STEVE PREFONTAINE - IL DONO


di MARCO TAROZZI
American Runners

Pre oggi avrebbe 69 anni. Non possiamo immaginare con esattezza quello che sarebbe stato nella vita: probabilmente un alto dirigente dell’azienda che contribuì a lanciare col suo nome, il suo volto e la sua iniziativa, e che oggi è diventata una multinazionale dello sport. Sappiamo, in ogni caso, che metterebbe trasporto nel suo mestiere. Con idee sempre nuove, con creatività. Sarebbe un trascinatore, un capobranco. Era così allora, quando era un re della corsa. In pista e nel mondo fuori. Non sapeva stare fermo, era incapace di restare seduto più di cinque minuti. Riuscì a fermarlo solo il destino, in una maledetta notte di fine maggio del 1975. Pre aveva ventiquattro anni, aveva appena corso nella “sua” Eugene, all’Hayward Field che era la sua tana, quella in cui si sentiva in grado di battere chiunque. Il migliore al mondo. Aveva vinto, battendo Frank Shorter, l’ultima tappa di una serie di meeting che lui stesso aveva contribuito a far decollare, una sorta di faccia a faccia tra atleti americani e finlandesi. Perché lui sapeva quanto fosse necessario confrontarsi con gli altri, per migliorare se stessi. E perché voleva Lasse Viren, l’uomo che lo aveva battuto nei 5000 all'Olimpiade di Monaco tre anni prima. In una finale indimenticabile in cui Pre avrebbe potuto prendere una medaglia, ma non ci riuscì perché lui voleva quella medaglia, la più brillante, e corse gli ultimi metri di una gara non certo adatta a lui per farcela. In quel tour organizzato per i finlandesi Viren mancò. Si sottrasse all’ultimo momento, come altre volte avrebbe fatto tra un’Olimpiade e l’altra. E Pre si sentì un re senza corona. Ma era felice, comunque. Le cose stavano andando bene, Montreal '76 era un traguardo possibile e lui aveva rinunciato a parecchi soldi dal circuito dei professionisti (200mila dollari di allora) per continuare a coltivare il suo sogno olimpico. Solo la sorte poteva fermarlo. E lo fece, in una curva apparentemente innocua a due passi da casa.

FOREVER YOUNG

Qualcuno dice che il mito di Pre è sopravvissuto proprio per questa sua vita spezzata, per questa morte giovane. Come quello di Jim Morrison. Come quello di James Dean. Che come lui se ne è andato a ventiquattro anni, tradito da un’auto che amava. Ma non è così semplice liquidare una leggenda. Se fosse ancora qui, Pre sarebbe giovane anche a più di sessant’anni. Forever Young, cantava Bob Dylan. Per sempre, appunto, e da sempre. Non è questione di età, ma di spirito. Lo spirito resta fedele a se stesso, resta vivo. Ecco tutto: il mito di Steve Roland, re americano della corsa negli anni Settanta, è alimentato da quello spirito che lui ha saputo trasmettere a tanti. A quelli che l’hanno visto correre ad Hayward Field, il tempio dell’atletica di Eugene, Oregon. A quelli che hanno iniziato a correre pensando a lui, ascoltando qualcosa che arrivava da lui, “sentendo” qualcosa di lui. Pre lo chiamava «il Dono». Maiuscolo. Qualcosa che non puoi, non devi sacrificare. Perché non ti capita due volte, nella vita. Il problema è che tanti lo capiscono dopo. Lui no, lui l’aveva capito prima.

Lo scrisse magistralmente Vanni Loriga, cantore dell’atletica in Italia, in un articolo sul Corriere dello Sport dal titolo accattivante, «La Pre-mania di Prefontaine», e purtroppo raccontava la tragedia, ovvero la «vita e morte veloce di un grande atleta». Era datato 3 giugno, quattro giorni dopo la notte dell’incidente a Skyline Boluevard, la notte in cui Eugene e l’America avevano perso uno dei loro figli più grandi. Diceva così: «È vero che ce l’hanno detto sin dall’infanzia, che ce l’hanno spiegato al liceo. Ma non siamo mai riusciti ad abituarci all’idea... Chi ama la vita frenetica, chi è stimolato dentro dalla voglia selvaggia di vivere, chi è sospinto all’azione da una incorruttibile carica agonistica, trova spesso, troppo spesso, al mezzo della sua corsa senza respiro lo striscione del traguardo con scritta, veramente, la parola fine».

