scelta NBA, Shaun Vandiver, che però si rivela lento e poco reattivo, anche a causa di un ginocchio malandato che lo costringerà a … tirarsi dietro una gamba per tutto il campionato. La musica non cambia: in casa qualche punto si raccoglie, ma lontano da Bologna si torna sempre con un pugno di mosche. Stavolta sembra davvero la fine, perchè scendere in B significherebbe probabilmente la scomparsa della Fortitudo dalla scena del basket nazionale e l’addio ad ogni progetto di rilancio.
Teo il salvatore
A poche ore dall’ultima decisiva partita – a Reggio Emilia, contro una Sidis ancora in lotta per i playoff di A2 – sbarca al Marconi Teoman Alibegovic, che gioca in una semi-sconosciuta serie minore americana e che porta con sé buone referenze di chi però l’aveva visto giocare l’ultima volta da… juniores. Dire che la situazione sia disperata sarebbe un eufemismo. Teo mette tutti tranquilli, senza rendersi ovviamente conto di dove sia capitato e quale sia la situazione e lo stato d’animo di compagni e tifosi: nella ruota sul campo di Reggio Emilia, vedendo Alberto Ballestra bianco come un fantasma, lo avvicina dicendogli candidamente “Non vedo perchè non dovremmo vincere questa partita”. Tutti gli occhi dei circa mille bolognesi che sono riusciti a trovare un biglietto con ogni stratagemma – gli altri sono fuori dall’angusto palazzetto di via del Guasto con la radiolina incollata all’orecchio – guardano i movimenti di questo segaligno slavo, dalle orecchie a parabola, che nessuno ha mai potuto vedere fino a quel momento. Lui inizia la partita con la stessa serenità che emana da due giorni: un’entrata in gancio, una schiacciata in contropiede, una bomba da tre. La Fortitudo mette il naso avanti dopo un inizio impacciato e resiste al ritorno dei reggiani nella ripresa. Tazzi molla un paio di botte strategiche ai due colored Massenburg e Binion che sotto canestro fanno davvero quello che vogliono. Bonino mette una tripla in un momento in cui nessuno fa paniere, Dallamora gioca un match tutto sostanza e Pete Myers – nella sua partita migliore da quando è a Bologna – non sbaglia un tiro libero, nonostante i reggiani lo mandino ripetutamente in lunetta. Teo continua a segnare e quando Dalla infila un corridoio sotto canestro e va a schiacciare di prepotenza, un gesto che ricorda a tutti quello di Jack Zatti nel “derby del sorpasso”, si scatena la baraonda del popolo biancoblu, che invade il campo con una gioia incontenibile e lascia … in mutande, non in senso figurato, i giocatori della Fortitudo. Primo fra tutti proprio Teo Alibegovic, portato in trionfo e ribattezzato da quella sera – per acclamazione unanime – con l’appellativo de “Il Salvatore”.
E’ il 2 aprile del 1992. Nella storia della Fortitudo ci sono state tante vittorie importanti, ma nessuna ha avuto il peso di questa. Dopo più di vent’anni si sono ritrovati in Fortitudo i tifosi, assieme a Teo, a Lino Bruni – che sedeva in panchina quella sera – a Cristian Cuccoli, Mauro Bonino, Alberto Ballestra e Andrea Dallamora, per ricordare quella emozione. Andrea Tosi, storica penna della Gazzetta dello Sport e da sempre cuore biancoblu, ha voluto così commentare questo appuntamento: "Solo i fortitudini possono voler festeggiare dopo oltre vent’anni non uno scudetto, ma una salvezza”.
Niente altro da aggiungere.
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