Ferretti, la nostalgia del Sergente

Tuttobici, numero 11 - Anno 2012

di Pier Augusto Stagi

Sette anni. Sono già trascorsi sette anni da quando Gian­carlo Ferretti ha lasciato il ciclismo. E tanti ce ne sono voluti per assorbire il colpo. Per metabolizzare il distacco da un grande amo­re, per riordinare i pensieri, per trovare dentro di sé lo slancio e la voglia di guardarsi dentro, di smettere di raccontarsela e di mettersi a raccontare. Così, con la complicità di Rosalba, sua moglie, ha messo in fila uno dopo l’altro una serie di ricordi, che poi sono storie e che a loro volta vanno a comporre la storia di un ottimo corridore, divenuto in seguito uno dei tecnici italiani più apprezzati e vincenti della storia del ciclismo.
Siamo andati a trovarlo a San Bernar­dino di Lugo, in quel piccolo borgo del­la Romagna, in un giorno d’inizio ottobre, quando i colori dell’estate so­no ormai spenti e quelli dell’autunno si preparano a prendere il loro posto.

Come va, Giancarlo?
«Bene, devo dire che adesso va molto meglio. Non ti nego che stare lontano dal ciclismo non è stato semplice, ma alla fine ce ne si fa una ragione e ora posso dire di essere perlomeno sereno».

Come è nata l’idea di scrivere un libro?
«In un afoso pomeriggio d’agosto. Mi ero assopito al sole ed ero avvolto da una struggente malinconia. Quanti ri­cordi… sembravano tutti sogni. Sogni realizzati, però. E allora mi sono detto: sai cosa faccio, quasi quasi ora scrivo un li­bro, per me e per quanti con me hanno vissuto e realizzato questi sogni. Poi successivamente, al Giro d’Italia, in­contro Gianni Mura, grande giornalista e amico il quale mi dice: “Ferron, ma perché non scrivi un libro?....”. E così ho fatto, con l’aiuto di mia moglie che ha dato forma ai miei pensieri, abbiamo scritto un libro. Ma un grazie va anche al lavoro prezioso dell’editore (Edit Faenza) e del presidente della Banca di Ro­ma­gna (Atos Billi), senza i quali questo progetto non poteva vedere la luce. Quindi, permettimi di dire loro grazie».

Ma non hai mai pensato di tornare nel ciclismo?
«Ci ho provato, e ci sono anche arrivato molto vicino, ma non ce l’ho fatta. Per tre anni ho lavorato con la Weber, azien­da di grande livello nel mercato dell’edilizia professionale, che fa capo al Gruppo Saint-Gobain. Un giorno vengo chiamato, perché volevano investire nel ciclismo. L’obiettivo era fare un team tutto loro, ma il budget era solo di un milione e mezzo di euro. Spiego loro che con certe cifre non era possibile fare una squadra di vertice, in grado di competere nel mondo con squadroni che avevano budget molto più importanti. Dopo diversi incontri, mi defilo. Marco Corradi, l’allora amministratore delegato di Weber Italia, però è deciso: vuole fare qualcosa di im­portante nel ciclismo. Io gli suggerisco allora di investire nel Giro d’I­ta­lia. Ne parlo con Angelo Zo­me­gnan, allora a capo della corsa rosa, e nasce l’idea di rilanciare la maglia bianca di miglior giovane. Due anni (2007 e 2008) di sponsorizzazione come maglia bianca, ma poi altri due come rossa (ex ciclamino), e io ven­go chiamato a ricoprire per Weber Italia il ruolo di raccordo tra l’azienda e il ciclismo, una sorta di “testimonial”, che segue il Giro e alla sera contribuisce alla buona riuscita delle convention che in tutte le tappe la Weber organizzava per incontrare sul territorio la propria clientela privilegiata. Sono stati tre anni importanti (il quarto ho ce­duto la mano), molto faticosi e intensi, nei quali ho cercato di portarli nel grande ciclismo come main sponsor ma non ce l’ho fatta. Nonostante il dottor Corradi e l’archi­tetto Bruno Tossenti fossero grandi appassionati, non sono riuscito nel mio intento».

