HOOPS MEMORIES - Magic di nome e di fatto
di CHRISTIAN GIORDANO, American Superbasket
Che la stagione 1979-80, per i Lakers e per la NBA, sarebbe stata magica si capì sin dalla ouverture dei gialloviola, a San Diego. Los Angeles vinse con un gancio-cielo di Kareem Abdul-Jabbar, che alla sirena fu travolto dall’entusiasmo della 20enne matricola Earvin “Magic” Johnson. Non farlo più, “Buck” - gli intimò il capitano - Dobbiamo giocarne altre 81.
I Lakers ne vinsero 59, primo bilancio a Ovest e secondo nella Lega dietro il 61-21 dei Boston Celtics, ribaltati da Larry Bird, Rookie of the Year davanti a Johnson, col più grande miglioramento di sempre: +32 vittorie in un anno. Nei playoff, i Lakers ne disputarono altre dieci prima di arrivare in finale contro i Philadelphia 76ers della stella Julius Erving. Dall’arrivo di “Dr J”, nel 1976-77, i Sixers erano i favoriti al titolo, ma da allora non erano più tornati in finale e sbavavano per vincerlo. Allo stesso modo, Jabbar non lottava per il campionato dal 1974, quando era il leader dei Milwaukee Bucks, con i quali lo aveva conquistato al primo tentativo, nel 1971. Magic, invece, aveva vissuto in un sogno: nel ’77 aveva portato la Everett High School di East Lansing al titolo statale del Michigan, nel ’79, da sophomore, aveva vinto con Michigan State il Torneo NCAA (contro la Indiana State di Bird, nella finale più televista di ogni epoca) e ora, al primo anno da pro’, poteva ripetersi nella NBA.
Prima scelta al draft, Magic chiuse la sua ottima stagione da rookie con 18 punti, 7 rimbalzi e 7 assist per gara. In postseason, i Lakers si sbarazzarono in cinque partite sia di Phoenix sia di Seattle, campione uscente che l’anno prima li aveva eliminati al secondo turno. L.A. era ancora la squadra di Jabbar, ma già prima che cominciasse la serie di finale in tanti attribuivano i positivi cambiamenti avvenuti nei Lakers, e in Kareem stesso, alla entusiastica presenza di Magic.
In casa gli angeleni vinsero (109-102) Gara1 e persero (104-107) Gara2. Fuori, strapparono (101-111) Gara3 ma non Gara4 (105-102). Si tornava a Ovest in parità. Gara5 fu punto a punto sino al terzo quarto, quando Jabbar, dopo aver segnato in sottomano, atterrò male con la caviglia sinistra su un piede di Lionel Hollins, guardia arrivata in febbraio come rimpiazzo di Doug Collins (out per un ginocchio ko). Kareem zoppicò verso la panchina mentre il Forum tratteneva il fiato. Nella serie era stato lui a tenere in piedi i Lakers, e ben oltre le pur impressionanti medie: 33.4 punti, 13.6 rimbalzi e 4.6 stoppate. Temendo una frattura, il medico sociale gli applicò una fasciatura rigida e il capitano, pur claudicante, rientrò sul parquet. Il dolore era intenso ma sopportabile, e Kareem riuscì a limitare i propri movimenti senza però perdere in efficacia: nel quarto periodo segnò 14 punti (per un game-high di 40) e i Lakers vinsero 108-103.
Pur in vantaggio per 3-2, ora però erano nei guai. I medici dissero al centro di scordarsi persino il volo per Philly, figuriamoci di giocare. E persino il recupero per l’eventuale Gara7, a quel punto assai probabile, era in forte dubbio. Senza l’MVP della lega (primo a vincerlo per la sesta volta, solo Bill Russell era arrivato a cinque), nonché il loro miglior marcatore (24.8), rimbalzista (10.8) e stoppatore (3.41) stagionale, i Lakers sembravano spacciati contro la frontline dei Sixers. Senza Jabbar, che non aveva saltato neanche una partita, e Spencer Haywood – squalificato dopo Gara2 per motivi disciplinari – coach Paul Westhead aveva di che preoccuparsi contro la batteria di lunghi formata da Erving, l’armadio Darryl Dawkins e Caldwell Jones, ala forte di 2.09 adattata a giocare nel mezzo.
