IN FUGA DAGLI SCERIFFI - La Corsa della Pace sia con voi
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Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine - kindle, amazon.it – € 9,90
Era proprio il secolo scorso, il Novecento, e di acqua sotto i ponti ne è passata tanta.
Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine - kindle, amazon.it – € 9,90
Era proprio il secolo scorso, il Novecento, e di acqua sotto i ponti ne è passata tanta.
L’Est europeo per decenni fu diviso, come usi e costumi, dal resto del continente: oggi si sottovaluta il fatto che quei Paesi curarono, e svilupparono, una tradizione ciclistica tutta loro.
Una mitologia popolare, separata dalla nostra, e con un monolite che prese come modello di riferimento il Tour de France: la Corsa della Pace; che divenne una simbologia potentissima di quel blocco politico, sociale e culturale: la Varsavia-Praga-Berlino, all’apogeo, fu importante almeno quanto il Comecon nel creare, per quelle nazioni, un immaginario comune.
La gara si trasformò in una formidabile propaganda, che seppe unire milioni di persone altrimenti legate loro malgrado, mani e piedi, a sistemi totalitari.
Una figura come Gustav-Adolf “Täve” Schur, il loro maggior fuoriclasse degli anni Cinquanta, incarnò meglio di ogni altro corridore (anche di Coppi e di Merckx) le aspirazioni e gli ideali di una collettività, in quel caso la Germania Orientale.
(...)
Un ciclismo diverso, che conoscemmo soprattutto attraverso le corse dei puri in Italia: una su tutte, il Giro delle Regioni, fu la finestra privilegiata degli scambi tra Ovest ed Est della pedivella, al pari del Tour de l’Avenir.
La creatura di Eugenio Bomboni ci introdusse a una fauna esotica sconosciuta, quella dei nazionali orientali: iniziarono a (ri)popolare i sogni, e gli incubi, dei nostri dilettanti che si ritrovarono contro una concorrenza impossibile da affrontare.
Se l’alba dei Settanta fu il momento dei polacchi di Ryszard Szurkowski, dalla seconda metà del decennio in poi, come una marea minacciosa, arrivarono i sovietici: e non ce ne fu più per nessuno o quasi.
Sobillati dal cittì Victor Kapitonov, dittatoriale nei modi e nei fatti, i corridori dell’Armata Rossa imposero alle corse ritmi infernali e razziarono qualsiasi traguardo.
All’inizio Valeri Likhatchev, Aleksandr Gussiatnikov e Valery Chaplygin. Poi l’ondata di Yuri Barinov, Aleksandr Averin, Chakhid Zagredtinov, Ivan Mitchenko eccetera.
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Con la maglia rosso fuoco, targata Cccp, comparvero due mostri con le caratteristiche ideali per far saltare il banco: Aavo Pikkuus e Sergei Soukhoroutčhenkov.
Per almeno un triennio, nemmeno i maestri dello sport poterono qualcosa contro lo strapotere dell’estone, una vera forza della natura: passista favoloso, strapotente, vinse tanto sia quantitativamente sia qualitativamente (Circuit de la Sarthe open – battendo il vecchio Raymond Poulidor – e Corsa della Pace nel 1977, campione olimpico e mondiale della Cento chilometri e Giro delle Regioni nel 1978).
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Il ciclismo dell’Est, quello della Wyścig Pokoju, fu demolito progressivamente dall’avarizia dei banchieri UCI: per fortuna almeno gli atleti sopravvissero al ratto.
La seconda metà degli Ottanta, oltre alla generazione dei russi dell’Alfa Lum, vide l’emergere prepotente dei tedeschi dell’Est con i vari Uwe Ampler, Bernd Drogan, Uwe Raab e Olaf Ludwig: quest’ultimo dominante anche all’approccio (da trentenne) nei pro’.
Citando anche la sempiterna scuola polacca di Lech Piasecki, Zenon Jaskula e del povero Joachim Halupczok, il cerchio si chiuse quando – nel 1997 – un figlio di quel mondo lontano si aggiudicò il Tour.
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