Che tipo di corridore sei stato?
«Tosto, leale, fidato. Amavo la bicicletta. Incominciai a correre a 17 anni, nel Pe­dale Fusignanese. Poi nel ’59 mi ven­nero a contattare quelli della Rina­scita di Ravenna, offrendomi gratuitamente il ritiro collegiale a Ra­ven­na, con grande sollievo della mia famiglia che non poteva addossarsi le spese. Anni bellissimi e lievi, mai più provai certe sensazioni. Quelle si provano solo quando si hanno vent’anni. Poi scoprii che la vita è fatta di strade da intraprendere, di scelte che fanno discutere e ti fanno sentire anche un po’ traditore. Arriva la Vital di Fusignano che mi offre 30 mila lire al mese e io “tradisco” la Rinascita. Nella mia carriera da dilettante ho ottenuto molti piazzamenti e solo cinque vittorie. Ma ero un corridore vero, solido, affidabile. Per questo nel 1962 mi guadagnai la convocazione in azzurro per partecipare al mondiale di Salò e al Tour de l’Avenir. Elio Rime­dio, all’epoca commissario tecnico dei dilettanti, si rivela per me una persona davvero importante. È da lui che imparo il valore della preparazione e dell’alimentazione. Con Rimedio vivo anche uno dei momenti più belli e brutti della mia carriera di­lettantistica. Sono al Tour de l’Avenir, stacco tutti sull’Izoard, passando da solo davanti al monumento che all’epoca ricordava il grande Fausto Coppi, ma lungo la discesa cado malamente. Mi rialzo im­me­diatamente, cambio bicicletta e ri­parto. Il ginocchio mi fa male, l’an­datura non è più la stessa, quella che poteva essere un’impresa si trasforma in un calvario. All’ultimo chilometro vengo ripreso da Gomez Del Moral e in un colpo perdo tappa, ma­glia gialla (che sarà indossata proprio Del Moral) e corsa. Finisco il Tour delle speranze al quarto posto. Avrei potuto passare prof con le stimmate del campione, non fu così. La vita è fat­ta anche di episodi fortunati. Di mo­men­ti giusti. Se passa il treno e non lo prendi, resti giù».

Però passi alla Legnano del mitico Ebe­rar­do Pavesi…
«A 21 anni mi trovo in una grande squadra con Imerio Massignan e il mio grande amico Carletto Chiappano. Ri­cordo che Pavesi scrisse come sua abitudine una lettera a tutti i componenti la squadra, che si concludeva con queste parole: “Ricordati che sen­za cannoni non si possono vincere le guerre, ma anche con le sole mitragliatrici si può vincere qualche battaglia”. Da direttore sportivo mi sono sempre ricordato di questa frase per trasmettere lo spirito battagliero alle mie squadre».

E dopo la Legnano…
«Dopo tre anni con Pavesi, Chiappano fu richiesto dalla Sanson di Italo Zilioli e, a mia insaputa, Carletto pose come con­dizione il fatto che con lui ci fossi anch’io. Andammo entrambi alla San­son di Zilioli, Balmamion, Bariviera e Conterno».

Poi, finalmente la Salvarani: la Juventus delle squadre…
«Era il 1967. Luciano Pezzi mi chiama in una delle squadre più forti e prestigiose del mondo. A Pezzi feci solo una richiesta: “Sono onorato di poter far par­te di questa squadra, ma accetto s­o­lo se entrerà a far parte di questo progetto anche Carletto Chiappano”. A distanza di anni restituivo il favore che il mio amico mi aveva fatto anni addietro, senza neanche avvertirmi. Pezzi accettò al volo, anche perché Carletto era un ottimo corridore. Entrai così a far parte dell’Olimpo del ciclismo. Quel­li furono i mi­gliori anni della mia carriera, al fianco di un corridore eccezionale: Felice Gi­mon­di».

