STEVENS, GIORNALISTA AMERICANO NELLA PATRIA DEL COMUNISMO


Domenica 22 dicembre 2013


Nella carrellata di personaggi legati alla storia della Russia, credo che debba avere un posto anche Edmund Stevens. So che era cittadino americano, ma aveva trascorso tutta la vita a Mosca. Lei ha avuto modo di conoscere anche lui? 

Mario Vercesi, Varese


Caro Vercesi,
   Ho conosciuto e frequentato Edmund Stevens a Mosca nella seconda metà degli anni Ottanta. Era vecchio, malandato, afflitto da una dolorosa ernia del disco e beveva troppo; ma la sua mente era lucida e la sua lingua tagliente. Nonostante le chiacchiere che continuavano a circolare sul suo conto, non era più comunista dall’epoca del suo primo soggiorno nel Paese dei Soviet, quando aveva perduto la fede. Ma non tollerava i giudizi disinformati e sommari con cui i suoi interlocutori occidentali credevano di potere liquidare sprezzantemente l’Unione Sovietica e la rivoluzione d’Ottobre.

Quando arrivò a Mosca, nel 1934, aveva 23 anni, si era appena laureato in scienze politiche alla Columbia University di NewYork e parlava perfettamente quattro lingue fra cui l’italiano, appreso durante un lungo viaggio in Italia con la madre negli anni dell’adolescenza. Lavorò per qualche tempo in una sezione editoriale della Terza internazionale dove si confezionavano libri di propaganda in molte lingue per l’Occidente, ed era quindi a Mosca nella prima fase delle Grandi purghe. Fu per qualche tempo agente di Cunard, la grande società britannica di linee marittime, ma cominciò presto a scrivere corrispondenze moscovite per giornali inglesi e americani. Questa occupazione occasionale divenne un mestiere quando fu scoperto da un giornale americano, il Christian Science Monitor, che preferiva le analisi ragionate e distaccate agli articoli di colore pieni, come avrebbe detto Shakespeare, di «sound and fury», di tuoni e fulmini. Era lo stile preferito di Stevens. Per il piccolo giornale di Boston (il formato era quello del tabloid) raccontò la guerra russo-finlandese, lo sbarco dei tedeschi in Norvegia, gli eventi dell’Europa del Nord visti dall’osservatorio di Stoccolma, la resistenza dei greci contro l’esercito italiano, le operazioni militari in Nord Africa, le grandi conferenze internazionali durante il conflitto e, infine, gli ultimi anni di Stalin con una serie di articoli che gli procurarono un Premio Pulitzer.

A Mosca, nel frattempo, aveva sposato una piccola donna esile e bionda di origine russo-ucraina, Nina Bondarenko, ed era diventato padre di un bambino e di una bambina, Anastasia, che avrebbe studiato danza al Bolshoi, calcato per qualche tempo le scene del maggiore teatro moscovita e sposato un nobile italiano. Stevens ne parlava con orgoglio e occhi luccicanti, ma quando la conobbi, purtroppo, aveva smesso di ballare, il matrimonio si era concluso con un divorzio e anche lei, come il padre, aveva l’abitudine di bere troppo. Morì un anno prima del padre, forse suicida.

A Mosca la famiglia Stevens abitava dal 1960 in una piccola casa del Settecento, nel quartiere dell’Arbat, una elegante palazzina in mattoni e stucco, con simboli massonici sulla facciata, che era sopravvissuta al grande incendio moscovita del 1812. Nella casa Edmund aveva riunito la sua raccolta di icone e Nina la sua collezione di quadri moderni russi, georgiani e francesi. Vi era anche, in cantina, un salotto rustico, arredato nello stile dei «weinstube » austriaci, dove Stevens riceveva gli ospiti.

Sulla sua vita esiste oggi negli Stati Uniti una biografia che è anche un omaggio al suo migliore amico italiano, Indro Montanelli. L’autrice, Cheryl Heckler, stava lavorando sulle carte di Montanelli a Fucecchio quando si è imbattuta in una cinquantina di lettere che Stevens aveva scritto all’amico italiano. Si erano conosciuti in Finlandia, avevano attraversato insieme tutte le vicende di quel periodo e non si erano mai perduti di vista. Quando Montanelli fondò il Giornale, Stevens ne divenne l’occasionale corrispondente moscovita e pubblicò tra l’altro alcuni pezzi di una autobiografia a cui stava lavorando. Altri pezzi di quella autobiografia sono ora fra le carte custodite dal figlio e hanno permesso a Cheryl Heckler di scrivere un libro intitolato An Accidental Journalist, un giornalista per caso, apparso nel 2007 presso la University of Missouri Press. Quanto alle lettere indirizzate all’amico italiano, Montanelli, in una risposta a Paolo Romani pubblicata su questa pagina, disse che non le avrebbe mai pubblicate. Ma non mi sembra che abbia negato agli altri il permesso di farlo. Spero che avremo un giorno l’occasione di leggerle.
SERGIO ROMANO

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