Baronchelli, capolavoro incompiuto


di Christian Giordano, Tuttobiciweb

Arzago D’Adda (Bergamo) – Nel 2019 saranno trent’anni senza Gibì in gruppo, sembra ieri quando se ne andò in punta di pedali. Quasi non volesse disturbare oltre. Eterno incompiuto, troppo buono, dicevano. Balle. Novantatré in carriera, sei Giri dell’Appennino, per di più consecutivi. Robe da Sean Kelly alla Parigi-Nizza, e di un ciclismo che non c’è più. E che ci manca. Se non altro per l’umanità. Quella, GBB l’ha sempre avuta. E la gente, forse compresa quella che lo prendeva a sputi e ombrellate, mai ha smesso di amarlo. Di sicuro, mai lo ha dimenticato. A essere cambiato è lui, con la fede ha scoperto la voglia di raccontarsi, aprirsi agli altri. Sempre sottovoce, rispettando tutti. Come corresse ancora: in punta di pedali, a Tista alta.

- Gianbattista Baronchelli, vale ancora la distinzione GiBì per tifosi e addetti ai lavori, Tista per gli amici?

«Son belli tutti e due. L’importante è che la gente si appassioni ancora a quel poco che ho fatto. Tista è più familiare, GiBì più sofisticato. Lasciamo fare, quello che la gente preferisce».

- Facciamo Tista. Più che “uomo morde cane”, notizia è Baronchelli che si apre agli altri e scrive: addirittura un’autobiografia. Perché?

«Tre anni fa non ci pensavo neanche. Ero abbastanza deluso della mia carriera e tuttora mi sento non realizzato, forse neanche metà di quello che immaginavo. Tre anni fa ho incontrato questo mio tifoso [l’autore, Gian-Carlo Iennella, ndr], a fine 2016 è tornato e mi fa: “Scriviamo un libro”. Io pensavo scherzasse, invece già ci lavorava da tempo. Le due volte che ci siam visti saremo stati insieme cinque ore, quindi non mi conosceva, anche se con una persona si può stare insieme una vita e alla fine poi non la conosci mai perché fondamentalmente non riusciamo neanche mai a conoscere noi stessi. È stata un’avventura, lui non è un giornalista, abbiam rischiato un po’ tutti e due e le cose non sono andate male. A giugno 2017, quando mi ha mandato la bozza, era tre volte tanto. Io gli ho detto: ma questo è un mattone [sorride, ndr] e mi sono scoraggiato. Un libro di seicento pagine si butta subito nel cestino, l’ho riletto tutto e ho raccontato la mia storia in breve. La prefazione di Pastonesi è molto interessante. A libro già finito, l’ho incontrato a un pranzo di ex corridori vicino al paese di Colnago, a Cambiago. Gli ho detto: “Sto scrivendo un libro; se tu mi scrivessi la prefazione, sarei molto contento”. È stato disponibilissimo, l’ha letto e gli è piaciuto. Due mesi prima avevo incontrato l’editore, Luca Merisio, figlio d’arte, suo papà Pepi era un fotografo molto famoso, andava in Vaticano a fotografare papa Paolo VI».

- A Pastonesi devi anche altro. Hai detto che in un’intera vita capita di non riuscire a conoscersi, ma una vita può anche cambiare per…

«Dodici secondi. Decidere il titolo è stata la cosa più difficile, ci abbiamo impiegato due-tre mesi. Volevamo uscire per Natale 2017, ma non riuscivo a decidermi. Pastonesi penso l’abbia centrato in pieno, perché quando si parla di Baronchelli si parla dei dodici secondi per cui ho perso il Giro ’74 da un grande come Eddy Merckx. Dodici secondi sono scorsi anche quando, la notte della vigilia al Giro del Friuli ’76, ci fu la seconda scossa più forte. Mio fratello Gaetano ed io dormivano al secondo piano di un albergo, e tremava tutto. Lui è stato il primo a infilare la porta per scappare, due rampe di scale e lo superai, presi una storta al piede: durò tredici secondi quella scossa, e noi in dodici arrivammo fuori. Ci son tante storie che mi tornano alla mente».

- Ce n’è una che tutti ti chiederanno: Giro ’86, tu e Moser fratelli-coltelli alla Supermercati Brianzoli. A Foppolo tu, terzo in classifica, non riparti e resti a letto in albergo. Se ne dicono ancora tante, dal tuo no alle autoemotrasfusioni alle liti con lo Sceriffo. Che cosa successe?

«Se lo dico, poi la gente lo compra il libro? Fui criticato anche dal mio famosissimo compaesano Gimondi. Disse che fu un errore. Lo ammetto, sì, ho commesso un errore, son stato un somaro: dovevo ritirarmi dieci giorni prima [ridacchia, ndr]. Bon, il resto lo leggeranno».

- Con Moser vi siate da poco riavvicinati. È una storia di umanità, di ciclismo e di vita fra ex acerrimi avversari ora diventati che cosa?