Eccezionale anche Luciano Pezzi, però…
«Immenso. Uomo di grande intelligenza, di grandissimo carisma e personalità. A lui mi sono ispirato quando di­ven­tai direttore sportivo. Era auto­re­vole e se­vero quando occorreva. Serio e meticoloso nella gestione della squadra. Ma era anche un buon padre. In una parola: un uomo giusto. I fratelli Sal­varani lo stimavano molto. Devo riconoscere che Napoleone, così chiamavano Pezzi, è stato per me un maestro di vita».

Un maestro è stato anche Gimondi, compagno di stanza.
«Io lo considero un fratello. Gli allenamenti che facevo con Fe­li­ce non erano passeggiate. Lui era to­sto, rigoroso come pochi, esigente co­me nessuno. Spesso Pezzi organizzava per lui allenamenti a Imola e io ero il compagno designato. Felice menava come pochi e, alla fine di un allenamento, cercava sempre di staccarmi. Qual­che volta ci riusciva e allora per lui era un buon allenamento. Qualche volta no, e allora era un cattivo allenamento. Un giorno gli spiegai anche che forse sbagliava: “Felice, guarda che og­gi non mi hai staccato perché non ab­biamo fatto una montagna di chilometri e fino ai 200 chilometri io sono un buon corridore. Ma dopo i 250 io so­no Ferretti e tu Gimondi”. Felice si fi­dava di me, si sentiva tranquillo con il sottoscritto, co­sì un giorno mi disse di andare a Villa d’Almé ad allenarci a ca­sa sua. Una settimana, poi me ne chiese un’altra. Io gli dissi, “Felice devo tornare a casa”. E lui, “se resti ti presto la mia Porsche grigio argento”. Fu di pa­ro­la. Dopo quella settimana tornai a casa in Porsche. Chiamai la mia Ro­salba e feci un figurone».

Che tipo era Gimondi?
«Rigoroso e determinato. Uno di parola. Ma anche un amante del bello e della buona cucina. Ricordo che quando andavamo assieme in Francia in gi­ro per circuiti lui, do­po mesi di rinunce, amava concedersi dei buoni ristoranti. “Adesso comincia a consultare la guida Michelin”, mi diceva. “Ma solo quelli con 4-5 forchette”».

A proposito di mangiar bene, se avesse bevuto forse Tommy Simpson sarebbe ancora qui…
«È una mia idea. Ricordo perfettamente quel giorno di caldo torrido. Ri­cordo anche molto bene un signore che correva lungo la strada con una borraccia militare rivestita di panno verde e il tappo a vite, legato con una catenella. Io la presi, morivo di sete, come tutti quel giorno. Ma prima annusai e avvertii chiaramente che c’era dell’alcool. Mi girai con raccapriccio e Simpson mi gri­dò: “Non buttarla, dalla a me”. Gliela passai. Dopo un po’, a tre chilometri dal traguardo, sul lato destro della strada vidi un assembramento di medici soccorrere un corridore. I gendarmi invitavano a procedere spediti, a non rallentare, a non fermarsi. Poi notai che, nonostante fosse vietato prendere acqua dalle ammiraglie, erano la giuria e l’organizzazione a passare delle borracce d’acqua. Alla sera quando arrivò la notizia della morte del po­vero Tommy, io ne parlai con Felice. Se ci avessero passato l’acqua prima forse quella tragedia non si sarebbe consumata».

Uomo di fiducia di Gimondi, ma con Merckx come andava?
«Bene, nel senso che alla fine diventai amico anche di Eddy. Così quando al­loggiavamo nello stesso albergo, spesso mi veniva vicino e mi invitava a bere qualcosa. Lui apriva la valigia ed estraeva una bottiglia di whisky Wat 69, il suo preferito. Voleva sapere tutto di Gimondi, io tutto di lui: in quelle sere, però, nessuno dei due ha mai raccontato la verità».