I Lakers erano arrivati in fondo alla regular season con Jim Chones, l’ala forte titolare, come pivot di riserva per far rifiatare Jabbar. Ma dato che il miglior giocatore della panchina era una guardia, Michael Cooper, Westhead azzardò e all’aeroporto, prima di imbarcarsi con la squadra per Philadelphia, chiese a Magic, atipica point guard di 2.04 x 115 kg, di improvvisarsi centro. «Sorrideva mentre mi diceva: “E.J., domani inizierai in mezzo”, e pensai stesse scherzando» racconterà Johnson, che in quel ruolo non giocava da quando era senior al liceo. Tre anni addietro. Così Chones sarebbe andato su Dawkins e Magic si sarebbe preso cura di Jones.
Sull’aereo, Earvin si sedette in prima fila, nel posto solitamente occupato da Jabbar, si stirò e poi si sistemò un cuscino dietro la testa proprio alla maniera in cui lo faceva Abdul-Jabbar. Poi si rivolse a Westhead, si girò verso i compagni e pronunciò in terza persona l’immortale «Never fear, E.J. is here!», niente paura, c’è qua E.J. Poi tramandato anche nella variante «Don’t be feared, the thirty-two is here», riferita al suo numero di maglia, il 32, che allo Spectrum avrebbe fatto le veci del 33.
Ci riuscì sin dalla prima palla a due (persa contro Jones) con una delle più memorabili prestazioni viste nei playoff, per sua ammissione «la mia più grande partita nella NBA». I Lakers segnarono i primi sette punti della gara e prima che Philadelphia potesse riprendersi dallo choc avevano già allungato dal 7-4 all’11-4. Con Steve Mix che partiva dalla panchina insieme al sesto uomo Bobby Jones, nel secondo quarto i Sixers sorpassarono fino al 52-44 per poi andare all’intervallo sul 60-pari
Rinvigorita dalla pausa, Los Angeles segnò i primi 14 punti del terzo quarto, ma Philadelphia chiuse a -10 la frazione e accorciò a 103-101 il gap a 5’ dalla fine. Per tre volte Erving portò i Sixers a -2, ma per altrettante, con Magic al timone, i Lakers ripresero il largo. Poi Johnson segnò nove punti nel parziale di 20-6 sul quale i Lakers vinsero 123-107 la gara, 4-2 la serie e il primo dei cinque titoli vinti negli anni Ottanta.
Il foglio delle statistiche rifletteva solo in parte il dominio a tutto campo che Magic aveva esercitato in 47, perfetti minuti di impiego: 42 punti, 15 rimbalzi, 7 assist, 3 recuperi e una stoppata. Aveva giocato centro alla “Lew of Alcindor” (in inglese, in lieu of, la cui pronuncia è simile), con 14/23 al tiro (7/12 nel primo tempo, 7/11 nel secondo) e 14/14 dalla lunetta. Jones era a disagio lontano dal canestro, e più tiri concedeva a Magic, più quello continuava a metterli. Inoltre, i Sixers erano abituati a Kareem che in post basso ancorava su di sé l’attacco a metà campo. Senza di lui, i Lakers fecero circolare di più la palla, attirando sul perimetro i lunghi avversari e scambiandosi spesso ruoli e posizioni. Magic non fece tutto da solo, ovviamente: l’ala piccola Jamaal Wilkes fu altrettanto letale da fuori e segnò come non gli capitava dal liceo: 37 punti, 25 dei quali nella ripresa, cui aggiunse 10 rimbalzi. Altrettanti ne portò in dote Mark Landsberger, unico muscolare gialloviola oltre a Chones. Cooper contribuì con 16 punti. Ma quella era stata la serata di Magic.
«In che ruolo ho giocato? Beh, centro, un po’ ala, a volte guardia. Ho cercato di trovare un nome, ma il meglio che mi è venuto è CFG-Rover». Che tradotto vorrebbe dire che una matricola con ancora una teorica stagione di college davanti, aveva disputato, quando più contava, la partita della vita coprendo tutti e cinque i ruoli: centro, ala piccola e grande, play (contro il veloce Maurice Cheeks) e guardia tiratrice.
Dopo la partita, mentrre coach Billy Cunningham si rammaricava su perché mai quel mostro non fosse rimasto un altro anno all’università, Johnson guardò nelle telecamere e mandò un messaggio ad Kareem, rimasto a letto a Bel Air con la gamba stesa su un cuscino: «Sappiamo che ti fa male, Big Fella (vezzeggiativo che sta per cagnolone, ndr), ma stasera vogliamo che ti alzi e ci fai un bel balletto. Questa è per te!». Hollins, involontario protagonista dell’incidente di Jabbar e quindi di tutto il resto, scosse la testa e disse soltanto: «Magic. Di nome e di fatto».
CHRISTIAN GIORDANO
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