Da questa parte dell’Atlantico, in quel lontano 1975, Pre poteva fare breccia nel cuore di chi amava gente come Pippo Cindolo, il pioniere assoluto, Gianni Del Buono, Marcello Fiasconaro. Capelli lunghi, belle facce vissute. O uomini generosi come Franco Fava e Gigi Zarcone. Eppure, la storia di Pre era altro mondo. Coos Bay, l’Oregon e l’America erano altro mondo. «Non vado in pista necessariamente per vincere. Quello che mi interessa è capire, vedere chi ha più fegato in gara». Non erano semplicemente parole, per Steve Prefontaine. Era uno stile di vita. Per questo, soprattutto per questo, più di trent’anni dopo la sua morte improvvisa, tragica e prematura, la memoria della gente ne mantiene vivo il ricordo. Più ancora che per quella vita breve e intensa, per quel destino feroce che prima lo fece volare alto e poi gli tarpò le ali all’improvviso, in fondo a una giornata felice, di applausi e consensi dentro e fuori una pista d’atletica. Steve Prefontaine era un grande corridore. Un artista, nel suo campo. In questo sì, davvero simile a James Dean. Il suo modo di correre, sempre all’attacco, testa alta e petto in fuori, e sempre con coraggio, infischiandosene delle tattiche e alzando il ritmo fino allo spasimo, gli ha fatto a volte perdere confronti importanti, e raccogliere probabilmente meno di quanto avrebbe potuto. Ma lo ha fatto amare dalla gente, ovunque abbia corso. Soprattutto sulle piste di casa, quella della Marshfield High School a Coos Bay, la sua città natale, e quella di Hayward Field a Eugene, la pista con le tribune di legno gialloverdi dove risuonava cadenzato il grido «go, Pre!» (vai, Pre!), ogni volta che passava col cuore a mille, la fatica e la febbre agonistica stampate dentro agli occhi, sul rettilineo del traguardo. Solo per lui qualcuno riuscì a trasferire il concetto di “fattore campo”, tipico degli sport di squadra, all’atletica. «Vengano qui, all’Hayward Field, quelli che lo hanno battuto a Monaco», dicevano a Eugene, tempio dell’atletica USA. «Vedrete, sarà un’altra musica».

VITA DA ARTISTA

«Alcuni creano con le parole, con la musica, o con pennello, tavolozza e colori. A me piace fare qualcosa di bello quando corro. Mi piace che la gente si fermi a dire: non ho mai visto nessuno correre così. È qualcosa di più che una semplice corsa. È stile. È fare qualcosa meglio di chiunque altro. È essere creativi». Sì, Steve Prefontaine era un artista. E ne aveva assoluta consapevolezza.

Il Dono va coltivato. Pre lo sapeva, lo diceva. Aveva voglia di arrivare, ma anche di condividere quella sua certezza. La spiegava con semplicità ai ragazzini dell’Oregon, che stravedevano per lui. Andava nelle scuole a insegnare che lo sport è importante, ed altrettanto lo è porsi degli obiettivi. Andava, senza fare pubblicità ai suoi gesti, nelle carceri. Nel penitenziario di Eugene creò un club di runner che è sopravvissuto per anni alla sua morte. Lui parlava schietto. Un giorno lo chiamarono a dare testimonianza contro una vecchia usanza dell’Oregon, quella di incendiare i covoni nei campi d’estate, che aveva provocato problemi di respirazione a mezza Eugene, e anche a lui durante gli allenamenti. «Ho avuto più attenzione e comprensione dai detenuti che da voi», disse ai politici che lo ascoltavano. Aveva ragione, e non aveva paura delle parole.