«Beh, adesso almeno ci parliamo, cosa mai capitata prima. Non abbiamo mai preso il telefono per chiamarci e salutarci, che è anche una questione di educazione, di là di tutto. Ho saputo del suo incidente dell’autunno scorso e mi sono ricordato di suo fratello Enzo, morto in un incidente nei lavori dei campi. Rimase schiacciato dal trattore. A Francesco era successa una cosa simile e l’ho chiamato per sentire come stava. Gli ha fatto piacere, poi lui ha il suo carattere e comunque sia l’umanità c’è in tutti e bisogna tirarla fuori, a un certo punto. A Natale ho mandato gli auguri a lui, a Saronni, a Bugno, a diversi. Tutti hanno risposto gentilmente, lui addirittura mi ha chiamato e mi ha detto: “Stamattina sono andato a sciare”. È stato bello».

- C’è un momento in cui il Tista è cambiato e ha iniziato un cammino che ti ha portato fino al libro e al riavvicinamento con Moser?

«Sì, la conversione. La fede ha cambiato me e la mia vita. Riccardo Cascioli, che scrive su un giornale online molto bello e vero [La nuova bussola quotidiana], è stato il primo che è venuto a intervistarmi, quattro anni fa, su questa mia conversione. Da lì è partito un nuovo Baronchelli e credo che la gente lo veda, non c’è bisogno che glielo vada a spiegare io. Sarò antipatico a qualcuno e anche oggetto di critiche, ma io sono questo».

- Il Tista ha pure imparato a difendersi?

«Più che difendersi bisogna dire la verità. Se uno racconta bugie per far male a un altro, questo non son mai riuscito a sopportarlo. La cosa principale è essere sinceri, veri. Uno deve dire le cose come stanno, non il falso per fare il suo interesse o del male agli altri». 

- E come stavano le cose nel ciclismo di Baronchelli?

«Nel ciclismo come in tutti gli ambienti c’è il buono e c’è il meno buono. Non è un lavoro normale, è uno sport che poi diventa un lavoro e c’è gente che si fa largo anche scorrettamente. Io credo che la gente mi voglia bene non per quel che ho vinto, ma per come sono. Le vittorie rimangono scritte ma alla fine, di fronte agli altri, quella che rimane è la persona».

- Tista, appesa nella tua bottega di bici e ciclismo, c’è appesa una storica foto della tappa del Monte Grappa al Giro ’74: tu dietro Gimondi e Merckx. Quella scattata da Pepi Merisio, papà del Luca tuo editore. È un’immagine-simbolo della tua carriera?

«È una foto importante. Pepi era un artista. Sembra vera. Sembriamo vivi. Eddy Merckx in testa con la maglia rosa, Felice Gimondi secondo con la maglia di campione del mondo e che poi arrivò terzo in classifica. Io terzo che sembra che neanche faccia fatica, ma io ho sempre pedalato con dignità. E forse il non far vedere la fatica credo sia anche dignità A volte invece è meglio far finta di far fatica, per ingannare gli avversari».

- In Dodici secondi che cosa hai omesso?

«Tante cose le ho dimenticate e quindi non le ho messe».

- Per esempio il mondiale di Praga ’81 in cui tutti se la presero con te anche se non lo meritavi?

«Son cose dimenticate, non penso più alle cose brutte del passato, non ha senso. Nella mia memoria è rimasto impresso il Giro di Francia dei dilettanti, però conta niente, conta pochissimo. Ciò che conta son le vittorie da prof. I sei Giri dell’Appennino [consecutivi] son stati una bella impresa. Quando ero ragazzo, mi piaceva molto il Lombardia: son riuscito a vincerne due. Però quello che mi piaceva di più era il Giro, e quello è un rammarico. Anche se l’avessi vinto, ok uno l’avrei vinto, ma io avevo delle doti tali che potevo vincere qualcosa di più che un Giro. Comunque non basta avere le attitudini fisiche, bisogna avere anche la testa giusta. Non avevo esperienza e ho dovuto farla sulla mia pelle. E poi ero testardo, non è che mi adattassi tanto».

- Ti senti ancora un incompiuto o quella fase l’hai superata?

«C’è stato un periodo, durato tanto, in cui mi dava quasi fastidio parlare del mio passato perché pensavo più alle sconfitte che alle vittorie. Però qualcosa ho vinto, ho corso da professionista sedici anni e sempre libero di dire quel che pensavo – perché non parlavo tanto ma quando parlavo lasciavo il segno, e mi prendevo le critiche – ma se non vinci quel che devi vincere, alla fine sono i risultati che determinano la carriera. Ed io le corse che dovevo vincere non le ho vinte. Il Giro non l’ho vinto. Ecco perché ho voluto la copertina rosa, così almeno qua la maglia rosa ce l’ho [ride]».

- C’è un altro Giro che ti rode, quello vinto nel 1978 da De Muynck.