Hai smesso di correre molto presto, però…
«È vero, non avevo ancora trent’anni. Cominciai ad avvertire un dolore alla gamba destra e tra alti e bassi arrivai alla fine del ’69. Nel ’70 ripartii ma la situazione era sempre peggio. Decisi di smettere. Così da corridore che ero, mi trovai a inventarmi una nuova vita. Incontrai qualche tempo dopo Elio Ri­medio che mi propose di andare a Ro­ma alla Scuola Centrale dello Sport. Così andai nella capitale. Non fu facile, io ero abituato a girare, a stare all’aria aperta, invece mi ritrovato a stare a scuola dalla sera alla mattina. Fu dura, a un certo punto volevo anche ritirarmi, mi convinse a restare l’amico Edo­ardo Gregori, che quella scuola l’aveva già fatta ed era già dipendente del Coni e tecnico Federale. Studiai e mi diplomai. Il caso volle che, dopo un paio di giorni dalla conclusione dei miei studi, il Giro d’Italia facesse tappa a Lido de­gli Estensi, località a due passi da casa mia. La sera, dopo la corsa, andai all’albergo della Bianchi a trovare il mio ami­co Felice. Ci raccontammo tutto, in particolare io gli parlai della scuola che avevo frequentato. Lui mi guarda e mi dice: “Ora che la scuola l’hai finita, puoi venire con me al Giro…”. In un bat­ter d’occhio mi trovo ad affiancare Vit­torio Adorni alla guida della Bian­chi. Poi, dall’anno seguente, assumo l’incarico. Al Tour l’inve­sti­tu­ra ufficiale. Eravamo a Nizza e a un certo pun­to vedo entrare un uomo che avanza lentamente, aiutandosi con le stampelle: era il mitico Luison Bobet. “Il vo­stro direttore sportivo dov’è?” Sono io, risposi intimorito. “Sei molto giovane per dirigere una squadra così importante. Devi esserne orgoglioso. Ri­cor­dati che devi fare onore a questa ma­glia che ha fatto la storia del ciclismo. Cerca di sbagliare il meno possibile”. Mi tese la mano, e disse co­me dicono i francesi in modo beneaugurante: “Mer­de!” e si allontanò lentamente».

Così giovane, alla guida di Felice Gi­mondi: ma come hai fatto a farti prendere subito sul serio da ragazzi che erano tuoi coetanei?
«Felice mi rispettava, tutti mi rispettavano. Io sul lavoro ero inappuntabile. Alla sera si poteva anche scherzare, ma al mattino io ero il tecnico e loro i corridori. E questo era possibile perché io avevo personalità, ma Felice è sempre stato rispettoso di me e del mio ruolo. Quindi, ha dato l’esempio».

Tante le soddisfazioni con Gimondi, quale la più grande?
«Tante, tantissime. Però potrei dire la Sanremo del ’74 e il Mondiale di Barcellona: due perle immense. Ma su tut­te metterei il Giro d’Italia vinto a 34 anni, nel 1976. Che gioia! Sia per me sia per Felice. Ma una grande vittoria è stata anche la Parigi-Bruxelles del ’76, che vinse a dieci anni di distanza dalla prima volta. E pensare che non doveva nemmeno correrla e quando Felice si accorse che a Parigi non c’era nemmeno un giornalista italiano, lui che non ha mai fatto il bauscia, mi disse deciso: “Domani vinco, così im­parano”… E così fu».

Una gioia che rischiasti di non vivere mai…
«L’anno prima ho davvero visto la mor­te in faccia. Tredicesima tappa del Tour ’75, si andava da Nizza a Pra Loup. Ero in ammiraglia con il mitico meccanico Piero Piazzalunga, a un certo punto persi il controllo dell’ammiraglia e finimmo in un burrone. Sia io sia Piero ce la siamo vista brutta».

Alla Bianchi c’era un’altra grande leggenda del ciclismo e dell’industria italiana: Angelo Trapletti.
«È stata l’unica persona con cui non so­no mai entrato in confidenza. Mi in­cuteva soggezione, a tal punto che in dodici anni di collaborazione non sono mai riuscito a superarla. Era burbero, ma un grande industriale. Ricordo che quando gli dissi che avevo ingaggiato Johan De Mujnck, mi chiese: “E chi è questo?”. È un belga forte e tenace, con lui si vince il Giro. E lui: “Ma io vendo biciclette in Italia, non in Belgio. E poi come si scrive?...”. Io non sapevo come si scrivesse e lui tagliente… “Vede, non sa nemmeno come si scrive… ”. Però alla fine firmò il contratto e De Muynck il Giro lo vinse per davvero».

