ZATO, L’UOMO CAVALLO, L’ICONA
Simone Basso
Sport & Cultura - 30 aprile 2020
“Non ho abbastanza talento per correre e sorridere allo stesso tempo.”
Emil Zatopek da Zlìn, che negli anni del comunismo si chiamò Gottwaldov, non può essere spiegato con un pezzo: ma rendergli omaggio significa riconoscerne la grandezza intonsa, giunta a noi (attraverso tanti articoli e qualche filmato) come brani di una mitologia moderna.
La locomotiva umana fece la storia dell’atletica leggera e la incrociò, suo malgrado, con una vicenda personale che attraversò la Storia vera; quella che segna gli uomini e le terre da loro abitate.
Non c’era molto da inventarsi per un moravo che crebbe povero, sesto figlio (su sette) di un padre falegname e una madre casalinga.
Gli sbocchi lavorativi erano rappresentati dalle fabbriche della Matra, a Koprivnice, e della Bata.
Emil entrò nella seconda e iniziò a sgobbare nella catena di quel calzaturificio industriale: divenne Zatopek per caso, tra una polverizzazione dei silicati e l’altra, aderendo controvoglia a una corsa sponsorizzata dalla ditta.
Cominciò e non si fermo più perché, alla faccia dell’invasione nazista di quei giorni, capì che la corsa era il suo elemento naturale.
Il moravo apparve nel 1947 a Parigi, al campionato mondiale universitario, e sorprese anche i giornalisti italiani presenti, tra i quali il 28-enne Gianni Brera.
Quei 1500 furono vinti, molestando l’ungherese Sandor Garay, con la tattica e lo stile che lo resero celebre.
La falcata di un normotipo che tende al longilineo, le gambe potenti da ciclista e un curioso dimenare di braccia, spalle e testa.
Le smorfie del biondino, mentre sgroppava come un alce, parevano un rimissaggio allegro del Ballo di San Vito.
Zatopek fu il profeta inconsapevole dell’interval training; il metodo di allenamento che introdusse le ripetute negli sport di resistenza: “Mentre la maggior parte dei fondisti si allena correndo cinque o sei chilometri ad andatura sostenuta, io mi attengo a un metodo assai diverso.
Preferisco esibirmi a un gran numero di scatti, alternati a volate lente, distese.
Inizio con uno sprint di 200 metri che ripeto cinque volte, poi corro velocemente i 400 metri, e ciò per quaranta volte, alternando i 400 metri con volate di 200 metri piuttosto lente.
Infine corro ancora per cinque volte, i 200 metri, forzando il ritmo; in questo modo e con questa successione di distanze io devo percorrere in una giornata 30 chilometri…”
Fu così che il cecoslovacco si adattò organicamente alla fatica prolungata, stabilendo uno standard che (da quel momento) dovette essere rispettato da tutti.
Scrisse Marcel Hansenne: “Zatopek è veramente un fenomeno o solo un precursore? Fra qualche anno non saranno come Emil tutti gli atleti di fondo ambiziosi?”
Il cuore eccezionale di Emil era aiutato da una capacità polmonare ben oltre i sei litri: a Londra, nelle prime Olimpiadi del dopoguerra (1948), dei suoi cambi di ritmo ne fece le spese il grande Viljo Heino.
Il finnico, nella finale dei 10.000, seguì le progressioni folli di Zatopek e al terzo chilometro svenne, prossimo all’infarto.
Helsinki, quattro anni più tardi, fu l’apogeo dell’uomo-cavallo: alle tre medaglie d’oro del fenomeno moravo si aggiunse quella, nel giavellotto, della futura moglie Dana Ingrova.
Ai 5000 e ai 10.000 vittoriosi affiancò l’esordio nella maratona.
Sfiancò lo specialista britannico Jim Peters e quando entrò nello stadio, nella landa che appartenne al leggendario Paavo Nurmi, divenne all’istante un Immortale.
Eppure il miglior Zatopek si vide nel biennio successivo: sfidato dalla nouvelle vague del fondismo europeo, tra il 1953 e il 1954 realizzò performance clamorose.
A Parigi, al cross de L’Humanitè, mise in fila Vladimir Kutz e Aleksandr Anufriev.
A San Paolo, salutò l’anno nuovo aggiudicandosi la traversata di San Silvestro.
Fu di quel periodo la doppietta (a due giorni di distanza!) nei primati mondiali dei 5000 e 10.000: i record battuti in carriera saranno tredici, a far da corona alla striscia di trentotto gare senza sconfitte; ovvero sette anni di imbattibilità.
Il declino, dolce e mai patetico, fu confermato a Melbourne nel 1956: arrivò in Australia a dispetto di un’operazione all’ernia inguinale e fece una maratona dignitosa.
Il sesto posto onorò la vittoria di Alain Mimoun, l’eterno rivale che fu per tante stagioni il suo Tano Belloni. Il francese corse velocissimo l’ultimo tratto su pista, quasi a voler scappare da un’improbabile rimonta del fantasma di Emil…
Finito l’agonismo visse i primi anni da totem della Cecoslovacchia, simbolo vivente di una nazione, con slancio immutato.
Dirigente del Partito Comunista, appoggiò senza timori il manifesto programmatico riformista di Alexander Dubcek.
La Primavera di Praga, la stagione del “socialismo dal volto umano”, si concluse brutalmente con l’invasione dei carri armati sovietici: Zatopek fu espulso dall’esercito e confinato nel nord-ovest del Paese.
Lavorò per sei anni a Jàchymov nelle miniere di uranio, distante dalla moglie Dana agli arresti domiciliari praghesi, e poi fece lo spazzino e lo sterratore.
Gli offrirono più volte di scappare dal Paese e rifiutò sempre.
Di fronte a quelle umiliazioni, Emil non cedette mai: anzi sorrise, con l’allegria matta tipica di un Jaroslaw Hasek, lo scrittore anarchico che (beffardo) si inventò il Partito del Progresso Moderato nei Limiti della Legge.
“Correre” di Jean Echenoz è un libro che narra l’odissea dell’uomo di Zlìn.
E’ privo di qualsiasi tipo di epica e vanta una narrazione asciutta, essenziale, senza enfasi: sembra quasi rispettare il ritmo ieratico della corsa, nei boschi della Moravia, di Emil Zatopek.
La cui vicenda ci ricorda il valore inestimabile della dignità umana.
“Un corridore deve correre con i sogni nel cuore, non con i soldi nel portafogli.”
SIMONE BASSO
Pubblicato da Indiscreto il 28 settembre 2010
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