Sappada per sempre
Trent’anni, e sembra ieri. Sappada: basta la parola.
C’è chi ancora ci attacca prima il “massacro” o il “tradimento” di Stephen Roche a Roberto Visentini, suo capitano alla Carrera e maglia rosa in corsa e uscente.
Era il Giro ’87. Trent’anni fa, appunto. Sembra ieri, e invece è come se fosse passato un secolo. Altri tempi, altro ciclismo, altro mondo.
Se siamo qui a scriverne, non è per cavalcare antichi rancori mai sopiti ma per perpetrarne l’epica, e magari sfatare bugie vecchie e nuove e luoghi comuni duri a morire. Tipo: il Visenta bello e impossibile, il figlio di papà troppo ricco per far fatica in bicicletta, il playboy che amava la bella vita e girava in Ferrari; o lo Stefano irlandese furbetto e vilipeso dall’Italietta provinciale che è sempre stata e forse sempre sarà e sciovinista che mai è stata e forse mai sarà.
Siamo andati a rileggerli, i giornali e le riviste dell’epoca, e di là delle ovvie partigianerie (specie anglosassoni per il più mediatico Steve; e nostrane per l’invidiato e scostante Roberto), è curioso dopo sei lustri osservare come in realtà nel ciclismo e nel modo di raccontarlo gli unici a essere davvero cambiati – con materiali, alimentazione, metodologia e scientificità della preparazione – siano soprattutto loro, i corridori.
Non così i suoi cantori, che sembrano invece schiacciati dall’epicità dei propri predecessori.
Uno sport oggi ipertecnologico e ancora così eroico che sembra non avere aedi all’altezza del proprio pioneristico passato.
Anche per questo siamo andati a caccia di protagonisti e comprimari di Sappada 1987. Non per riaprire ferite mai del tutto rimarginate ma per reimparare a «essere» questo mestiere: perché giornalista si è, non si fa. E giornalista, come chi corridore è stato, non si smette di esserlo. Mai.
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