Non solo Gimondi, però…
«No, anche Silvano Contini: come pos­so dimenticarmi la Liegi vinta nell’82, sotto la neve e la grandine, vento e gelo che portarono al ritiro di corridori co­me Hinault, Raas e altri? Contini vinse dopo 17 anni di digiuno italiano. Ma grande è stato anche Prim. Non era mai stanco, sempre pronto a mettersi a disposizione della squadra. Tosto ma estroverso Knut Knudsen. E poi avevo Baronchelli: classe cristallina, carattere fragile. Ricordo le polemiche al Giro dell’82: una Bianchi-Piag­gio a tre punte (Baronchelli, Prim e Con­tini), contro Hinault. Tenemmo te­sta fino a Montecampione, quando il francese massacrò tutti. Dopo Merckx, Bernard è stato davvero l’ultimo dei grandi».

Chi ti ha soprannominato il “sergente di ferro”?
«Adriano De Zan, forse per il mio rigore. All’inizio non mi piaceva neanche un po’, alla fine l’ho fatto mio. Io esigevo sempre rispetto, impegno e serietà. Ma ero anche il primo, nei momenti di relax, a fare caciara».

Dopo Trapletti, Oriello Pederzoli…
«Dopo la Bianchi trascorsi un anno sabbatico, anche se in verità Oriello Pe­derzoli della Ariostea mi aveva chiamato subito per allestire una nuova squadra, ma io non me la sentivo. Ero deluso, mortificato per aver chiuso la mia parentesi con la Bianchi che si era fusa con la Sammontana di Wal­demaro Bartolozzi e io in pratica avevo ricevuto il benservito. Ero amareggiato e non me la sentivo di tornare nel ciclismo. Mi chiamò tre volte Oriello, alla fine ce­detti e il nostro sodalizio andò avanti per otto anni. Forse questo è stato il mo­mento più bello di tutti: mi sentivo nel pieno della mia maturità di tecnico e la squadra mi veniva dietro molto be­ne. Il primo che chiamai fu Valerio Pi­va, il corridore più bravo a portare via le fughe. Nessuno come lui. Poi ho avuto corridori intelligenti come Marco Saligari: sapeva gestirsi come pochi e leggeva la corsa benissimo. Rolf So­ren­sen: “il biondo”. Aveva grinta e coraggio. Doti indispensabili per un corridore di qualità».

Dei tanti corridori che hai avuto, elencamene almeno cinque che riassumono tutti.
«Felice Gimondi è in cima alla lista. Lui è stato davvero tutto per me, senza di lui la mia storia non sarebbe stata la stessa. Poi dico Moreno Argentin, che mi ha permesso di sentirmi importante. Era eccezionale e tutti pensavano che fossi eccezionale anch’io. Poi Gian­ni Bugno. Ho un solo rammarico: da me è arrivato troppo tardi. Cam­pio­ne squisito, corridore inarrivabile. Di una sensibilità unica. Mi dicevano: “Stai attento, è un lazzarone…”. Non avevano capito niente di lui e inizial­men­te mi feci condizionare, ma alla fine con lui mi sono anche scusato. Era un atleta di grandissima professio­na­lità. An­dava solo un po’ incoraggiato, perché aveva sempre qualche dubbio, qualche tormento di troppo. Un po’ come Mi­chele Bar­to­li, altro grandissimo corridore. Sem­bra­va fatto apposta per andare in bicicletta. Che eleganza. Che posizione. Quan­do era in condizione dava l’impres­sio­ne di essere imbattibile e inarrivabile. Infine, Ales­sandro Petacchi: non pen­savo nemmeno io che riuscisse a diventare quel­lo che è diventato. È arrivato da me dopo quattro anni con Bruno Re­ver­beri e solo una vittoria. Da me se ne andato dopo aver conseguito con la maglia della Fassa Bortolo 105 vittorie. Nessuno è stato come lui».