«Ecco che passa Steve, il ragazzo che corre sempre». Nacque in quei primi anni di allenamenti duri e selvaggi, il mito di Pre. E furono gli abitanti di Coos Bay, piccola città costiera che aveva dato i natali al prodigio della corsa, a costituire il primo nucleo del suo grande “popolo”. Ai tempi della high school, Steve cominciava a diventare imbattibile. E correva, correva. Ovunque. Sulla statale, nei parchi, nelle strade intorno a casa e sulla pista dei Pirati di Marshfield, proprio accanto alla scuola. Quella pista che gli hanno dedicato, e intitolato, il 27 aprile 2001. Pre attraversava la città e aveva una parola per tutti. Soprattutto per i suoi abitanti dell’alba, quando usciva per la prima sgroppata quotidiana e incontrava fornai, lattai, netturbini. «Steve era una persona autentica, vera, spontanea», ricorda la sorella Neta. «E in questo mondo non è facile trovare spesso persone vere. Chiunque incontrasse, dava tutto quello che aveva nell’anima».

Poi vennero i giorni di Hayward Field. Si disse che quella pista, a Eugene, con l’arrivo di Prefontaine fosse diventata la Carnegie Hall dell’atletica. In quel luogo sacro alla corsa, su quelle tribune, Pre riusciva ad attirare tifosi a migliaia, e a catturare la loro attenzione con le sue gare senza risparmio, tutte cuore e passione. Fu lì che diventò, per tutti, Pre. E nella tana di Hayward Field quel grido che saliva forte, sempre più forte a ogni giro, lo esaltava e lo ispirava, spingendolo a dare sempre qualcosa di più per la sua gente. Anche se fuori dal campo non gli piaceva affatto sentirsi chiamare così, perché voleva che tutti capissero che lui era molto più che un ottimo atleta, che lo sport era tanto ma non era tutta la sua vita. «Io non sono un jockey, uno di quei muscolari che vivono solo di sport. Chiedetelo ai miei compagni, anche all’Università. Io faccio sul serio nello studio e ho mille altri interessi. Posso benissimo svegliarmi domattina e decidere che non corro più, un jockey non può prendere certe decisioni...».

IL DIO PEDONE

Un inviato de La Stampa era andato a trovarlo parecchio tempo prima dell'Olimpiade di Monaco '72. Girando l’America aveva annusato l’aria e intuito. L’aveva intervistato davanti alla roulotte in cui Pre viveva, sulle rive del Willamette. Era il 1971. L’articolo si intitolava «Il dio pedone che vive in roulotte». Raccontava: «Steve Roland Prefontaine, padre carpentiere vagamente
francese, madre commessa tedesca, due sorelle, è il nuovo dio pedone statunitense... Ha l’aria del dolce spaccatutto, quello che fa le cose grosse perché proprio non può esimersi dal suo grande destino. Baffetti guasconi, capelli moschettieri, di un biondo arrogante, peso leggero, lui corre... Arrogante ma non antipatico, spavaldo ma non sbruffone, e niente buffone... Prefontaine sembra quasi soffrire per quanto fa soffrire gli altri».

Quell’inviato si chiama Gian Paolo Ormezzano. Le sue parole aiutarono i lettori più attenti a capire, anche dalle nostre parti, chi era Prefontaine. E coglievano nel segno: ancora oggi c’è una forza speciale che emana dalla sua figura. Il messaggio che ancora trasmette alle generazioni dell’atletica. L’America ha avuto altri campioni, tutti sbocciati in pieno boom della corsa, quando Pre ormai se ne era andato da tempo. Ma non ne ha amato più nessuno come aveva amato lui.

Da Eugene sono passati ancora grandi stelle, dopo Prefontaine. Da Alberto Salazar a Rudy Chapa e Mary Decker Slaney. Tutti, in qualche modo, ispirati da Pre. «Lui è stato la ragione principale per cui sono venuto alla University of Oregon», ricorda Salazar. «Ogni corridore, qualunque fosse il suo talento, desiderava essere guidato da Bill Bowerman, l’uomo che aveva plasmato il più emozionante e travolgente corridore del paese. E io volevo diventare parte della leggenda di Pre».

Quella leggenda ancora viva dopo più di trent’anni, quella fiamma che tutti in qualche modo vogliono tenere accesa. E la ragione è semplice. Walt McClure, il primo a incanalare il talento di Steve Prefontaine su una pista d’atletica, lo prese con sé quando era ancora un ragazzino pieno di ambizioni e di traguardi da raggiungere.

«Non c’erano misteri intorno a lui. Semplicemente, lavorava in modo infernale. Conosceva un solo tipo di velocità, nella vita. Quella massima».

