Johan Cruijff, il rivoluzionario


di ROBERTO BECCANTINI
Guerin Sportivo, novembre 2018

Seguivo il basket, quando il calcio cambiò. Alba dei Settanta, culla e officina di una rivoluzione. Ne abusiamo spesso, molto ci sembra rivoluzionario, ma quel giocatore e quel gioco lo furono, sul serio. Il suo Ajax, la sua Olanda. Rinus Michels e Ştefan Kovács.

Mi concesse un’intervista ad Amsterdam, Johan. Ero finito dalle sue parti per un torneo preolimpico di pallacanestro. C’era l’Italia, c’era tempo per allargare gli orizzonti. La copertura televisiva era ancora vaga. Bisognava fidarsi del poco che veniva trasmesso, dei giornali, dei giornalisti (vil razza d’annata o dannata, a scelta).

Lo rammento in due finali di Coppa dei Campioni, contro l’Inter a Rotterdam '72 e contro la Juventus a Belgrado '73. Timbrò la prima con una doppietta e scortò la seconda, lasciandone la firma a Johnny Rep. Rammento pure quando Fulvio Bernardini, Ct della Nazionale, lo fece marcare da "birillo" Orlandini. 

Cruijff accompagnò l’Olanda dentro il calcio totale e noi conservatori, in bilico perenne tra la Nord Corea di Middlesbrough '66 e Italiagermaniaovestquattroatre '70, fuori delle convenzioni. E’ stato il prolungamento di Alfredo Di Stéfano, non più in chiave esclusiva e personale ma a livello collettivo.

Da giocatore ad allenatore, dall’Ajax al Barcellona ha sempre lasciato tracce che era impossibile non riconoscere, anche quando il vento della spocchia lo portava fuori strada. Come la notte di Atene, nel 1994: il Milan di Fabio Capello gli sfilò la Coppa dei Campioni con uno straordinario 4-0, sintesi di acume tattico e risorse individuali.

«Giocare a calcio è molto semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile». Cominciò tutto da qui, dalla banalità del bene. Proprio vero: la rivolta segue un capo, la rivoluzione un’idea. Cruijff seguì un capo per diventare un’idea.

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