Hai sempre avuto squadre corali…
«Mi piaceva vincere, e godevo quando vincevano anche le seconde linee. Era giusto per loro, per gli sponsor e per me. Era giusto mettere tutti nelle condizioni di vincere. Io con l’Ariostea ho forse raggiunto il massimo. Ho tirato su un gruppo di corridori che ad un certo punto sapevano perfettamente cosa dovevano fare. Il lavoro del tecnico è “prima”: nella preparazione, nell’allenamento, al mattino nella riunione tecnica, prima della gara. Ma in corsa i ragazzi dovevano risolvere la situazione il più delle volte da soli. Io impostavo la tattica, li invitavo a ballare la rum­ba per un’ora, per portare via la fuga e se non ce la facevamo li invitavo a rifiatare per un’altra ora, prima di tornare a scatenare l’inferno. E poi via, alla mor­te ancora. Eravamo una macchina da guerra, ci si divertiva e penso che si di­vertissero anche gli appassionati».

Oggi tu ti diverti?
«Molto poco. Troppi corridori, troppe corse, poca qualità. Tanto marketing e poco ciclismo».

Hai avuto anche Bjarne Riis.
«Atleta timido e riservato. Buon corridore, ma mi ha stupito in tutto e per tutto dopo. Vinse un Tour e poi è di­ventato anche uno dei team manager più accreditati al mondo. Probabi­lmen­te mi ero fatto di lui un’idea sbagliata».

Davide Cassani.
«Abitava a venti chilometri da casa mia. Quando si andava a correre passavo a prenderlo e poi lo riportavo a casa. È sempre stato un atleta attento e scrupoloso. Con lui mi confrontavo sia per prendere dei corridori sia per commentare una corsa. Ha sempre amato programmare. Ha sempre studiato tanto ed era molto curioso. Anche con lui mi sono trovato benissimo».

Come è stato il tuo rapporto con il grandissimo Alfredo Martini?
«Assieme ad Alfredo Binda è stato il più grande ct azzurro della storia. Con lui ho sempre avuto un grandissimo rapporto di amicizia e stima. Non gli ho mai consigliato un corridore».

Il corridore più originale?
«Marco Lietti, un po’ squilibrato, nel senso che aveva poco equilibrio. Ca­de­va con molta frequenza e disinvoltura. Ma era un uomo squadra, prezioso e affidabile».

Dopo l’Ariostea c’è stata anche la MG-Technogym.
«Non faccio a tempo a far sapere al Giro d’Italia che a fine stagione l’Ario­stea cessava la sua attività, che ricevo una telefonata da Danilo Furlan, titolare della MG. “Adesso, finalmente, Fer­retti verrà con me alla MG”. Due anni prima l’avevo incontrato in Belgio, alle classiche, ma io mi trovavo bene alla Ariostea e avevo declinato l’invito. Ora si poteva fare. Era il 1994. Mi tolsi tan­te soddisfazioni anche con questa ma­glia. Baldato, Vanzella, Sciandri e Scin­to. Rebellin e Simoni, ma soprattutto Bu­gno. Poi Bartoli, Fontanelli, Paolo Bettini, e Richard. Poi il 13 dicembre del 1995, la notizia della morte di Da­nilo Furlan. Ero con la squadra in ritiro in Toscana, all’Hotel Bambolo di Donoratico. Mi alzai da tavola e con il mio amico Roberto Reggi, andai ad ascoltare le notizie del telegiornale. Un aereo partito da Ve­ro­na per Timisoara, subito dopo il decollo, era precipitato a terra. Tutti morti. Mi si gelò il sangue. Mi tornarono alla mente le parole del mio presidente che avevo sentito come tutte le mattine alle 7. «Tutto bene Fer­retti? Come procedono gli allenamenti? Per qualche giorno non ci sentiremo perché devo partire per la Romania per controllare gli stabilimenti di Timi­soara”. Al dolore si aggiunse la preoccupazione per i corridori che avevano contratti biennali o triennali e che sa­rebbero rimasti senza squadra. Pregai i fratelli Furlan, buoni come il padre, di concedermi un altro anno, per permettermi di trovare un nuovo sponsor. Io ero disposto a rinunciare al mio compenso, pur di non lasciare i miei corridori senza contratto. I figli di Danilo compresero e mi concessero un altro anno. Per la cronaca: io percepii completamente anche il mio ingaggio. Pur­troppo, però, non trovai lo sponsor. Ancora una volta scendevo dall’ammiraglia».

