FINALI MONDIALI - Santiago 1962: l’ultimo volo del Passero
In un solo slancio rapita la folla pentita
In un atto di morte si innalza e grida
Il suo unanime canto di speranza
Garrincha, l’angelo, l’ascolta e risponde Goool!
– Vinícius de Moraes
di CHRISTIAN GIORDANO ©
FINALI MONDIALI - Le partite della vita
Rainbow Sports Books ©
FINALI MONDIALI - Le partite della vita
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Si fosse giocato a calci anziché al calcio, il più logico vincitore di questo Mondiale sarebbe stato senz’altro il Cile padrone di casa. Ma per fortuna qualcuno si dimentica di avvertire Garrincha e lui, l’Alegria do povo”, la gioia del popolo, riesce perfino a sopperire
alla forzata assenza dell’infortunato Pelé: ci penserà Mané a vestire i panni tecnici di “O rei, stiratosi ad una coscia proprio contro i cechi nel secondo incontro degli ottavi (Gruppo 3, 0-0 il risultato).
E il Brasile intero sentitamente ringrazia: sarà bicampeão. Manoel dos Santos Francisco, per tutti “Garrincha”, è infatti il Pelé del torneo.
Fa tutto lui, inventa e ricama, suggerisce e conclude (alla fine sarà, con quattro gol, co-capocannoniere assieme al compagno di squadra Vavá, all’ungherese Albert, al sovietico Ivanov, allo jugoslavo Jerkovic
E al cileno Sánchez, il picchiatore che la fece franca dopo aver provocato l’espulsione dell’azzurro David). Cile 62 sarà l’ultimo, più alto volo di un uccellino triste che assurge direttamente a leggenda e senza passare dal via della storia.
Ma se dalla più grande ala destra di sempre ci si poteva aspettare di tutto, nessuno poteva immaginare che la Cecoslovacchia regalasse la finale “grazie” a Willy Schrojf, che fin lì ce l’aveva portata di peso. Messa così è un po’ una forzatura, ma seguendoci scoprirete che non lo è di tanto.
Domenica 17 giugno, estadio Nacional di Santiago: 60.068 spettatori – 16 mila in meno rispetto alla semifinale persa dai padroni di casa contro i brasiliani – stanno per assistere alla più annunciata delle incoronazioni.
Gli auriverdes sono i campioni del mondo in carica e nessuno scommetterebbe un centesimo sulla loro mancata riconferma.
Ma le partite già vinte si sa, nel calcio e non solo, sono le più pericolose. diffidate gente, diffidate.
I cechi, a far lo sgambetto al favoritissimo Brasile, ci fanno più che un pensierino anche perché il loro rendimento è in crescendo, magari non rossiniano ma sufficiente, dopo un avvio altalenante (1-0 alla Spagna, 0-0 coi verdeoro, 1-3 col Messico e secondo posto dietro al Brasile negli ottavi), per superare Ungheria (1-0 nei quarti) e Jugoslavia (3-1 in semifinale). dopo le sofferenze patite nel girone di qualificazione (biglietto staccato in extremis spareggiando in campo neutro, 4-2 alla Scozia), gli uomini guidati dal pragmatico Rudolf Vytlacil, fisicamente preparatissimi, strada facendo acquisiscono la consapevolezza dei forti: a gioco lungo, per loro potrebbe esserci la possibilità di ripetere lo scherzetto fatto otto anni prima dai tedeschi dell’ovest alla Grande Ungheria, e di passare alla storia.
Stavolta, magari, senza sospetti di additivi chimici.
Punti di forza della formazione ceca sono il portiere Schrojf, che nel corso del torneo ha sfornato prodezze in serie, e soprattutto il grande mediano Masopust, autentico «cervello» di centrocampo che proprio alle sue prestazioni cilene dovrà il Pallone d’oro 1962 di lì a qualche mese. non basteranno.
