FOOTBALL PORTRAITS - Park Ji-Sung, il Maratoneta
“Three-Lung Park”, Park tre-polmoni. Così all’Old Trafford chiamano il primo coreano giunto in Premier League. Scontato quanto azzeccato nickname per uno che sulla corsa (ma non solo) ha costruito una carriera in apparenza preclusa a un fisichino da calcio d’altri tempi. Minuto e inesauribile sì, ma spesso rotto. Proprio i frequenti infortuni infatti hanno frenato l’ascesa di Park Ji-Sung, tuttofare che il Manchester United ha pescato nel 2002 dal PSV Eindhoven, fucina estera prediletta da cui Sir Alex, un anno prima, aveva prelevato il bomber Ruud van Nistelrooy.
Il vero uomo della Provvidenza, per il calciatore più popolare in Corea del Sud, è però Guus Hiddink, il mago olandese artefice – da Ct - dello storico quarto posto mondiale della nazionale sudcoreana nel 2002. Fu lui a dirottare su binari esterni un sin lì discreto centrocampista difensivo. E a farne così la fortuna prima di portarselo dietro per risedersi sulla panchina del PSV Eindhoven. E così il primo coreano a giocare nella J-League, la massima divisione giapponese, senza averlo fatto nella K-League coreana, diventa il secondo a sbarcare in Eredivisie. Quattro mesi dopo un altro nazionale, Lee Young-Pyo.
Park è nato il 25 febbraio 1981 a Suwon, capoluogo della provincia di Gyeonggi-do e sobborgone industriale da oltre un milione di abitanti stipati a una trentina di chilometri a sud di Seul. Cresce (pochino: 1,76 x 70 kg) nel quartiere operaio di Goheung, dove alle superiori viene respinto da diversi club professionistici: troppo basso. È allora che il papà comincia a fargli ingurgitare dosi cavalline di maleodoranti zuppe di rana «per diventare alto». Un limite, la statura del pargolo, mai parso tale al suo allenatore di liceo, Lee Hak-Jong: «Era il più basso della squadra, ma anche il più in forma. E nessuno aveva la sua disciplina, la sua etica lavorativa. Non ricordo di averlo mai visto non presentarsi, o fare tardi, a un allenamento».
Su raccomandazione del suo ex allenatore approda alla Myongji University. Lì, nel 2000, lo scova il Kyoto Purple Sanga, neoretrocesso in J2, la seconda divisione giapponese. L’anno dopo, vince il campionato e conquista la promozione. Nel 2002, trascina la squadra allo storico primo successo in Coppa dell’Imperatore e in finale firma (di testa) l’1-1 e l’assist per il conclusivo 2-1 di Kurobe. Ma la stagione successiva, la squadra retrocede di nuovo e Park (11 gol in tre anni) raggiunge il suo mentore Hiddink, rientrato in patria dopo il mondiale nippocoreano.
Mentre Lee è subito titolare al centro della difesa, causa acciacchi e difficoltà di ambientamento Park fatica a trovare spazio. Ma già dal 2003-04 il suo adattamento alla realtà olandese, in campo e fuori, palesa notevoli miglioramenti. E a partire dalla stagione seguente, complice il trasferimento del’la sinistra Robben al Chelsea, si ritaglia un ruolo sempre più importante. Insieme con Vogel, Van Bommel, Cocu e Beasley innerva la dorsale di centrocampo che fa tremare il Milan in semifinale di Champions League. Ed è suo il gol che apre il 3-1 casalingo degli olandesi, poi ribaltato dal 2-0 rossonero del “Meazza”.
Che ci crediate o no, al Philips Stadion diventa un idolo al punto che i tifosi gli dedicano una canzoncina (“Song for Park”) contenuta nell’album ufficiale “PSV Kampioen” e nella quale ne ripetono a oltranza il nome storpiato all’olandese. E dire che all’inizio lo ricoprivano di «buu» a ogni pallone toccato. A fine stagione, coronata da 13 gol nella doppietta campionato-coppa d’Olanda, firma per 6 milioni di euro (e dopo una lunga trafila burocratica per il permesso di lavoro) un quadriennale col Manchester United. Primo asiatico a diventarne capitano (in casa col Tottenham, quando il sostituito Giggs gli cede la fascia) e a vincere la Champions League, diventa subito un pupillo di Ferguson, ma il campo lo vede poco. Guai a una cartilagine, a un ginocchio (per cui salterà Pechino 2008) e, finalmente, il confortante avvio dell’annata 2008-09, complice l’operazione estiva a una caviglia di Cristiano Ronaldo.
Antipersonaggio per antonomasia, duttile e velocissimo, ambidestro e umile, Park è la quintessenza del giocatore di squadra. Ferguson l’adora, ma non si è fatto scrupoli nell’escluderlo dai 18 per la vittoriosa finale di Champions League 2008 contro il Chelsea. Eppure che nella corsa verso Mosca, Park era stato decisivo. Alla lettera: quasi 12 i km da lui percorsi contro il Barcellona nella semifinale di ritorno. Una copertura di campo paragonabile avvicinata solo da Joe Cole, esterno alto proprio del Chelsea.
La gara di campionato contro i Blues in campionato (con Park ala sinistra per limitare le avanzate di Bosingwa) e quella di Champions contro il Villarreal (due rigori a favore non fischiati) hanno dimostrato che di “Park tre-polmoni” il Man Utd ha bisogno come dell’aria per respirare. Perché se là davanti sono tanti, forse troppi (Berbatov, Cristiano Ronaldo, Tévez e Rooney), dietro poi si soffoca.
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