IL MESSAGGIO

Giorno qualunque di un’estate di questi tempi. Il terzo millennio ha spazzato via molte cose, molte facce, molte parole. Non Pre. Molto presto di mattina, Coos Bay è appena sfiorata dalle nebbie dell’Oregon. Qualche miglio a nord, sulle dune dove Pre andava spesso ad allenarsi, corrono le moto a ruote larghe che qualche rivenditore noleggia sulla strada che porta all’oceano. Piove. Una pioggia leggera che accarezza i pensieri e non li bagna. Coos Bay è appoggiata sulla baia del Coos River, tra l’oceano Pacifico e i boschi dell’Oregon. Comunità di pescatori e falegnami, gente laboriosa e artigiana. Un posto in cui vale ancora l’etica del lavoro. A Steve l’aveva trasmessa papà Ray, carpentiere, spesso portandolo con sé nei cantieri. Steve riposa vicino a papà Ray nel Sunset Memorial, il cimitero di Coos Bay. Una collina tranquilla che guarda la baia, e i tronchi d’albero che galleggiano a due passi dalla riva. C’è anche la tomba della nonna, lì accanto. Animatrice del primo “fans club” dedicato al nipote, un gruppo che si muoveva colorato (magliette gialle con la scritta “Go Pre”) ovunque lui desse spettacolo, in giro per l’Oregon. Se ne è andata nell’autunno del ’75. Annientata dal dolore, immaginiamo.

Coos Bay, città orgogliosa e silenziosa, ha trovato la forza di ricordare questo figlio che mai aveva dimenticato le radici. Grazie a Bob Huggins, amico d’infanzia, la cui agenzia di assicurazioni, poco distante da casa Prefontaine su Elrod Avenue, è diventata il cuore della “Prefontaine Memorial Run”, la corsa su
strada che a settembre 2012 ha festeggiato l’edizione numero ventisei nel nome di Pre. E nell’aprile 2001 anche il suo liceo, Marshfield High School, gli ha dedicato con una cerimonia ufficiale la pista d’atletica su cui a metà degli anni Sessanta prese il via una carriera destinata a diventare leggenda. L’estate dell’Oregon è fresca e spruzzata dalla pioggia. Sembra un autunno appena più mite di quelli a cui siamo abituati. Questa è la terra di Pre, immersa negli odori di legno e oceano. Un porto tranquillo, forse troppo per un ragazzo che non riusciva a stare fermo. Eppure, è proprio qui che il Dono gli è stato consegnato.

IL GRANDE SOGNO

«Sono in tre: Viren, Gammoudi e Prefontaine. L’inglese Ian Stewart è troppo indietro per poter fare sogni d’oro. Pre, invece, non rinuncia ai suoi. A trecento metri dal traguardo, potrebbe restare alle spalle degli altri due, e un posto sul podio alla sua prima Olimpiade e ad appena ventun anni sarebbe assicurato. Ma non è nel suo carattere. Lì, sul rettilineo opposto a quello del traguardo, Prefontaine ci prova ancora. Gammoudi, vecchio marpione delle piste, gli sbarra in qualche modo la strada prima che possa mettere la testa davanti agli altri. Non è finita, però: all’ultima curva, il ragazzo dell’Oregon attacca di nuovo. È al limite delle forze, ma tutto quello che ha dentro lo spende. “Per vincere l’oro”, aveva detto, “bisogna dare il centoventi per cento”. Lui lo dà. Ma Viren reagisce, e Gammoudi gli spezza ancora il passo. Al momento dello sprint, Pre è in riserva. Scava dentro per cercare le ultime risorse, ma non le trova. Ha speso tutto. Viren vola a vincere la sua seconda medaglia d’oro, Gammoudi è secondo. La beffa, per Pre, arriva a meno di dieci metri dal traguardo. È esausto, il suo finale è una caduta libera verso l’arrivo, e a un niente dalla fine Stewart, in rimonta, gli soffia la medaglia di bronzo...».