Il Brasile che si appresta a difendere il titolo conquistato quattro anni prima, non è molto diverso da quello che in Svezia surclassò Liedholm e compagni. il nuovo Ct aymoré Moreira, subentrato a quel Feola che, nel 1958, aveva «inventato» Zagallo finta ala sinistra, viaggia sul sicuro e cambia pochissimo una formazione dai meccanismi ormai ben rodati. amarildo seconda punta e i difensori centrali Mauro e Zózimo sono le uniche novità rispetto alla squadra che quattro anni prima, in Scandinavia, aveva incantato il mondo. Poi gli eterni Gilmar in porta, i due Santos in difesa; Zito, il regista Didi (ormai 34enne) e Zagallo in mediana, e Garrincha là davanti. E così il tecnico può anche fare a meno – udite udite – dell’azzoppato Pelé.
Per il resto, la stessa sapiente miscela di giocolieri che sapeva fare del futébol bailado un’arte: perché toccarla? L’anagrafe poteva essere un buon motivo, ma in un contesto tecnico grigio come quello del Mondiale cileno, quel Brasile, rattoppato e vecchiotto, era ancora due spanne sopra tutti.
La vigilia della finale, in casa brasiliana, è alquanto agitata. due le spinose questioni all’ordine del giorno. La prima riguarda Pelé che nonostante l’infortunio vuole a tutti i costi giocare. L’esperienza capitata otto anni prima all’Ungheria di Puskas avrà pur insegnato qualcosa e lo staff medico coraggiosamente non gli concede il via libera per sostenere il provino decisivo. Apriti cielo.
La «junta medica» è irremovibile anche perché chi se la prende la responsabilità qualora, malauguratamente, l’asso brasiliano dovesse rompersi sul più bello? Per Moreira invece, non tutto il male vien per nuocere: lui la quadratura del cerchio l’ha trovata e l’aut-aut dello staff sanitario gli serve su un piatto d’argento, senza rischiare il linciaggio, la possibilità di schierare Amarildo, prezioso rincalzo infinitamente inferiore al titolare ma che pare attraversare un irripetibile stato di grazia.
Il secondo è il caso Garrincha. il giocatore, espulso in semifinale e quindi, regolamento alla mano, in odore di squalifica certa, viene incredibilmente «riabilitato» grazie alle pressioni congiunte dei governi brasiliano e peruviano, quest’ultimo chiamato in causa perché peruviano è Yamasaki, che non è un acronimo fra due case motociclistiche giapponesi, ma Arturo Maldonado, l’arbitro «reo» di lesa maestà calcistica che aveva «osato» buttarlo fuori nella gara contro il Cile. Le pressioni, da ogni parte, da fortissime si fanno insostenibili e allora la Cecoslovacchia fa buon viso a cattiva sorte e per attirarsi le simpatie degli osservatori neutrali (se esistono) chiede ufficialmente che a Garrincha venga concesso di scendere in campo. Una farsa. Come una farsa è stata l’intero mondiale cileno, sul piano del rispetto delle regole e del rispetto tout-court (vero, Mr. Aston ?).
Ma la mossa ceca nasconde forse anche un sottile calcolo: quattro giorni prima Garrincha era stato colpito da una pietra e fino alla vigilia veniva dato per febbricitante; è probabile – probabile, non certo – che il buon Vytlacil abbia fatto una botta di conti e sperato in un non perfetto recupero del funambolico attaccante. i calcoli, se mai ci furono, si rivelarono esatti. Ma non bastarono per portare a casa la Rimet.
LA PARTITA
Per non finire schiacciati dalla supremazia tecnica carioca, i cechi sorprendono tutti mutando pelle e attaccano. i funambolici palleggiatori brasiliani non solo non ci stanno a difendere, è che proprio non sono capaci e sulle prime rimangono spiazzati. a saper leggere
tra le righe, la corazzata auriverde non è più la macchina perfetta di quattro anni prima. L’assenza di Sua Maestà Pelé, pur tamponata da un Amarildo in gran spolvero, è pur sempre… l’assenza di Pelé e poi l’età e il logorio delle stelle brasileire cominciano a farsi sentire.
Didi, fenomeno tecnico che alla sua fisiologica lentezza pagherà il tributo del fallimento al Real Madrid, coi piedi e con la testa fa quel che vuole purché in un raggio d’azione assai limitato.
