IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Scalatori esotici: Beat Breu


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Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books

Anni manichei gli Ottanta, periodo inviso agli aquilotti da montagna, magari per ragioni opposte: in Italia perché si spianarono le vette, all’estero a causa dell’eccesso di talento degli altri. 

(...)

Pedalatori come Bernard Hinault, Hennie Kuiper, Sean Kelly, Laurent Fignon, Greg LeMond resero inutile la specializzazione pronunciata: essendo adatti a tutto lo scibile agonistico, e correndo ovunque, relegarono gli scalatori a margine della storia principale. Bastavano due ore di vento, in una tappa agitata del Tour, a renderli inoffensivi. 

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Una citazione doverosa prima di un Bignami del poker di prescelti: Alberto Fernández, il torero della Cantabria artista dello scatto, che morì ventinovenne in un incidente stradale.

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Il biondino Beat Breu fu uno di questi: divenne l’arrampicatore principe del plotone internazionale per un biennio poi, per desuetudine alle alte quote raggiunte (contraddizione stridente per uno scalatore), si eclissò progressivamente. Eppure la sua silhouette inconfondibile rimase un culto degli anni Ottanta, così come la divisa de «gli unici anni di perfetta felicità», per dirla con Elias Canetti: la maglia rossogrigia della Cilo-Aufina. 

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Caratteristico nel suo dimenarsi sui pedali, insolitamente elegante, fu capace d’imprese entusiasmanti sulle pendenze più severe: iniziò la collezione sulle Tre Cime di Lavaredo al Giro 1981, e continuò dominando il Giro di Svizzera, un mese e mezzo dopo la vittoria, sorprendente, al Campionato di Zurigo. 

Lo stile, da vero nipotino di Charly Gaul, prevedeva una coltellata decisa, magari nel tratto di pendenza più cattivo, e poi un’andatura sostenuta, tutta impostata su ritmi regolari ma assai allegri; ciò ne fece anche un eccellente esemplare da cronoscalata. 

Beat fece sfracelli al Tour 1982, quando in molti, osservando il suo dominio sui gipiemme, predissero allo svizzero una probabile futura maglia gialla.

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Senza quello sproposito di chilometri a cronometro (duecentododici!), per lui il podio quell’anno sarebbe stato automatico. 

La Grande Boucle 1983, attesa dal sangallese come la terra promessa, lo respinse già sui Pirenei, l’anno prima da egli stesso monopolizzati: il Breu avrebbe continuato, durante il decennio, a frequentare (magari marginalmente) il gruppetto dei migliori quando la strada saliva, ma senza più numeri degni dell’epoca aurea. 

Con quel fisichino da peso piuma corse troppo e soprattutto, finita l’èra-Cilo, scelse la squadra giusta nel momento (e nel luogo) sbagliato: la Carrera. 

L’esperienza, dopo un paio di stagioni traballanti, terminò con un licenziamento per scarso rendimento nell’indifferenza di Beat stesso: in fin dei conti il postino, lavoro che svolse nei suoi anni di apprendistato amatoriale, esibì sempre una faccia da schiaffi, sorridente e beffarda, distante anni-luce dall’archetipo del ciclista serio e compassato. 

(...)

Il tramonto, assai poco Norma Desmond e parecchio Buster Keaton, lo portò a impegnarsi in ambiti diversi dagli abituali di uno sfregaselle: cantante, cabarettista, improbabile pistard quarantasettenne, proprietario di un club privé eccetera. Insomma, un mattocchio con la scocciatura del talento per le salite.


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