Non gli bastava essere “uno del podio”. O meglio: gli sarebbe andato benissimo, ma non senza averci provato. Lui ci provò a Monaco '72, con nel cuore ancora l’angoscia per i giorni di Settembre Nero e la morte degli undici atleti israeliani, una ventata di guerra che aveva sfregiato il clima olimpico, stracciandone gli ideali. Pre si era quasi perso in pensieri bui, lo sport e la corsa gli sembravano cose piccole e ridicole in quel momento, e Bill Dellinger, suo coach insieme a Bill Bowerman, lo aveva portato un’intera giornata fuori dal villaggio olimpico per fargli ritrovare un equilibrio perduto. Ma quella brutta storia, e anche quel podio mancato dopo aver dato il massimo, lo avrebbero cambiato. Dopo Monaco, Pre ebbe una lunga crisi in cui sembrò addirittura abbandonare l’idea dell’agonismo. Ma alla fine riprese, ritrovò la convinzione dentro una mente più adulta. Non più un guascone divertente e divertito. Un ragazzo diventato adulto, pronto a prendersi a Montreal quello che Monaco gli aveva negato. Pronto a rifiutare le sirene del professionismo, a battersi contro le regole della AAU che sbandierava un dilettantismo fuori del tempo. «Al diavolo la vecchia gloriosa bandiera a stelle e strisce. Io corro per me, per i sacrifici che ho fatto in tutti questi anni». Aveva ragione e in tanti non capirono. Qualcuno lo tacciò di antipatriottismo. Proprio lui, che per rivivere il suo grande sogno a Montreal aveva buttato alle ortiche un contratto che avrebbe significato sicurezza economica per anni e anni.

Pre, dunque, riprese a correre. Con più tenacia di prima, e con una mentalità più aperta. Coinvolgendo gli altri, come fece nell’organizzazione del tour dei finlandesi. Ascoltando, delegando. Pur restando un punto di riferimento per tanti: compagni, avversari, i ragazzini di Eugene e del mondo dell’atletica. La gente dell’Oregon, la sua terra. «Non dite a mio padre che non so nulla di pesca, però», disse scherzando agli amici durante la festa seguita alla tappa di Eugene del tour. Pre aveva vinto da poche ore i 5000 metri, in 13'23”8 , davanti a Frank Shorter. Poche ore dopo, avrebbe incontrato il suo destino nella notte stellata di Eugene. Lasciando in chi lo aveva appena visto così vitale, così carico, così pieno di progetti per il futuro, un senso di vuoto stridente. È sempre così, quando la morte si porta via la vita più esuberante.

NELLA LEGGENDA

È difficile vivere in corsa, e in vantaggio sui tempi. La gente fatica a comprenderti. E rischi di smarrirti, se non hai un carattere forte. Se ce l’hai, allora combatti. Pre combatteva. Contro l’ottusità dei federali dell’atletica statunitense degli anni Settanta, contro le loro regole, contro chi pretendeva che vivesse solo di sussidi universitari, sventolando anacronistici principi di dilettantismo, e poi si aspettava medaglie e tanta gloria da coprirci gli Stati Uniti d’America. Contro questa gente e queste idee fuori dal tempo, lui alzava la voce. Pre voleva costruire qualcosa che invogliasse la gente a correre, a Eugene. Aveva girato il mondo, aveva capito che la corsa poteva essere molto più che un privilegio per pochi. Un gesto naturale, uno stato mentale. Benessere. Per gli atleti di punta e per la gente comune. Le sue idee erano concrete: un impianto in cui si potesse insegnare e imparare, respirare e vivere la corsa. Come quelli che aveva visto nei suoi tour in Finlandia. Un percorso nel cuore di Alton Park, polmone verde di Eugene, su cui tutti potessero dedicarsi al running. Pre se ne è andato nel 1975. Poco più tardi, le sue idee sono diventate le idee di tanti. È difficile vivere in vantaggio sui tempi. Ma se ne hai il coraggio, resterai vivo nella memoria più a lungo di chiunque altro.