«Più che il mio primo nel ’74, il rammarico è quello del ’78. Lo persi nella terza tappa, su una salita in Versilia. De Muynck andò via sull’ultimo tratto, l’arrivo era a Cascina e dietro eravamo in cinque della Scic, purtroppo mancava Saronni e avemmo l’ordine di aspettare che rientrasse. Nel frattempo De Muynck arrivò con 52” su Saronni, secondo, un vantaggio che poi determinò la classifica finale perché quel Giro lo vinse per 59”. E poi De Muynck aveva in squadra Gimondi. Era all’ultimo anno di carriera ma per i consigli, il modo di muoversi in corsa fu importante per farlo vincere. Poi la mia storia è cambiata, anche psicologicamente: era il quinto Giro che perdevo, nonostante due secondi posti, un terzo, un quinto. Nel ’79 tentai l’avventura alla Magniflex ma rimasi deluso di quell’esperienza. Dall’80 entrai in una grossa squadra, la Bianchi e si puntava sulle gare di un giorno. Ferretti, l’unico vero direttore sportivo che ho incontrato, un motivatore importante, fu bravo a tenere insieme quel gruppo. Arrivai quinto e vinse un certo Hinault. Nell’81 arrivai ancora quinto però si partiva con tre punte [GBB, Contini e Prim], la controprova non c’è ma lo ritengo sbagliato».

- Non sei stato fortunato come epoche. Hai incontrato Merckx, Moser e Saronni, Hinault. Tu sei stato il primo degli umani? 

«Moser nelle gare a tappe era inferiore a me. Merckx e Hinault li ho incontrati, ho fatto due prestigiosi secondi posti dietro due super. Quei Giri d’Italia son stati condizionati dalle attitudini di Moser e Saronni che andavano bene nei Giri un po’ più “facili”. I giornali avevano deciso, e giustamente: ci vuole una rivalità per creare interesse. Quindi io, Battaglin, Visentini – che non aveva grande fondo, andava bene a cronometro ma negli abbuoni era svantaggiato – e tutti i corridori di fondo che andavano bene in salita erano penalizzati. Per quello poi ho cambiato obiettivi. Puntavo più alle gare in linea che quelle a tappe».

- L’altro secondo posto prestigioso fu a Sallanches ’80, ma non è quello il tuo mondiale più amaro.

«Non è quello perché più di così non potevo fare. Hinault andò davvero forte, fu un extraterrestre e lo dissi anche a fine corsa. Partì e finì in testa. A Praga ’81 ero in forma. Fu un attimo ma purtroppo Saronni, che ormai fiutava la vittoria, e gli altri azzurri hanno chiuso il buco – il povero Panizza dopo l’ha anche dichiarato. Quando scattò Millar io gli andai dietro. Ero talmente convinto e stavo così bene, mancavano due chilometri all’arrivo, che già calcolavo di non andargli sotto subito. Volevo saltarlo senza farlo venire a ruota. E in volata lo avrei battuto perché non era veloce. Poi la volata è andata com’è andata, e nel libro c’è la mia versione. Se ne son dette tante e ho anch’io ho detto la mia».

- Come e quando nasce il Tista che sei oggi?

«Nella vita c’è sempre una svolta. La mia è avvenuta il 4 aprile 2011, quando è morta mia madre. Vivevo in un periodo buio. Ero deluso della mia carriera, della vita. Da quel momento sono rinato. Sono tornato a ciò che in Occidente stiamo dimenticando: le nostre radici. Ho riscoperto la fede. Lì è nato un altro uomo, e penso che tutti lo vedano».

- Nel tuo libro traspare ancora l’amore per il ciclismo.

«È stato la mia vita. Ho iniziato quasi per scherzo e per sfuggire al lavoro dei campi. Eravamo nove fratelli, io ero il settimo e di studiare non c’erano né la voglia né il tempo. Dovevamo lavorare tutti per mangiare e quindi la mia vita cosa sarebbe stata, in campagna? Con tutto il rispetto, perché adesso a fare gli agricoltori in campagna ci vanno i benestanti ma lo fanno per divertimento. A farlo come sostentamento però… la terra è bassa, e si fa fatica. La passione vera l’aveva mio fratello, che iniziò un anno prima di me. Vedevo che evitava un sacco di lavori nei campi e quindi mi son detto: cavoli, lo faccio anch’io. Le qualità le avevo, ho iniziato quasi subito a vincere e le vittorie ti fanno appassionare, poi è diventato la mia vita, e la mia carriera fino a 36 anni».

- Il tuo profilo WhatsApp recita: “Finalmente lavoro, che soddisfazione!”.

«Oramai prendo tutto come un gioco, però faccio le cose seriamente. Ho aperto quest’attività, prima ero in società adesso l’ho trasformata in ditta individuale, e finalmente sono uno che lavora. La gente che entra mi dice sempre: ma va’ là, tu non hai mai lavorato. Ho sempre riso su questo: ah, guarda che non lavorare è un complimento. Nessuno ha piacere a lavorare. Se uno non ha bisogno e lavora è per riempire il tempo. Dire a uno che non ha mai lavorato non gli si fa un torto, può essere un complimento».

Non aver perso la luce dei tuoi occhi buoni, Tista: quello è un complimento. E averli incrociati è un privilegio. Il cammino è appena incominciato.
Christian Giordano

Gian-Carlo Iennella (con Gianbattista Baronchelli)
Gibì Baronchelli: dodici secondi
Lyasis Edizioni, 200 pagine, 14 euro
Prefazione di Marco Pastonesi

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