Le sgroppate di Nilton Santos, sempre meno frequenti, suggeriscono a Moreira di passare da uno spregiudicato 4-2-4 a un più prudente 4-3-3 che consente all’anziano terzino una maggiore assistenza in copertura sulla propria fascia di competenza. in quel ruolo Zagallo sa dare il meglio di sé e “a enciclopedia”, classe 1926, di tanto in tanto può anche tirare il fiato.
Sul malconcio Garrincha agiscono in prima battuta l’esperto Novak e in raddoppio l’ala tornante Jelinek, che in coppia costituiscono una gabbia dalla quale il Passero solitario non uscirà che sporadicamente e senza mai essere realmente pericoloso.
Sudamericani inaspettatamente sulla difensiva quindi, attaccati da quella stessa Cecoslovacchia che per il suo «jogo distrutivo baseado no contra-ataque» era stata fin lì duramente bacchettata dalla stampa brasiliana. Gli spettatori sugli spalti e i telespettatori in collegamento dal resto del mondo in quei primi minuti non credono ai propri occhi: il grande Brasile che in prima linea schiera Garrincha-Didi-Vavá-Amarildo-Zagallo è costretto a rinculare a far la guardia a Gilmar. Inaudito. E troppo assurdo per durare. al 9’, in un’azione di alleggerimento i verdeoro si lanciano in avanti e si rendono subito pericolosi. Colpo di testa di Garrincha e prima prodezza di Schrojf. Ma è un fuoco di paglia.
Passano sei minuti e la Cecoslovacchia va in vantaggio. Un colpo di genio di Pospichal innesca Masopust che avanza verso Gilmar e lo beffa con una conclusione dalla breve distanza che ne anticipa l’uscita: 1-0. Ma la gioia ceca dura poco.
Un paio di minuti, ad essere precisi, quel tanto che basta ad Amarildo per continuare a non far rimpiangere Pelé. Lanciato da Zagallo sull’out mancino, il garoto (ragazzino) si produce in un’apprezzabile azione personale e dopo aver superato Pluskal va sul fondo da dove lascia partire una parabola impossibile che anziché essere un traversone, come ipotizzato da Schrojf, finisce per trasformarsi in un tiraccio che va ad infilarsi là dove il portiere avversario non può arrivare. Uno a uno e tutto da rifare. Superata la grande paura, il Brasile, quel Brasile, può solo migliorare e adesso per i cechi si fa davvero dura.
Il primo tempo non produce altri sussulti e il risultato pare andare addirittura stretto alla sorprendente formazione europea; i sudamericani, dal canto loro, hanno palesato una buona (e fino ad allora insospettata) tenuta difensiva, con i due Santos sulle fasce e al centro con la coppia formata da Mauro e Zózimo.
La ripresa comincia sulla falsariga della prima frazione di gara ma a un ritmo meno serrato. Gli uomini di Vytlacil, sicuri della propria forza fisica, se ne stanno rintanati pronti ad attendere l’ineluttabile calo atletico degli avversari ma fanno i conti senza l’oste, quell’oste che in finale ce li ha portati di peso ma che nel gran giorno dell’ultimo atto sarebbe stato particolarmente sfortunato. all’8’, Garrincha va vicinissimo al gol ma dopo essersi liberato di tre avversari spreca tutto.
Undici minuti dopo prova a replicare Jalinek ma sul pericoloso diagonale si avventa Gilmar e il Brasile si salva. al 23’, il (secondo) patatrac di Schrojf. Amarildo, ancora lui, su servizio di Didi se ne va sulla sinistra e mette al centro un pallone sul quale il numero uno ceco, che solitamente sulle palle alte è un gatto a nove braccia, cincischia senza intervenire, a Zito non pare vero e di testa fa 2-1.
Per il mediano è il giusto premio ad una delle sue rare sortite offensive, per il miglior portiere del torneo la più crudele delle beffe.
E non è finita. Al 28’, un brivido corre sulle schiene della «torcida»: l’irriducibile Jelinek tira dal limite dell’area, ma il pallone va a sbattere sul braccio di Djalma Santos. L’arbitro, il sovietico Latishev, opta per l’involontarietà – ai tempi ancora contava – e lascia correre fra le proteste ceche. Poi, è solo Brasile. al 32’, Djalma Santos scende sulla fascia destra e crossa, in area ceca c’è un rimpallo e Schrojf, probabilmente abbagliato dal sole, si lascia scappare il pallone che rotola giusto sui piedi di Vavá: 3-1. troppo facile, poco giusto. Soprattutto per Schrojf, portiere fortissimo in acrobazia ma talvolta troppo plateale.