In quella notte di fine maggio del ’75 se ne andò il più grande corridore d’America, che all’epoca deteneva tutti i record statunitensi dai 2000 ai 10.000 metri, e che l’esperienza e il talento potevano solo far maturare. Fin lì, Steve Prefontaine aveva conquistato quattordici primati americani, corso nove volte i 5000 sotto i 13'30”, e abbattuto otto volte il muro dei quattro minuti nel miglio. Dal 1970 fino alla sua morte aveva vinto 82 delle 102 gare disputate in pista, su distanze dal miglio ai 10.000 metri. Nei quattro anni trascorsi alla University of Oregon, aveva vinto quattro titoli NCAA sulle tre miglia o sui 5000, e tre titoli NCAA di campestre. Aveva vinto due volte i campionati AAU sulle tre miglia, nel ’71 e nel ’73, e i 5000 ai Giochi Panamericani nel ’71. Aveva infilato una striscia vincente, sulla pista di Hayward Field, di venticinque successi consecutivi, l’ultimo dei quali poche ore prima dell’addio.

Quella notte se ne andò Pre, il “ribelle con causa”. E da quella notte è diventato semplicemente leggenda. Qualcosa di unico, di immortale, di indimenticabile.

MARCO TAROZZI
American Runners


STEVE ROLAND PREFONTAINE 
È NATO A COOS BAY, OREGON, IL 25 GENNAIO 1951. SE NE È ANDATO TRAGICAMENTE A EUGENE, VITTIMA DI UN BANALE INCIDENTE D’AUTO, INTORNO ALL’UNA DI NOTTE DEL 30 MAGGIO 1975. NEI SUOI INTENSISSIMI VENTIQUATTRO ANNI DI VITA È DIVENTATO UNA LEGGENDA DELL’ATLETICA E DELLO SPORT AMERICANI. FIGLIO DI RAY, CARPENTIERE DI ORIGINI FRANCOCANADESI, E ELFRIEDE, NATA IN GERMANIA, SCOPRÌ LA CORSA A QUATTORDICI ANNI DOPO AVER TENTATO CON SCARSI RISULTATI LA STRADA DEL FOOTBALL AMERICANO, E FECE SUBITO PASSI DA GIGANTE INDOSSANDO I COLORI DEI “PIRATI” DI MARSHFIELD, LA SUA HIGH SCHOOL, SOTTO LE CURE DEL SUO PRIMO TECNICO, WALT MCCLURE. NEL ’69 IL PASSAGGIO ALLA UNIVERSITY OF OREGON, DOVE INSEGNAVA IL “GURU” BILL BOWERMAN, COADIUVATO DA BILL DELLINGER, BRONZO NEI 5000 METRI ALL'OLIMPIADE DI TOKYO '64. DURANTE LA CARRIERA UNIVERSITARIA VINSE SETTE TITOLI NCAA (TRE NEL CROSS E QUATTRO IN PISTA). NEL 1972 FINÌ QUARTO NELLA FINALE OLIMPICA DEI 5000 AMONACO, GARA IN CUI ERA IL CONCORRENTE
PIÙ GIOVANE CON I SUOI 21 ANNI, ALLE SPALLE DI LASSE VIREN, MOHAMED GAMMOUDI E IAN STEWART, CHE LO SUPERÒ NEGLI ULTIMI METRI. RINUNCIÒ A UNA STRATOSFERICA OFFERTA DEL CIRCUITO PROFESSIONISTICO PER POTER PREPARARE L’ASSALTO AI 5000 DI MONTREAL. AL MOMENTO DELLA SUA SCOMPARSA DETENEVA TUTTI I RECORD AMERICANI SULLE DISTANZE DALLE 2 MIGLIA AI 10.000 METRI, AVEVA CONQUISTATO 14 PRIMATI STATUNITENSI, ABBATTUTO NOVE VOLTE LA BARRIERA DEI QUATTRO MINUTI SUL MIGLIO E CORSO DIECI VOLTE I 5000 SOTTO I 13'30”. HAYWARD FIELD, A EUGENE, ERA IL SUO PALCOSCENICO: IN 38 GARE CORSE TRA IL ’70 E IL ’75 SU QUELL’ANELLO COLLEZIONÒ TRE SOLE SCONFITTE. FU IL PRIMO TESTIMONIAL DI NIKE, ALLORA UNA PICCOLA AZIENDA FONDATA IN OREGON DA PHIL KNIGHT E BILL BOWERMAN, E CONTRIBUÌ A DARLE UNA DIMENSIONE INTERNAZIONALE. ANCORA OGGI È L’UNICO ATLETA A ESSERE RICORDATO CON UNA STATUA DAVANTI ALL’ENTRATA DEL QUARTIER GENERALE DI BEAVERTON.

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