NEL BASKET L' ORGOGLIO DEI SERBI


dal nostro inviato WALTER FUOCHI
la Repubblica, 4 luglio 1995

ATENE - Lasciarli soli come appestati. Sul podio dei più bravi, con 12 medaglie d'oro al collo, a strepitare la loro allegria. Però ancora infetti davanti al mondo: in tv ne aveva ammirato il gioco, da campioni d' Europa, ma adesso non doveva scordarne i peccati, gli odii, le guerre. Per questo, per non riconoscere più un paese chiamato Jugoslavia, per non ascoltare 'Hey Slavenj' , inno nazionale da buttar via, i giocatori croati sono scesi domenica notte dal podio degli Europei di basket, mentre vi salivano, in cima, quelli serbi. 

Dodici medaglie di bronzo sono sfilate via dalla premiazione, inghiottite dalla notte su un pullman col motore già acceso. Sulla scena sono rimasti lo stupore dei 15 mila spettatori della finale Jugoslavia-Lituania e l'ironia rabbiosa dei giganti ex fratelli. Che applaudivano per scherno, sghignazzavano, si toccavano parti poco nobili, e alzavano al cielo le tre dita, simbolo ortodosso della patria serba. Erano stati i croati, in questa storia, a perdere due volte: prima in campo, neppure arrivando alla finale, poi nella premiazione disertata. Eppure, mentre anche a Belgrado si accendevano feste di tifo, finivano in ventimila a piazza Repubblica, Milosevic e Mladic facevano i complimenti ai neo-campioni eroi dell' orgoglio serbo, esplodevano colpi, suonavano clacson e sparavano pure razzi contro l'ambasciata della Grecia, la notte di Atene si allungava alle polemiche e ai rancori. 

Sparivano i croati, nelle stanze al terzo piano: cena frugale, panini e birre. Protestavano i lituani, vittime della finale: a un certo punto, contro gli arbitri, volevano ritirarsi, dissuasi solo da 50 mila dollari di multa. Sabonis, il loro asso, posava parole come pietre: "Questo non è sport, ma brutta politica: era deciso che dovesse vincere la Jugoslavia". Era solo una voce nel coro. Per tornare all'onor del mondo sportivo dopo tre anni di embargo, il trionfo era per molti un copione già scritto: e il serbo Boris Stankovic, chiacchierato grande capo del basket mondiale, avrebbe fatto la sua parte. In politica ci sta tutto, in dietrologia di più: la Jugoslavia era però la squadra migliore. 

A notte, i tifosi serbi avevano invaso il grande albergo dove le squadre convivevano, ma non erano imbandierati e chiassosi quanto i loro assi. Dirigeva cori da curva Sud, le tre dita al cielo, Vlade Divac, il pivot miliardario della Nba. Bordavano quel caos euforico le loro splendide donne, lustre di abbronzature, firmate made in Italy, od ondeggianti sui tacchi a spillo d'una dolce vita in ritardo. Si placavano poi i giudizi. "Non possono avere deciso i giocatori. Sono i politici a riempirgli la testa". Così i serbi scagionavano i vecchi amici croati, pure solo sfiorati e mai frequentati in 15 giorni: eppure, agli Europei romani del '91 giocavano ancora insieme. Adesso erano burattini di un brutto gioco, la propaganda. "Hanno voluto fare un gesto pubblico, che tutti vedessero - secondo Sasha Djordjevic - ma si sono prestati a cose che noi, giocatori serbi, non avremmo mai fatto". 

L'altro Sasha, Danilovic, quello dei tre scudetti a Bologna, aveva appena schivato una grana. Era stato il più sguaiato, a fine partita, e uno spettatore era sceso a cercarlo, assieme alla polizia. "Mi hai fatto così", mimava quello, portandosi le mani in basso. "E tu così", replicava Danilovic, alzando il dito medio della maleducazione internazionale. Le feste serbe si sono dilatate ieri sera in trionfo, all'aeroporto di Belgrado. Zagabria ha taciuto anche ieri: solo, sui giornali, accenni alla finale "truccata". La notte prima, alle tre, nessuno in giro. Finalmente, dall' ultima birra in un caffè, sbucavano Mirko Novosel, viceministro dello sport, il dirigente Pino Gergia e il medico Ivan Fattorini. Negavano che l'ordine di disertare la premiazione fosse arrivato da Zagabria: avevano deciso loro, tutti insieme, "per non ascoltare l'inno di un paese che non c'è più. La Jugoslavia non esiste, non è riconosciuta dall'Onu, dopo la guerra tutto è cambiato. Loro stessi, un mese fa a Belgrado, amichevole Serbia-Germania, hanno fischiato l'inno". 

Nessun politico croato era ad Atene: "Sarebbero venuti per la finale". Ma proprio quella finale mai nata, quella prima volta da nemici nello sport nazionale, sfumata, adesso inquieta. Cosa poteva diventare, una polveriera? O i croati l'avrebbero disertata, come fece la Bosnia coi serbi, un mese fa a Sofia, nel torneo di qualificazione? "No, avremmo giocato". Capiterà, prima o poi. E fa paura pensarci.

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