La fortuna gli volta le spalle proprio nella partita della vita, quella che non ammette seconde chance. ironia della sorte, prima della finale, negli spogliatoi, delegati della FIFA gli avevano consegnato la targa come miglior portiere del torneo. Dopo aver sventato almeno tre palle-gol contro l’Ungheria nei quarti ed essersi ripetuto contro la Jugoslavia in semifinale, si ritrova sul groppone la responsabilità di almeno due dei tre gol brasiliani. «Se mi avessero detto che avrei perso la finale col Brasile, e per via di due incredibili errori del mio giocatore migliore, non ci avrei mai creduto», dirà alla fine l’inconsolabile Ct ceco Vytlacil. Ha ragione, ma contro i marziani ci volevano perlomeno le astronavi e forse non bastavano neanche.
La gara regala un’ultima emozione al penultimo minuto di gioco, quando il guardiano ceco si riscatta almeno parzialmente negando ad Amarildo, autore di 3 gol in quattro partite, la rete del 4-1. Sarebbe troppo.
LA TATTICA
Nel mondiale delle botte e delle intimidazioni assortite, c’è poco se non pochissimo da registrare sul profilo tattico. il Brasile è praticamente identico a quello di Svezia 58, fatte le eccezioni di cui sopra. e hai detto niente verrebbe da aggiungere. Se agli avversari devi regalare un certo Pelé, è chiaro che qualcosina ti cambia. Oh, se poi lo stellone ti dà in sorte un Amarildo in versione re Mida capace di tramutare in oro (leggi gol) tutto ciò che tocca, allora buonanotte.
L’unico accorgimento che il buon Moreira si concede è l’arretramento del sagace Zagallo a copertura dell’ormai anziano Nilton Santos. E così lo spettacolare 4-4-2 ereditato da Feola si tramuta alla bisogna in un più prudente 4-3-3 e “a enciclopedia” può regalare e regalarsi gli ultimi scampoli di gloria.
Ad ulteriore riprova del grigiore generale che ha contraddistinto questa edizione dei campionati, la presenza in finale di una Cecoslovacchia lontana parente della formazione che aveva così duramente conteso il titolo all’Italia nel ’34.
Fra i cechi di campioni veri ce sono pochini, diremmo due: il geometrico mediano Masopust e il portiere Schroijf, e del secondo sapete già abbastanza. il resto è un’onesta brigata di comprimari che centra col secondo posto finale, meritato finché si vuole, un traguardo che forse va oltre il suo effettivo valore.
Sul piano tecnico, come canto del cigno della scuola danubiana, non è male la linea mediana formata da Pluskal e Poluhar, quasi insuperabili se in giornata di grazia. davanti invece non si va al di là della sufficienza: il centravanti-interno Scherer non può certo reggere il paragone con grandi del passato come Nejedly, Sobotka e Svoboda. in un mondiale che porta in sé i primi (inquietanti) segnali del nuovo Calcio – corsa, botte e praticità a scapito della tecnica – tanto di cappello agli uomini di Vytlacil. Ma per fortuna del football ha vinto il Brasile.
CHRISTIAN GIORDANO ©
IL TABELLINO
Santiago del Cile (estadio Nacional), 17 luglio 1962
Brasile-Cecoslovacchia 3-1 (1-1)
Brasile: Gilmar; Djalma Santos, Nilton Santos; Zito, Mauro, Zózimo; Garrincha, Didi, Vavá, Amarildo, Zagallo. Ct: Aymoré Moreira.
Cecoslovacchia: Schrojf; Tichy, Novak; Pluskal, Popluhar, Masopust; Pospichal, Scherer, Kvasnak, Kadraba, Jelinek. Ct: Rudolf Vytlacil.
Arbitro: Latishev (Urss).
Marcatori: 15’ Masopust (C), 17’ Amarildo (B), 68’ Zito (B), 77’ Vavá (B).
Spettatori: 68 mila circa.
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