Ma dopo un anno, ecco Paolo Fassa.
«Uomo concreto, con le idee chiare, mol­to appassionato. Mi convocò a maggio del ’99 a Spresiano, dove aveva sede la sua azienda. Capii subito che avevo a che fare con un grande capitano d’industria. Io gli posi delle condizioni, lui senza tanti giri di parole ac­cettò e la mattina seguente avevo il fax sul quale c’erano tutti i punti dell’accordo. Chiamai tre giovani tecnici: Al­berto Volpi, Stefano Zanatta e Mario Chiesa. Dopo qualche anno presi un altro ragazzo molto in gamba, Ales­sandro Giannelli. Poi “bianchis­simo” Gian­car­lo Bianchi: dopo Piazzalunga il meccanico più vicino a me. Insomma, con questi uomini costruii la nuova fa­vola Fassa Bortolo. La scommessa la vinsi con Alessandro Petacchi, che ci regalò emozioni uniche. La più grande? Per me la Sanremo. Se avessi co­struito subito un treno per lui, avrebbe vinto il doppio. Infatti pochi, ad eccezione di te, con cui di Petacchi parlammo in tempi non sospetti, si ricordano che i primi anni quello che non era an­cora diventato Ale-Jet, il treno non ce l’aveva e sfruttava il lavoro di quello di Ci­pol­lini».

Oltre alla Sanremo, anche le 9 sinfonie al Giro…
«Spettacolo vero. La vera difficoltà era non mettere pressione ad Alessandro. Re­sponsabilizzarlo ma non troppo, al­trimenti andava in ambasce. Anche perché, contrariamente agli altri, vincere così tanto lo metteva un po’ a disagio. Non voleva esagerare. Insom­ma, come Bugno: quando vincevano, chiedeva quasi scusa».

Il corridore che non ha mai corso per te ma che ti sarebbe piaciuto avere?
«Francesco Moser: immenso. Mi piaceva da pazzi. Interpretava il ciclismo co­me l’ho sempre inteso io. All’attacco, alla faccia di tutto e di tutti. Che corridore».

E oggi?
«Peter Sagan. Un piccolo grande prodigio».

Se ti chiedo quali sono oggi i corridori che consideri fuoriclasse?
«Sono solo due: Alberto Contador e Fabian Cancellara. Nessuno è come lo­ro».

Il più grande di tutti i tempi?
«Eddy Merckx».

Dei giovani chi ti piace?
«Moreno Moser, lo prenderei subito. Ha il talento e le stimmate del fuoriclasse. Io scommetterei su di lui».

Hai scommesso anche su Vincenzo Ni­bali…
«Grande corridore, ma gli manca qualcosa per diventare grandissimo».

Il tecnico più preparato?
«A me piace tanto Valerio Piva».

Come vedi Paolo Bettini?
«Fa correre le sue squadre come se in azzurro avesse uno come lui. Ma non ce l’ha e dovrebbe capirlo, prenderne atto. E poi basta con i Luca Paolini e gli amichetti del circolino».

Franco Ballerini?
«Grande corridore, grandissimo uomo. Avevo un rapporto eccezionale anche con lui. Persona intelligente che si faceva voler bene. Gli consigliai solo un corridore. Gli dissi: Franco, prendi Tosatto, non ci rinuncerai più. Ha fatto fatica a rinunciarci an­che Bettini».

Il momento più bello?
«Quando Gimondi mi ha voluto con sé alla Bianchi».

Il momento più brutto?
«Quando ho capito che su un’ammira­glia non ci sarei salito più. Oggi sono un uomo sereno, che non ha rimpianti, ma tanta nostalgia».

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